L’affidamento alternato nella casa familiare: tra tutela del minore e sostenibilità del modello nelle situazioni di conflitto

A cura dell’Avv. Francesca Coppola
La recente ordinanza del Tribunale di Roma, che ha disposto l’affidamento condiviso con permanenza del minore nella casa familiare e alternanza settimanale dei genitori, segna un momento di riflessione importante sull’evoluzione del diritto di famiglia e sull’effettiva tutela dell’interesse del minore. Pur animata da finalità protettive, la misura suscita perplessità sotto il profilo psicologico, economico e relazionale, specialmente nei casi caratterizzati da elevata conflittualità tra gli ex coniugi.
Il provvedimento si fonda sull’intento di garantire al bambino continuità nel proprio ambiente di vita, evitando che sia costretto a spostarsi tra le abitazioni dei genitori. Tale impostazione valorizza la bigenitorialità non come semplice principio di uguaglianza formale, ma come equilibrio nella presenza e nella responsabilità genitoriale. Tuttavia, la sua applicazione in contesti di forte tensione rischia di produrre effetti contrari a quelli perseguiti, generando confusione affettiva e precarietà emotiva per il minore. La casa familiare, che dovrebbe rappresentare un luogo di stabilità, diviene in questo schema uno spazio condiviso a turno, dove il bambino assiste a un continuo avvicendarsi dei genitori, percependo la separazione non come riorganizzazione, ma come ripetuta perdita.
Dal punto di vista psicologico, la decisione si fonda sull’assunto che la permanenza del minore nel medesimo ambiente garantisca continuità e sicurezza. Tuttavia, la stabilità non coincide necessariamente con l’immobilità fisica: per un bambino piccolo, la serenità deriva più dalla coerenza affettiva e dalla prevedibilità delle figure di riferimento che dal mantenimento dell’abitazione originaria. L’alternanza dei genitori, se priva di un clima collaborativo, rischia di compromettere la percezione di sicurezza del minore, che si trova a vivere in un contesto familiare statico ma relazionalmente instabile.
Sul piano pratico, la gestione di un simile modello impone sacrifici significativi agli adulti coinvolti. Alternarsi nella casa familiare comporta che ciascun genitore disponga di un alloggio alternativo per i periodi di assenza, con un inevitabile aggravio economico. In molti casi, tale organizzazione si traduce in soluzioni temporanee e precarie — ospitalità presso amici o parenti — che incidono sulla qualità della vita dei genitori e, di riflesso, su quella del figlio. La sostenibilità economica e logistica diviene così un elemento imprescindibile di valutazione, poiché una misura che non può essere realisticamente attuata rischia di trasformarsi in fonte di ulteriore conflitto.
Sotto il profilo processuale, l’ordinanza in esame presenta un ulteriore elemento di criticità: la sua natura provvisoria e la lunga attesa per la consulenza tecnica d’ufficio. Nel caso specifico, la situazione di alternanza è destinata a protrarsi per diversi mesi, in attesa di una valutazione definitiva sulla capacità genitoriale delle parti. Per un bambino di quattro anni, tale periodo rappresenta un arco temporale rilevante, durante il quale l’assenza di un assetto stabile può generare incertezza e disorientamento. La lentezza del procedimento familiare, pur necessaria per l’approfondimento istruttorio, si traduce in una sospensione affettiva e organizzativa difficilmente compatibile con i bisogni evolutivi del minore.
Particolarmente delicato è poi l’aspetto della conflittualità. Nel caso romano, il giudice ha ritenuto di imporre l’alternanza settimanale pur avendo accertato la presenza di gravi tensioni tra i genitori, incluse accuse reciproche di comportamenti aggressivi. In un simile contesto, la scelta di costringere le parti a condividere la gestione della medesima abitazione rischia di avere un effetto punitivo più che rieducativo. La convivenza turnaria, lungi dal favorire la collaborazione, può diventare terreno di scontro indiretto, in cui ogni passaggio di consegne diviene occasione di frizione. Tale dinamica non solo non attenua il conflitto, ma tende ad amplificarlo, esponendo il bambino a un clima di tensione costante.
Da un punto di vista sistematico, la pronuncia evidenzia il rischio di sovrapporre il principio di bigenitorialità all’esigenza di stabilità del minore. La giurisprudenza di legittimità ha già chiarito che la condivisione dell’abitazione familiare da parte dei genitori separati è praticabile solo in presenza di accordo e cooperazione. Quando la relazione è segnata da ostilità, la ricerca di una parità aritmetica dei tempi di presenza non coincide con la realizzazione dell’interesse del minore, che deve essere inteso come sintesi tra continuità affettiva, sicurezza e serenità quotidiana. La tutela del bambino non può ridursi a un bilanciamento formale dei diritti dei genitori, ma deve fondarsi su una valutazione concreta della qualità delle relazioni e della capacità di ciascuno di garantire un ambiente emotivamente stabile.
