Consapevolezza del pregiudizio e credito eventuale nella revocatoria degli atti gratuiti. Cassazione 31764/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino
La decisione in esame si colloca in un segmento ormai maturo della riflessione giurisprudenziale sull’azione revocatoria ordinaria, ma ne accentua taluni profili sistemici che meritano di essere isolati e discussi oltre la dimensione casistica. Il nucleo problematico non riguarda tanto la configurabilità astratta dell’azione, quanto la ricostruzione del rapporto temporale e concettuale tra atto di disposizione a titolo gratuito, insorgenza del credito e requisito soggettivo richiesto dall’articolo 2901 del codice civile. In particolare, la pronuncia consente di interrogarsi sulla portata effettiva della nozione di credito rilevante ai fini della conservazione della garanzia patrimoniale e sul contenuto minimo della consapevolezza del debitore quando l’atto dispositivo preceda l’accertamento formale del credito, ma non la sua genesi sostanziale.
L’azione revocatoria ordinaria, nella sua funzione tipica, si colloca come strumento di riequilibrio tra autonomia dispositiva del debitore e tutela dell’affidamento del creditore sulla integrità del patrimonio generico. La tensione tra questi poli si manifesta con particolare evidenza quando l’atto impugnato sia gratuito e venga posto in essere in una fase in cui il rapporto obbligatorio non ha ancora assunto i contorni della certezza giuridica. In tali ipotesi, il rischio di una lettura eccessivamente formalistica del requisito del credito è quello di svuotare la funzione preventiva dell’azione, relegandola a rimedio meramente reattivo, attivabile solo a fronte di una lesione ormai consolidata.
La Corte di cassazione, con l’ordinanza 4 dicembre 2025, n. 31764, prende posizione in modo netto su questo punto, riaffermando un’impostazione che privilegia la dimensione sostanziale del credito rispetto alla sua formale accertabilità. Il credito, ai fini dell’articolo 2901 del codice civile, non coincide con una pretesa già liquida ed esigibile, né richiede un titolo giudiziale o arbitrale che ne certifichi l’esistenza. È sufficiente che sussista una situazione giuridica soggettiva che, secondo una valutazione ex ante, renda ragionevolmente prevedibile l’insorgenza di una pretesa creditoriale, anche se ancora oggetto di contestazione o di accertamento futuro.
Questa nozione lata di credito, che ricomprende anche la mera aspettativa, non costituisce una forzatura interpretativa, ma risponde a una logica funzionale coerente con la ratio dell’azione revocatoria. Se la garanzia patrimoniale è intesa come presidio anticipato delle ragioni creditorie, non può essere circoscritta ai soli crediti già cristallizzati. Diversamente, il debitore potrebbe agevolmente sottrarsi alla responsabilità patrimoniale anticipando gli atti di spoliazione a un momento in cui il credito non è ancora formalmente sorto, ma è già sostanzialmente prevedibile.
In questa prospettiva, la Corte valorizza la distinzione tra momento genetico del credito e momento del suo accertamento. Il fatto che il credito venga riconosciuto in via formale solo in un momento successivo all’atto dispositivo non esclude che esso sia sorto, nella sua dimensione causale, anteriormente. Ciò che rileva non è la data del titolo che lo accerta, bensì il periodo in cui si è realizzata la condotta o il rapporto da cui il credito trae origine. Tale impostazione consente di evitare che l’azione revocatoria venga neutralizzata da una lettura meramente cronologica e consente di recuperare una visione unitaria del fenomeno obbligatorio.
Il passaggio più significativo della decisione riguarda, tuttavia, il requisito soggettivo richiesto per gli atti a titolo gratuito. La Corte ribadisce che, in tali ipotesi, non è richiesta una volontà fraudolenta in senso tecnico, né una dolosa preordinazione diretta a ledere il creditore. La scientia damni si atteggia come semplice conoscenza del pregiudizio che l’atto è idoneo a arrecare alle ragioni creditorie. Non si tratta, dunque, di accertare un’intenzione di nuocere, ma di verificare se il debitore fosse consapevole, al momento dell’atto, della diminuzione della garanzia patrimoniale e delle sue potenziali conseguenze.
