La nuova soglia di rilevanza penale nell’omesso versamento dell’Iva e gli effetti sul favor rei nelle rateazioni decadute

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’evoluzione recente della disciplina penale in materia di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto sollecita una riflessione sistematica sul rapporto tra obbligazioni tributarie dilazionate, momenti di verifica della soglia d’imposta e principio del favor rei. La sentenza n. 38438/2025 della Corte di cassazione, ricavabile dal contenuto del file principale e letta alla luce delle indicazioni interpretative ricavabili dal documento di supporto , offre l’occasione per chiarire il perimetro applicativo della nuova soglia di punibilità, introdotta dal recente intervento normativo, e le relative ricadute sui procedimenti in corso.

In un contesto nel quale l’istituto della rateazione rappresenta uno strumento ordinario di gestione del debito fiscale, l’identificazione del momento in cui valutare la sussistenza della soglia penalmente rilevante assume un rilievo decisivo. La riforma ha spostato l’attenzione dal tradizionale riferimento al termine per il versamento dell’acconto dell’anno successivo al momento, diverso e temporalmente più ampio, del 31 dicembre dell’anno successivo alla presentazione della dichiarazione annuale. Questo spostamento incide sulla stessa struttura della fattispecie, poiché consente di valorizzare la condotta del contribuente anche oltre la fase immediatamente successiva alla scadenza ordinaria del pagamento. Contestualmente, il legislatore ha riformulato il rapporto tra procedimento penale e piani di rateazione, introducendo, accanto alla soglia storica dei 250mila euro, un nuovo limite di punibilità in caso di decadenza dalla dilazione, fissato in 75mila euro.

La motivazione della sentenza esamina preliminarmente la disciplina previgente, rilevando come l’integrazione del reato si saldasse al mancato versamento dell’Iva risultante dalla dichiarazione annuale entro un termine definito e non ulteriormente prorogabile. L’adempimento successivo poteva rilevare solo ai fini della causa di non punibilità correlata all’integrale pagamento prima dell’apertura del dibattimento. La riforma ha invece disarticolato il nesso rigido tra scadenza dell’acconto e rilevanza penale, riconoscendo alla rateazione un ruolo idoneo a incidere direttamente sulla tipicità della condotta. La nuova formulazione esclude infatti la punibilità quando il debito tributario sia in corso di estinzione mediante rateazione validamente richiesta e regolarmente adempiuta, subordinando la rilevanza penale al venir meno di tale condizione.

Il punto centrale dell’arresto di legittimità concerne l’individuazione del momento in cui verificare il superamento della nuova soglia di 75mila euro nei casi di decadenza dalla rateazione. La Corte osserva che il dato normativo, come ricostruito nelle pagine della decisione (cfr. in particolare pp. 3–5 del file principale) , impone di ancorare questa verifica al momento stesso dell’intervenuta decadenza, e non già a una fase precedente o successiva del rapporto obbligatorio. Tale lettura appare coerente con la struttura della fattispecie così come riformulata, poiché valorizza la funzione dell’istituto dilatorio quale strumento idoneo a sospendere l’offensività penale della condotta finché il contribuente rispetti le condizioni che ne giustificano l’ammissione. Ne deriva che il mancato pagamento che determina la decadenza non è di per sé sufficiente a integrare il reato: occorre verificare, nella stessa fase, l’ammontare del debito residuo, e solo se esso supera la soglia fissata dal legislatore si realizza la tipicità penale.

Sotto questo profilo, l’arresto risulta di particolare interesse, poiché il documento di supporto segnala come il momento della verifica della soglia fosse considerato tra i profili maggiormente incerti nella prima applicazione della riforma . La sentenza affronta tale nodo interpretativo con un approccio sistematico, riconoscendo che la nuova disciplina è complessivamente più favorevole rispetto alla previgente e che, di conseguenza, deve applicarsi ai procedimenti in corso secondo il principio del favor rei. La Corte precisa che tale applicazione non si esaurisce in un mero giudizio astratto di favorevolezza della norma, ma richiede di valutare concretamente, caso per caso, la situazione del contribuente alla luce dei pagamenti intervenuti, dei piani di rateazione richiesti e della loro eventuale decadenza.