L’ordinanza del Tribunale di Roma, pur nella sua valenza innovativa, conferma la necessità di un approccio giudiziale più prudente e flessibile. La protezione del minore esige che le decisioni provvisorie siano realmente sostenibili e non si trasformino in esperimenti sociali a tempo indeterminato. Ogni scelta che incide sull’ambiente di vita di un bambino deve bilanciare il principio di uguaglianza genitoriale con la realtà delle risorse emotive, economiche e relazionali degli adulti coinvolti.
Il dibattito aperto da questa decisione sollecita una riflessione più ampia sul concetto stesso di casa familiare. Essa non è solo uno spazio fisico, ma il simbolo di una protezione che deve restare costante, anche quando l’unità genitoriale si frantuma. L’obiettivo del diritto non dovrebbe essere quello di replicare artificialmente l’unità perduta, ma di costruire per il minore un contesto nuovo, coerente e rassicurante. In tale ottica, la continuità non può essere solo materiale: deve essere soprattutto affettiva.
31 ottobre 2025
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La qualificazione del rapporto tra agenzia e procacciamento d’affari nella recente giurisprudenza di legittimità

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino
La recente ordinanza n. 27571 del 16 ottobre 2025 della Corte di cassazione rappresenta un nuovo e significativo tassello nel complesso quadro interpretativo volto a distinguere il contratto di agenzia dal procacciamento d’affari. La pronuncia, inserendosi in una linea ormai consolidata, riafferma la centralità del criterio della stabilità e continuità della collaborazione quale elemento dirimente ai fini della qualificazione del rapporto, con importanti riflessi in materia previdenziale e contributiva. Il caso trae origine dal contenzioso tra un’impresa e l’ente previdenziale degli agenti e rappresentanti di commercio, in merito all’obbligo di iscrizione e versamento dei contributi per soggetti qualificati dall’impresa come procacciatori occasionali. La Suprema Corte, rigettando il ricorso, conferma l’impostazione della Corte d’appello di Roma, secondo cui la relazione intrattenuta con tali intermediari presentava tutti i tratti tipici del contratto di agenzia, non potendo essere ricondotta a una mera attività di procacciamento.
L’inquadramento normativo del contratto di agenzia, disciplinato dagli articoli 1742 e seguenti del Codice civile, evidenzia il carattere professionale e continuativo dell’attività dell’agente, chiamato a promuovere, per conto del preponente, la conclusione di contratti in una zona determinata. Tale attività si distingue per la stabilità dell’incarico e per l’inserimento dell’agente nell’organizzazione commerciale dell’impresa mandante, pur nella piena autonomia gestionale. L’agente, inoltre, assume il rischio economico dell’attività svolta e percepisce una provvigione proporzionale agli affari conclusi. Il procacciatore d’affari, figura atipica di origine pretoria, ne costituisce invece un modello residuale e flessibile, caratterizzato dall’occasionalità e dalla libertà d’iniziativa. Egli agisce senza vincolo di stabilità, non dispone di poteri di rappresentanza e si limita a segnalare potenziali clienti o affari al preponente, percependo un compenso solo se la transazione si conclude.
La Corte di cassazione, coerentemente con il proprio orientamento, ha ribadito che la qualificazione giuridica di un rapporto non dipende dalla denominazione formale attribuita dalle parti, ma dal concreto atteggiarsi della collaborazione. L’analisi deve dunque privilegiare gli elementi fattuali che ne delineano la natura sostanziale. Nel caso di specie, la presenza di lettere d’incarico contenenti l’assegnazione di specifiche aree territoriali, la previsione di clausole di continuità stagionale e la regolarità dei compensi provvigionali hanno consentito di riconoscere un rapporto stabile e duraturo, tipico dell’agenzia. Particolarmente rilevante è il richiamo operato dalla Corte ai principi consolidati secondo cui la sussistenza di un vincolo di stabilità e la reiterazione dell’attività promozionale nel tempo integrano i presupposti essenziali dell’articolo 1742 del Codice civile. Laddove, invece, l’attività si limiti alla mera raccolta di ordinativi o alla segnalazione di affari occasionali, senza coordinamento con il preponente e senza una zona di competenza, si ricade nell’ambito del procacciamento.
Il valore della decisione non risiede soltanto nella ricostruzione dei criteri distintivi tra le due figure, ma anche nell’attenzione riservata al regime previdenziale connesso all’attività di intermediazione commerciale. La Cassazione riafferma infatti che, ai fini dell’iscrizione presso l’ente previdenziale di categoria, ciò che rileva non è la qualificazione contrattuale dichiarata, bensì la sostanza del rapporto, desumibile dalla continuità della collaborazione e dalla dipendenza economica del soggetto. In questo senso, la pronuncia si pone in linea con precedenti che valorizzano la finalità di tutela insita nel sistema previdenziale, volto ad assicurare la copertura contributiva a coloro che, pur operando formalmente come autonomi, esercitano di fatto un’attività di intermediazione stabile e professionale.