Questa ricostruzione attenua in modo significativo il carico probatorio gravante sul creditore e rafforza la funzione conservativa dell’azione revocatoria. La consapevolezza del danno non coincide con la percezione dell’insolvenza, né richiede la rappresentazione di un futuro inadempimento, ma si esaurisce nella conoscenza del fatto che l’atto riduce o compromette la possibilità di soddisfacimento del credito. In tal senso, la Corte si colloca nel solco di un orientamento consolidato, ma ne offre una declinazione particolarmente rigorosa sul piano applicativo.
È rilevante osservare come la decisione affronti implicitamente il problema della prova di tale consapevolezza. La Corte ammette che essa possa essere desunta da elementi indiziari, valorizzando il contesto complessivo in cui l’atto è stato compiuto. La gratuità dell’atto, il rapporto di prossimità tra disponente e beneficiario, il momento in cui interviene la disposizione rispetto alle vicende che hanno dato origine al credito costituiscono indici sintomatici idonei a fondare una presunzione di scientia damni. Ne emerge una concezione elastica della prova, coerente con la natura stessa dell’elemento soggettivo richiesto.
Sotto il profilo sistemico, la pronuncia contribuisce a chiarire il rapporto tra azione revocatoria e certezza dei traffici giuridici. L’estensione della tutela del creditore a crediti eventuali o litigiosi potrebbe, a prima vista, apparire come un fattore di instabilità. Tuttavia, la Corte bilancia questo rischio limitando l’operatività dell’azione ai soli casi in cui l’atto sia idoneo a produrre un concreto pregiudizio e in cui il debitore sia consapevole di tale effetto. La revocatoria non diviene, così, uno strumento di sindacato generalizzato sull’autonomia privata, ma resta confinata alla funzione di riequilibrio della garanzia patrimoniale.
Un ulteriore profilo di interesse riguarda la qualificazione temporale dell’atto dispositivo. La Corte esclude che la semplice anteriorità dell’atto rispetto all’accertamento del credito possa, di per sé, escludere la revocabilità. Ciò comporta un superamento definitivo di letture che, facendo leva sulla sequenza cronologica, tendevano a restringere l’ambito applicativo dell’articolo 2901 del codice civile. L’attenzione si sposta dal dato formale a quello sostanziale, imponendo al giudice di merito una valutazione complessiva delle circostanze del caso concreto.
In questa chiave, la decisione rafforza l’idea di una responsabilità patrimoniale concepita come dovere dinamico di conservazione della garanzia, che si attiva già nella fase in cui il debitore è consapevole dell’esistenza di un rischio di esposizione. Il patrimonio non è più visto come una massa statica liberamente disponibile fino al momento dell’inadempimento, ma come uno strumento funzionalizzato alla tutela dei creditori potenziali. Tale impostazione si inserisce in una più ampia evoluzione del diritto patrimoniale, orientata a valorizzare la correttezza e la lealtà nei rapporti obbligatori.
Le ricadute pratiche della pronuncia sono rilevanti. Essa amplia l’area di rischio per il debitore che compie atti gratuiti in una fase di incertezza, imponendo una maggiore attenzione alla prevedibilità delle conseguenze patrimoniali delle proprie scelte. Al tempo stesso, rafforza la posizione del creditore, che può agire in revocatoria anche in presenza di un credito non ancora accertato, purché ne dimostri l’origine sostanziale e il pregiudizio arrecato. Ne deriva un riequilibrio del rapporto tra autonomia e responsabilità, coerente con la funzione sociale della responsabilità patrimoniale.
L’ordinanza n. 31764 del 2025 conferma e al contempo precisa un orientamento che concepisce l’azione revocatoria come strumento di tutela anticipata delle ragioni creditorie. La nozione lata di credito e la riduzione del requisito soggettivo alla semplice consapevolezza del pregiudizio rappresentano due pilastri di questa ricostruzione, che privilegia la sostanza sulla forma e rafforza la funzione preventiva dell’istituto. La decisione si segnala, così, non solo per la soluzione del caso concreto, ma per la sua capacità di offrire una lettura sistemica dell’articolo 2901 del codice civile, coerente con le esigenze di effettività della tutela patrimoniale.