La pronuncia conferma inoltre che l’instaurazione e il corretto adempimento del piano di rateazione impediscono la consumazione del reato fino alla decadenza, con la conseguenza che l’esercizio dell’azione penale in tale fase deve confrontarsi con una fattispecie non ancora perfezionata. Viene così riaffermata una concezione della rateazione quale elemento che condiziona direttamente la tipicità, anziché costituire un istituto meramente estintivo o attenuante. Questa impostazione appare coerente con gli orientamenti dottrinali più recenti, che valorizzano la necessità di assicurare coerenza tra politica fiscale e politica sanzionatoria, evitando forme di disallineamento che potrebbero tradursi in un’applicazione eccessivamente formalistica della tutela penale.

La sentenza contribuisce a delineare un quadro sistematico nel quale la punibilità dell’omesso versamento dell’Iva deve essere valutata secondo un approccio dinamico, che tenga conto sia del comportamento complessivo del contribuente sia del momento in cui interviene la decadenza dalla dilazione. In un sistema nel quale la rateazione assume sempre più la funzione di ordinario strumento di gestione del debito, la nuova soglia dei 75mila euro rappresenta un criterio selettivo che mira a concentrare la risposta punitiva sulle condotte maggiormente lesive, riducendo l’area della rilevanza penale. L’applicazione del favor rei ai procedimenti pendenti conferma la portata garantista della riforma e indica un percorso interpretativo improntato a ragionevolezza e proporzionalità, con possibili implicazioni anche per la futura evoluzione della disciplina dei reati tributari.

28 novembre 2025

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Il mancato adempimento di obbligazioni extra-professionali come illecito disciplinare forense

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’analisi della recente ordinanza n. 30771/2025 delle Sezioni Unite consente di riflettere in modo sistematico sul perimetro dell’illecito disciplinare derivante dall’inadempimento di obbligazioni estranee all’esercizio della professione forense. Il caso affrontato, avente ad oggetto il mancato pagamento del corrispettivo per lavori di manutenzione su un bene voluttuario di proprietà dell’avvocato, si colloca all’incrocio tra doveri di probità, tutela dell’affidamento dei terzi e funzione rappresentativa della classe forense, assumendo rilievo paradigmatico nella definizione del parametro etico-professionale richiesto agli iscritti all’albo.

La pronuncia muove dalla conferma, da parte del Consiglio Nazionale Forense, della responsabilità dell’incolpato ai sensi dell’articolo 64 del codice deontologico forense, norma che impone all’avvocato l’obbligo di adempiere le obbligazioni assunte nei confronti dei terzi, a prescindere dal collegamento con l’attività professionale. Nel caso di specie, la condotta aveva determinato l’attivazione di un procedimento monitorio, evidenziando una grave e protratta inadempienza destinata, secondo il giudice disciplinare, a ledere l’immagine della professione e l’affidamento che la collettività ripone nei suoi appartenenti. Tale ricostruzione si fonda sulla premessa, da tempo consolidata, secondo cui l’avvocato, in quanto soggetto dotato di prerogative pubblicistiche, è tenuto a un comportamento conforme a canoni di correttezza anche nell’ambito dei rapporti privatistici.

Nella seconda parte della decisione le Sezioni Unite affrontano compiutamente l’argomentazione difensiva dell’incolpato, incentrata sull’asserita involontarietà dell’inadempimento, sul peggioramento delle condizioni di salute, sulla natura voluttuaria della spesa e sulla mancata realizzazione dell’evento (il varo del natante) cui sarebbe stato subordinato il pagamento del saldo. La Corte rileva come tali elementi non siano idonei a escludere l’elemento soggettivo dell’illecito disciplinare, chiarendo che non è richiesta la consapevolezza dell’antigiuridicità della condotta, ma la sola volontarietà dell’omissione. Si osserva inoltre che l’obbligazione era stata assunta quando le problematiche personali dell’avvocato erano già in parte presenti, escludendo così la sussistenza di una causa di forza maggiore idonea a neutralizzare la responsabilità disciplinare. Di particolare interesse risulta l’affermazione per cui l’assoluta impossibilità sopravvenuta della prestazione può rilevare solo se derivante da circostanze obiettive estranee alla volontà dell’agente, con un accertamento rimesso al prudente apprezzamento del Consiglio Nazionale Forense.