L’ordinanza, inoltre, affronta il tema dell’interpretazione dei regolamenti interni degli enti previdenziali categoriali, ribadendo che tali atti hanno natura negoziale e non normativa in senso proprio, sicché eventuali violazioni vanno denunciate non come violazioni di legge, ma secondo i criteri ermeneutici previsti dall’articolo 1362 del Codice civile. Tale precisazione conferma l’orientamento della giurisprudenza di legittimità nel qualificare i regolamenti delle casse professionali come atti di autonomia privata sottoposti ad approvazione ministeriale, ma non per questo assimilabili a fonti normative.
La sentenza in commento offre dunque un contributo significativo sul piano sistematico, ponendo al centro il principio di prevalenza della realtà effettiva rispetto alla forma contrattuale. L’indagine giudiziale, in tal senso, deve orientarsi verso una verifica sostanziale delle modalità di svolgimento dell’attività, della durata della collaborazione e dell’inserimento dell’intermediario nell’organizzazione dell’impresa. La distinzione tra agente e procacciatore non è meramente terminologica, ma comporta conseguenze rilevanti in termini di obblighi contributivi, diritti economici e tutele contrattuali. L’agente beneficia, ad esempio, delle garanzie previste dall’articolo 1751 del Codice civile in materia di indennità di cessazione, istituto inapplicabile al procacciatore proprio in ragione dell’assenza di stabilità.
Sotto il profilo economico-giuridico, l’ordinanza 27571/2025 richiama gli operatori alla necessità di una corretta impostazione contrattuale dei rapporti di intermediazione, evitando improprie qualificazioni che possano generare contenziosi onerosi in materia previdenziale. L’esigenza di certezza giuridica, unita al principio di effettività, impone alle imprese una valutazione preventiva della natura dell’attività affidata agli intermediari, distinguendo accuratamente tra rapporti continuativi e occasionali. In prospettiva sistematica, la decisione contribuisce a consolidare un modello interpretativo coerente con l’evoluzione del mercato, in cui la linea di confine tra collaborazione stabile e attività autonoma occasionale tende a farsi sempre più sottile, ma non per questo meno rilevante sotto il profilo giuridico.
La pronuncia in esame conferma che nel diritto dell’intermediazione commerciale la sostanza del rapporto prevale sulla sua forma. La qualificazione giuridica deve fondarsi su un accertamento concreto delle modalità di svolgimento dell’attività, del grado di continuità e dell’inserimento nell’organizzazione del preponente. Solo attraverso una rigorosa analisi fattuale è possibile garantire equilibrio tra autonomia contrattuale e tutela previdenziale, preservando al contempo la certezza dei rapporti giuridici e la correttezza del mercato.
31 ottobre 2025
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L’affidamento “a nido” e la centralità dell’habitat del minore: profili giuridici e sistematici della recente giurisprudenza di merito

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino
La recente pronuncia del Tribunale di Roma, n. 13579 del 9 ottobre 2025, offre un’occasione di riflessione di particolare rilievo sull’evoluzione dell’affidamento condiviso nel diritto di famiglia. Essa rappresenta infatti un punto di svolta interpretativo, poiché valorizza il principio di continuità dell’habitat del minore, pur in un contesto di elevata conflittualità tra i genitori. La decisione si inserisce nel solco del diritto vivente delineato dall’art. 337 sexies c.c. e dagli artt. 473-bis ss. c.p.c., ma lo reinterpreta secondo una prospettiva di equilibrio tra il principio di bigenitorialità e la tutela concreta dell’interesse superiore del figlio.
Nel caso esaminato, il giudice ha disposto, in via provvisoria, un affidamento condiviso “alternato” – o, secondo la terminologia di derivazione anglosassone, nesting – prevedendo che il minore resti stabilmente nella casa familiare, mentre i genitori si avvicendino settimanalmente nell’abitazione. Tale soluzione, sinora poco praticata nella giurisprudenza nazionale, è stata adottata nonostante l’elevato livello di conflitto, come emerge dagli accertamenti dei servizi sociali, e in pendenza di una consulenza tecnica d’ufficio volta a verificare le capacità genitoriali di entrambi. La scelta di evitare l’assegnazione della casa familiare a uno solo dei genitori – provvedimento che di norma cristallizza la posizione di chi risulta collocatario – assume, in questo quadro, un valore paradigmatico: essa risponde all’esigenza di ricondurre la residenza del minore al suo centro affettivo e materiale, sottraendola alla logica possessoria che sovente caratterizza il contenzioso familiare.