23 dicembre 2025
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Il consenso genitoriale quale presupposto selettivo delle spese formative straordinarie nel mantenimento dei figli. Cassazione 33411/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino
La questione dell’imputazione delle spese universitarie sostenute per i figli maggiorenni, quando il percorso formativo si svolga in un contesto oneroso e non ordinario, continua a rappresentare uno dei punti di maggiore frizione nel sistema del mantenimento post-coniugale. Il tema si colloca in un’area di confine nella quale l’obbligazione genitoriale, pur rimanendo ancorata alla finalità costituzionale di garantire lo sviluppo della persona, incontra limiti funzionali connessi alla ripartizione delle scelte educative e al valore giuridico del consenso. L’ordinanza n. 33411 del 2025 consente di interrogarsi non tanto sull’estensione astratta del dovere di mantenimento, quanto sulla sua concreta modulazione quando il titolo giudiziale che lo disciplina abbia già operato una selezione preventiva delle spese rimborsabili, subordinandole a un accordo tra i genitori.
Nel quadro normativo vigente, il mantenimento dei figli, anche oltre il raggiungimento della maggiore età, si configura come obbligazione complessa, caratterizzata da un contenuto elastico, suscettibile di adattamento alle condizioni economiche delle parti e alle esigenze evolutive del beneficiario. La distinzione tradizionale tra spese ordinarie e straordinarie ha assunto nel tempo una funzione eminentemente pratica, volta a governare la prevedibilità dell’esborso e le modalità di contribuzione. Tuttavia, tale distinzione non esaurisce il problema quando il giudice, nel regolare il rapporto, abbia espressamente previsto che determinate voci di spesa, pur collegate all’istruzione, richiedano un previo consenso, trasformando la spesa stessa da fatto oggettivo a espressione di una scelta condivisa.
L’istruzione universitaria rappresenta, sotto questo profilo, un terreno particolarmente sensibile. Se è vero che il completamento della formazione costituisce una naturale prosecuzione del percorso educativo e, in linea di principio, rientra nell’area di copertura dell’obbligo di mantenimento, è altrettanto vero che la selezione dell’istituzione, specie quando comporti costi significativamente superiori alla media, non può essere considerata neutra. La scelta di un’università privata o straniera non incide soltanto sull’entità dell’esborso, ma riflette una determinata opzione culturale ed economica, che il sistema non presume automaticamente condivisa.
L’ordinanza in esame si colloca in questa prospettiva, valorizzando il dato, spesso trascurato nel dibattito, del giudicato formatosi sulle condizioni del mantenimento. Il provvedimento che aveva regolato il rapporto tra i genitori aveva infatti distinto tra contributo fisso mensile e spese ulteriori, subordinando queste ultime a un accordo preventivo. Tale clausola non si limita a disciplinare le modalità di rimborso, ma introduce una vera e propria condizione di esigibilità dell’obbligazione. In altri termini, il consenso non opera come mero requisito formale, bensì come elemento costitutivo del diritto al rimborso.
La ricostruzione operata consente di cogliere un aspetto sistemico di particolare rilievo. La regola, secondo cui le spese sostenute nell’interesse dei figli possono essere rimborsate anche in assenza di previo assenso, non ha valore assoluto. Essa trova applicazione in mancanza di una diversa regolamentazione giudiziale. Quando, invece, il giudice abbia ritenuto di affidare all’accordo delle parti l’individuazione delle spese ulteriori, la discrezionalità genitoriale viene ricondotta entro uno schema cooperativo vincolante. In tale contesto, l’iniziativa unilaterale, per quanto ispirata all’interesse del figlio, non è sufficiente a generare un obbligo di contribuzione in capo all’altro genitore.
La decisione si segnala anche per l’attenzione riservata al rapporto tra giudicato e successive pretese creditorie. Non viene affermata una preclusione sul quantum delle spese sostenute, bensì sulla loro rimborsabilità in difetto del presupposto consensuale. Il giudicato, dunque, non cristallizza l’ammontare dell’obbligazione, ma il criterio giuridico che ne governa la nascita. Ciò comporta che ogni azione successiva volta al recupero delle somme debba misurarsi non con l’utilità della spesa, ma con la verifica dell’accordo preventivo, la cui mancanza è dirimente.