La Corte ribadisce inoltre i limiti del sindacato di legittimità sulle decisioni del giudice disciplinare, richiamando la natura tipicamente nomofilattica del controllo esercitabile sulle sentenze del Consiglio Nazionale Forense. L’apprezzamento del fatto, nella sua dimensione materiale e psicologica, resta riservato all’organo disciplinare, sicché il ricorso può trovare accoglimento solo in presenza di violazioni di legge, eccesso di potere o carenza del minimo costituzionale della motivazione. Nel caso oggetto di esame, le censure dell’avvocato si sono risolte nella richiesta di una revisione del merito, estranea al giudizio di legittimità.

Un ulteriore profilo di rilievo concerne la proporzionalità della sanzione. Le Sezioni Unite hanno ritenuto congruo il dimezzamento della sospensione, operato dal Consiglio Nazionale Forense in considerazione dell’assenza di precedenti disciplinari in oltre quarant’anni di attività. Tale valutazione appare perfettamente conforme all’articolo 21 del codice deontologico forense, che richiede di commisurare la sanzione alla gravità della violazione, al grado della colpa e al comportamento complessivo dell’iscritto, sia anteriore sia successivo al fatto contestato.

Nel complesso, la decisione offre un contributo significativo alla definizione dell’ambito applicativo dell’articolo 64 del codice deontologico, confermando l’orientamento volto a ricomprendere nella responsabilità disciplinare ogni condotta che, pur avendo natura privatistica, sia idonea a riflettersi negativamente sulla dignità e sull’onorabilità della classe forense. Si delinea così una concezione estensiva dei doveri dell’avvocato, coerente con la funzione pubblicistica della professione e con l’esigenza di preservare la fiducia dei cittadini nel corretto esercizio del ruolo difensivo.

La parte conclusiva della pronuncia consente infine di formulare alcune osservazioni prospettiche. Appare evidente come, nell’attuale quadro normativo, l’inadempimento di obbligazioni assunte uti privatus possa assumere rilevanza disciplinare anche in assenza di nesso con l’attività professionale, ogniqualvolta la gravità della condotta sia tale da compromettere la reputazione dell’avvocato. Ne deriva, sul piano applicativo, la necessità per i professionisti di mantenere un elevato livello di diligenza nell’adempimento delle obbligazioni civilistiche, consapevoli del riflesso che tali comportamenti possono avere sul piano deontologico. La decisione in commento, pur muovendosi nel solco della giurisprudenza consolidata, rafforza ulteriormente l’idea di una responsabilità disciplinare “estensiva”, che si proietta oltre il recinto dell’esercizio tecnico della professione, abbracciando la sfera comportamentale complessiva dell’avvocato quale soggetto investito di un ruolo di garanzia nei confronti della collettività.

26 novembre 2025

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La qualificazione del servizio di trasporto tra disciplina del contratto e criteri sostanziali dell’appalto

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’analisi della più recente elaborazione giurisprudenziale in tema di rapporti tra contratto di trasporto e appalto di servizi consente di cogliere l’evoluzione interpretativa che accompagna la trasformazione delle attività logistiche e distributive, sempre più caratterizzate da esternalizzazioni complesse e da una stratificazione negoziale che rende necessario individuare la reale natura del rapporto sottostante. La sentenza n. 22541 del 2025 della Corte di cassazione rappresenta un contributo significativo in questa direzione, riaffermando che la qualificazione giuridica non può essere condizionata dal nomen iuris attribuito dalle parti, ma deve invece fondarsi sulla concreta configurazione del servizio, alla luce degli indici elaborati dalla normativa civilistica e dal diritto del lavoro. Il quadro normativo di riferimento ruota attorno agli artt. 1655 e 1677-bis del codice civile, nonché all’art. 29 del decreto legislativo n. 276 del 2003, il quale assegna alla figura dell’appalto di servizi una specifica disciplina in punto di responsabilità solidale del committente per i crediti di lavoro maturati dal personale impiegato nell’esecuzione dell’attività affidata. In tale prospettiva, il contratto di trasporto ex art. 1678 c.c. si configura come prestazione essenzialmente esecutiva, mentre l’appalto presuppone un’autonoma organizzazione imprenditoriale e l’assunzione del rischio da parte dell’appaltatore. La distinzione, tuttavia, risulta sempre più complessa quando la prestazione di trasporto si inserisce in un servizio articolato, dotato di autonomia funzionale e continuità organizzativa.