Dal punto di vista sistematico, la decisione si pone in tensione con l’impostazione tradizionale che interpreta la stabilità abitativa come sinonimo di unicità del luogo di vita del minore presso un solo genitore. Il giudice capitolino ha invece ritenuto che la continuità debba riferirsi primariamente all’ambiente di crescita e non alla figura genitoriale prevalente. Tale impostazione, coerente con le linee guida europee sul principio del best interest of the child, valorizza il radicamento del minore nello spazio domestico originario, considerato come luogo di identità e di sicurezza emotiva. In questo senso, l’innovazione risiede non tanto nell’alternanza dei genitori, quanto nella conservazione dell’habitat del figlio quale bene giuridico meritevole di protezione diretta.
La misura presenta tuttavia implicazioni complesse sul piano applicativo. Essa presuppone una disponibilità economica idonea a consentire a ciascun genitore di reperire un’abitazione alternativa per i periodi di assenza, con un onere finanziario che non tutti possono sostenere. Inoltre, la gestione turnaria dell’abitazione richiede una cooperazione minima tra le parti, la cui mancanza potrebbe vanificare gli effetti protettivi perseguiti. Il decreto romano supera questi ostacoli attraverso la nomina di un curatore speciale del minore, figura introdotta dalla riforma Cartabia, con funzioni sostitutive nelle decisioni rilevanti per la vita del bambino. Tale scelta accentua la dimensione pubblicistica della responsabilità genitoriale, affidando al giudice e ai soggetti ausiliari il compito di bilanciare la conflittualità con l’interesse del minore a una genitorialità paritaria e non esclusiva.
La motivazione del provvedimento, nel disporre la turnazione settimanale dei genitori nella casa familiare, mostra un approccio pragmatico ma anche pedagogico. L’obbligo per entrambi di allontanarsi periodicamente dalla dimora comune rappresenta un correttivo simbolico rispetto a prassi giudiziarie che, pur in nome della tutela dei figli, finiscono spesso per privilegiare le aspettative abitative del genitore “collocatario”. In tal modo, la pronuncia romana rovescia la prospettiva tradizionale: non più il minore che segue il genitore, ma i genitori che si alternano nel luogo del figlio. Ciò restituisce all’art. 337 sexies c.c. la sua ratio originaria, ossia garantire la continuità delle condizioni di vita del minore, sottraendola alla deriva patrimoniale che l’istituto dell’assegnazione della casa familiare ha spesso assunto.
Sotto il profilo dogmatico, la soluzione si collega alla crescente attenzione dottrinale verso la funzione “relazionale” della residenza familiare. L’unità abitativa non è più concepita quale mero bene materiale, ma come spazio di tutela della personalità del minore ai sensi degli artt. 2 e 30 della Costituzione. Il decreto in esame sembra dunque anticipare un possibile sviluppo della giurisprudenza di legittimità in senso maggiormente sostanzialistico, idoneo a valorizzare la parità genitoriale non solo nella titolarità dei diritti, ma anche nell’effettività della presenza quotidiana. In tale prospettiva, l’affidamento “a nido” diviene un istituto-ponte tra il modello condiviso e quello esclusivo, capace di preservare il diritto del minore alla stabilità domestica senza compromettere la simmetria tra le figure genitoriali.
Le implicazioni prospettiche di tale approccio sono significative. Se la prassi dovesse consolidarsi, l’assegnazione della casa familiare perderebbe il carattere di automatismo collegato al collocamento prevalente, recuperando una funzione autenticamente protettiva dell’infanzia. Parallelamente, la figura del curatore speciale potrebbe assumere un ruolo strutturale nelle situazioni di alta conflittualità, fungendo da garante dell’interesse del minore nei momenti in cui la mediazione tra i genitori si rivela impossibile. Ne deriverebbe un diritto di famiglia sempre più orientato alla tutela dell’infanzia come soggetto autonomo e non come riflesso dei diritti parentali.
La pronuncia del Tribunale di Roma si configura come un laboratorio giurisprudenziale di grande portata. Essa sperimenta un modello di convivenza genitoriale che, pur non privo di criticità, si fonda su una visione paritaria della genitorialità e su un’applicazione dinamica dell’art. 337 sexies c.c. L’affidamento “a nido” non è dunque soltanto un espediente organizzativo, ma una risposta coerente alle trasformazioni sociali e culturali della famiglia contemporanea. La sua diffusione potrebbe contribuire a riequilibrare la tensione tra conflitto genitoriale e centralità del minore, restituendo al diritto di famiglia la sua funzione primaria di protezione dei soggetti più vulnerabili.
31 ottobre 2025
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