Sotto il profilo funzionale, tale impostazione contribuisce a riequilibrare il rapporto tra autonomia genitoriale e tutela del figlio. L’interesse di quest’ultimo non viene negato, ma mediato attraverso un meccanismo che evita di trasformare il dovere di mantenimento in una fonte di obbligazioni imprevedibili e potenzialmente sproporzionate. Il consenso assume così una funzione di filtro, idonea a selezionare le spese che, per natura e incidenza economica, esigono una decisione congiunta.
Non meno significativa è la ricaduta sul piano processuale. L’inammissibilità delle censure dirette a rimettere in discussione un assetto già definito evidenzia come l’ordinamento intenda scoraggiare un uso reiterato dello strumento giudiziario volto a superare indirettamente scelte non condivise. La sanzione applicata in relazione all’abuso del processo rafforza l’idea che il conflitto genitoriale, una volta regolato, non possa essere riaperto se non a fronte di elementi realmente nuovi, e non per contestare ex post la mancata partecipazione a una decisione unilaterale.
In una prospettiva più ampia, la pronuncia sollecita una riflessione sul significato contemporaneo della responsabilità genitoriale nei contesti di alta complessità economica. L’evoluzione dei percorsi formativi, sempre più internazionalizzati e differenziati, rende inevitabile il confronto con scelte ad elevato impatto finanziario. Il diritto, in questo scenario, sembra orientarsi verso una logica di corresponsabilità negoziata, nella quale l’interesse del figlio non giustifica automaticamente qualsiasi opzione, ma richiede un bilanciamento con le risorse e con la volontà di entrambi i genitori.
La soluzione adottata non appare, pertanto, espressione di un arretramento della tutela, bensì di una sua razionalizzazione. Il mantenimento non viene ridotto a una prestazione meramente monetaria, ma ricondotto a una dimensione relazionale, nella quale la scelta educativa diviene parte integrante dell’obbligazione. In tale ottica, il consenso non è un ostacolo, ma uno strumento di governo del conflitto, che consente di prevenire contenziosi e di attribuire certezza alle posizioni giuridiche.
Le implicazioni sistemiche di questa impostazione sono rilevanti anche per il futuro. È prevedibile che la regolamentazione giudiziale delle spese straordinarie assuma un ruolo sempre più centrale, inducendo i giudici a definire con maggiore precisione le condizioni di rimborsabilità. Ciò potrà favorire una maggiore chiarezza ex ante, riducendo il margine di interpretazioni divergenti e responsabilizzando i genitori nella fase decisionale.
La valorizzazione del consenso come presupposto selettivo delle spese formative straordinarie contribuisce a delineare un modello di mantenimento fondato non sull’automatismo, ma sulla cooperazione. Un modello che, pur muovendo dall’interesse del figlio, riconosce che tale interesse si realizza pienamente solo all’interno di un quadro di scelte condivise e giuridicamente sostenibili.
23 dicembre 2025
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L’intelligenza artificiale come fattore organizzativo nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Tribunale di Roma 9135/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino
L’evoluzione tecnologica e, in particolare, la progressiva integrazione di sistemi di intelligenza artificiale nei processi produttivi e organizzativi delle imprese solleva interrogativi di rilevante impatto sistematico sul diritto del lavoro. In tale contesto, il tema del licenziamento per giustificato motivo oggettivo assume una centralità rinnovata, poiché l’adozione di strumenti algoritmici incide direttamente sull’assetto delle mansioni e sull’organizzazione del lavoro umano. La recente giurisprudenza di merito ha offerto un contributo significativo nel chiarire se e a quali condizioni l’introduzione dell’intelligenza artificiale possa integrare una valida ragione organizzativa idonea a giustificare la soppressione di una posizione lavorativa.
Il quadro normativo di riferimento rimane ancorato ai principi tradizionali che regolano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, fondato su ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro o al regolare funzionamento dell’impresa. In tale ambito, l’ordinamento richiede la sussistenza di esigenze effettive e non meramente pretestuose, nonché un nesso causale diretto tra la scelta organizzativa e il recesso datoriale. A ciò si aggiunge l’obbligo di verificare l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili, secondo il principio del repêchage, che costituisce elemento strutturale della legittimità del licenziamento.