La pronuncia oggetto di esame si colloca in continuità con un orientamento ormai consolidato, secondo cui la presenza di una pluralità e sistematicità delle prestazioni, la pattuizione di un corrispettivo unitario per l’attività complessivamente resa, la realizzazione di servizi ulteriori rispetto al mero trasferimento fisico delle merci e l’impiego di una struttura organizzata di mezzi e personale evidenziano la sussistenza di un appalto di servizi di trasporto. La Corte, valorizzando tali elementi, ha ritenuto che i contratti qualificati dalle parti come trasporto e sub-trasporto fossero in realtà riconducibili allo schema dell’appalto, essendo finalizzati all’esecuzione di un servizio continuativo di distribuzione di merci, comprensivo di attività accessorie quali carico, scarico, numerazione ed etichettatura dei colli, controllo delle spedizioni, gestione dei contrassegni e conservazione della documentazione anche in formato digitale. La presenza di tali prestazioni, come rilevato anche dalla dottrina e ripreso nel documento di supporto , supera la dimensione tipica del trasporto, che resta confinata al trasferimento di cose da un luogo all’altro, e attribuisce rilievo decisivo all’organizzazione imprenditoriale predisposta dall’esecutore. I giudici di legittimità hanno così ribadito che l’autonomia gestionale e l’assunzione del rischio d’impresa costituiscono indici determinanti della natura di appalto, determinando la conseguente operatività del vincolo di responsabilità solidale del committente. Tale responsabilità, disciplinata dall’art. 29 del decreto legislativo n. 276 del 2003, prescinde dal comportamento soggettivo del committente, essendo ancorata all’obiettivo di garantire tutela effettiva ai crediti di lavoro nell’ambito di modelli organizzativi caratterizzati dal decentramento produttivo.

La decisione affronta altresì il tema della non applicabilità, ratione temporis, delle modifiche introdotte al quadro normativo in materia di responsabilità nel trasporto continuativo, rilevando come tali previsioni non interferiscano con la distinzione concettuale tra trasporto e appalto di servizi. È significativo che la Corte escluda ogni automatismo derivante dal ricorso alla disciplina speciale del contratto di trasporto, sottolineando che l’art. 83-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 opera su un piano differente rispetto alla disciplina dell’appalto, senza precludere la possibilità che una prestazione apparentemente riconducibile al trasporto si configuri, nella sostanza, come attività complessa di natura imprenditoriale. La tendenza interpretativa valorizza, pertanto, l’effettiva struttura del rapporto, con particolare attenzione alla continuità dell’attività svolta, alla predeterminazione del corrispettivo su base periodica e alla funzione economica unitaria dell’incarico. In tale quadro si colloca anche la funzione probatoria attribuita agli accertamenti ispettivi, che, pur rilevanti, non sono idonei a sovvertire la ricostruzione sostanziale del rapporto contrattuale né a invertire l’onere di dimostrare l’effettivo pagamento delle retribuzioni dovute ai lavoratori coinvolti nell’esecuzione dell’appalto.

L’interpretazione accolta conferma la prevalenza del dato sostanziale rispetto alla forma negoziale, delineando un approccio volto ad assicurare un elevato livello di protezione dei lavoratori impiegati nelle catene di esternalizzazione. La qualificazione come appalto di servizi comporta, infatti, l’estensione del regime di responsabilità solidale, assicurando continuità e certezza nella tutela dei crediti retributivi in presenza di assetti organizzativi complessi. La sentenza in commento rafforza un percorso giurisprudenziale orientato a verificare non solo l’oggetto formale del contratto, ma la reale natura dell’attività esercitata, valorizzando la presenza di un’organizzazione imprenditoriale autonoma quale criterio distintivo dirimente. L’esito interpretativo appare coerente con la funzione protettiva assegnata dall’ordinamento al principio di solidarietà nelle esternalizzazioni, contribuendo a delineare un quadro sistematico nel quale il committente è chiamato ad assumere un ruolo di garanzia in relazione alle condizioni di lavoro nelle filiere produttive. Ne emerge una lettura orientata alla responsabilizzazione dei soggetti coinvolti e alla promozione di un modello organizzativo trasparente e conforme ai principi di tutela del lavoro, in un contesto economico caratterizzato da una crescente complessità delle operazioni logistiche e distributive.

26 novembre 2025

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