La decisione esaminata si inserisce in questo solco, affrontando il tema dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale non come fattore autonomo o eccezionale, bensì come strumento inserito in una più ampia strategia di riorganizzazione aziendale. Il giudice ha infatti ricondotto l’adozione di sistemi algoritmici a una scelta di efficientamento e contenimento dei costi maturata in un contesto di comprovata crisi economico-finanziaria. In tale prospettiva, l’intelligenza artificiale non viene considerata quale causa diretta e isolata del licenziamento, ma come uno degli elementi attraverso cui l’impresa realizza una razionalizzazione delle proprie risorse.
Particolare rilievo assume l’analisi della soppressione della posizione lavorativa. Dalla ricostruzione fattuale emerge che le mansioni originariamente svolte dal lavoratore sono state progressivamente ridimensionate, redistribuite all’interno dell’organizzazione e, in parte, assorbite da strumenti di intelligenza artificiale utilizzati a supporto delle attività residue. Ciò ha condotto a una effettiva cessazione delle funzioni originarie, con conseguente venir meno dell’utilità economico-organizzativa della posizione. In tale contesto, il giudice ha ritenuto che non rilevi la mera possibilità astratta che le mansioni possano continuare a esistere in forma diversa, ma occorra valutare se esse permangano come ruolo autonomo e necessario all’interno dell’assetto organizzativo.
La decisione dedica ampio spazio anche alla verifica dell’impossibilità di ricollocazione del lavoratore. In linea con l’orientamento consolidato, l’onere probatorio grava sul datore di lavoro, il quale deve dimostrare che non vi siano posizioni disponibili compatibili con la professionalità del dipendente. Nel caso di specie, tale onere è stato assolto attraverso la dimostrazione della progressiva riduzione dell’organico, della concentrazione delle attività sui settori strategici e della mancanza di competenze tecniche idonee a consentire un reimpiego utile. Il giudice ha valorizzato, in particolare, la distinzione tra mansioni creative di supporto e ruoli altamente specialistici, evidenziando come la riconversione professionale non possa essere imposta oltre i limiti della ragionevole esigibilità.
Un ulteriore profilo di interesse riguarda la qualificazione dell’intelligenza artificiale quale strumento organizzativo. La pronuncia chiarisce che l’adozione di tecnologie avanzate non determina l’introduzione di un regime derogatorio rispetto alle tutele del lavoratore, né attenua i requisiti di legittimità del licenziamento. Al contrario, l’uso dell’intelligenza artificiale deve essere valutato alla luce dei medesimi criteri applicabili a qualsiasi scelta di riorganizzazione, con particolare attenzione alla concretezza delle esigenze addotte e alla coerenza complessiva del disegno imprenditoriale.
Sotto il profilo sistematico, la decisione conferma che il diritto del lavoro dispone già degli strumenti concettuali necessari per affrontare le trasformazioni indotte dall’innovazione tecnologica. L’intelligenza artificiale non si pone come elemento di rottura dell’assetto normativo, ma come fattore che sollecita una lettura evolutiva delle categorie esistenti. In tale prospettiva, il giudizio di legittimità del licenziamento continua a fondarsi su un bilanciamento tra libertà di iniziativa economica e tutela della stabilità occupazionale, bilanciamento che deve essere condotto caso per caso.
La pronuncia esaminata assume un valore paradigmatico nel delineare i confini entro cui l’intelligenza artificiale può incidere sulle scelte espulsive dell’impresa. Essa afferma con chiarezza che l’innovazione tecnologica, quando inserita in un contesto di riorganizzazione effettiva e sorretta da esigenze oggettive, può legittimamente concorrere alla soppressione di una posizione lavorativa, purché siano rispettati i principi di causalità, proporzionalità e impossibilità di repêchage. Ne emerge una lettura equilibrata, che evita sia approcci difensivi rispetto al progresso tecnologico, sia derive deregolative incompatibili con le garanzie fondamentali del lavoratore.
23 dicembre 2025
L’argomento viene trattato anche su taxlegaljob.net







