La clausola restitutoria nell’apprendistato tra autonomia privata e tutela dell’investimento formativo. Tribunale Roma 10843/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

Nel sistema del diritto del lavoro, il contratto di apprendistato si colloca quale istituto a funzione mista, nel quale la causa formativa assume rilievo centrale accanto alla prestazione lavorativa. La recente giurisprudenza di merito ha offerto un contributo significativo alla definizione dei confini di legittimità delle clausole contrattuali volte a presidiare l’equilibrio sinallagmatico del rapporto, con particolare riferimento alle ipotesi di recesso anticipato dell’apprendista. In tale prospettiva, la sentenza del Tribunale di Roma n. 10843 del 27 ottobre 2025 si inserisce in un filone interpretativo che valorizza la meritevolezza dell’interesse datoriale alla tutela dell’investimento formativo, purché tale interesse sia perseguito mediante strumenti proporzionati e coerenti con la funzione dell’istituto.
L’inquadramento normativo dell’apprendistato evidenzia come il legislatore abbia delineato un rapporto a tempo determinato caratterizzato da un progetto formativo individuale, destinato a consentire l’acquisizione di competenze professionali specifiche. La disciplina positiva riconosce alle parti un’ampia autonomia nella regolazione del rapporto, fatta salva l’inderogabilità delle tutele minime poste a presidio del lavoratore. In tale contesto, il recesso anticipato dell’apprendista, sebbene espressione di un diritto potestativo, incide direttamente sull’assetto di interessi sotteso al contratto, soprattutto quando intervenga in assenza di giusta causa o di un giustificato motivo. Proprio tale evenienza solleva la questione della legittimità di pattuizioni che prevedano obblighi restitutori o penali in capo al lavoratore dimissionario.
La decisione in esame affronta la problematica muovendo da una ricostruzione puntuale della clausola contrattuale, qualificata come previsione di durata minima correlata all’esercizio del diritto di recesso. Il giudice osserva che l’ordinamento non preclude alle parti di concordare conseguenze economiche connesse all’interruzione anticipata del rapporto, purché tali conseguenze non si traducano in una compressione indebita della libertà del lavoratore. La clausola restitutoria viene così ricondotta alla funzione risarcitoria, volta a compensare il datore di lavoro dei costi effettivamente sostenuti per la formazione specialistica dell’apprendista, costi che, in difetto di un periodo minimo di permanenza, non potrebbero essere ammortizzati.
Un passaggio centrale della motivazione riguarda la verifica della proporzionalità dell’obbligo restitutorio. La pronuncia sottolinea come la legittimità della clausola sia subordinata alla dimostrazione di un reale e documentato investimento formativo, nonché alla congruità dell’importo richiesto rispetto al pregiudizio subito. In tal senso, il giudice esclude che la clausola possa assolvere a una funzione meramente deterrente o punitiva, evidenziando la necessità di un nesso diretto tra l’ammontare della somma e il costo della formazione erogata. Tale impostazione si pone in linea con precedenti orientamenti che hanno ritenuto ammissibili patti analoghi quando il sacrificio economico imposto al lavoratore risulti giustificato dall’entità e dalla specificità dell’investimento formativo.
La sentenza valorizza inoltre la peculiarità delle figure professionali oggetto di formazione, caratterizzate da elevati standard di specializzazione e da percorsi formativi complessi. In tali ipotesi, l’interesse datoriale a beneficiare, per un arco temporale minimo, delle competenze acquisite dall’apprendista appare particolarmente intenso e, pertanto, meritevole di tutela. La clausola restitutoria viene così interpretata come strumento di riequilibrio del sinallagma contrattuale, idoneo a prevenire comportamenti opportunistici e a garantire la sostenibilità economica dell’istituto dell’apprendistato.
Non meno rilevante è il profilo relativo all’indennità sostitutiva del preavviso, che la pronuncia riconduce alla violazione di un obbligo autonomo rispetto alla clausola formativa. Il mancato rispetto dei termini di preavviso, in assenza di giusta causa, integra infatti un inadempimento che legittima la pretesa datoriale, a prescindere dalla questione della restituzione delle spese di formazione. Tale distinzione contribuisce a chiarire l’autonomia delle diverse voci risarcitorie e a evitare sovrapposizioni indebite tra piani concettuali differenti.
In una prospettiva sistematica, la decisione del Tribunale di Roma rafforza l’idea di un apprendistato fondato su un equilibrio dinamico tra diritti e obblighi delle parti. La tutela dell’investimento formativo non viene concepita come limite alla libertà di dimissioni, bensì come conseguenza patrimoniale dell’esercizio di tale libertà in violazione degli assetti contrattuali concordati. Ne emerge una lettura dell’autonomia privata coerente con i principi di buona fede e correttezza, che impongono alle parti di considerare gli effetti delle proprie scelte sull’altrui sfera giuridica.
La sentenza n. 10843/2025 contribuisce a delineare un quadro interpretativo nel quale le clausole restitutorie nell’apprendistato possono ritenersi legittime se sorrette da un interesse concreto e proporzionato e se ancorate a costi formativi effettivamente sostenuti. Tale approdo appare idoneo a garantire, da un lato, la protezione del lavoratore da oneri eccessivi e, dall’altro, la valorizzazione dell’apprendistato quale strumento di investimento in capitale umano. Le implicazioni pratiche della pronuncia suggeriscono una particolare attenzione, in sede di redazione contrattuale, alla chiarezza delle clausole e alla puntuale documentazione dell’attività formativa, al fine di assicurare la tenuta giuridica delle pattuizioni e la loro coerenza con la funzione dell’istituto.
20 dicembre 2025
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La separazione coniugale tra responsabilità genitoriale, addebito e tutela del minore. Tribunale Agrigento 1240/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’evoluzione della disciplina della separazione personale dei coniugi evidenzia una progressiva integrazione tra profili strettamente civilistici e istanze di tutela della persona, in particolare del minore. In tale prospettiva, la giurisprudenza di merito ha assunto un ruolo centrale nel definire l’equilibrio tra accertamento delle responsabilità coniugali, regolazione dei rapporti genitoriali e protezione dei diritti fondamentali della prole. La decisione oggetto di analisi si colloca in questo solco, offrendo un contributo significativo sul rapporto tra violazione dei doveri matrimoniali, addebito della separazione e permanenza del principio di bigenitorialità anche in contesti di elevata conflittualità familiare.
Nel quadro normativo di riferimento, la separazione personale presuppone l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza o il grave pregiudizio per l’educazione della prole, mentre l’addebito richiede l’accertamento di un nesso causale tra la crisi coniugale e la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio. In tale ambito, le condotte di violenza fisica o morale assumono una rilevanza dirimente, in quanto idonee a ledere in modo irreversibile il vincolo fiduciario e a giustificare l’abbandono del domicilio coniugale per giusta causa. L’accertamento giudiziale di tali comportamenti consente di superare ogni valutazione comparativa con la condotta dell’altro coniuge, in ragione della loro intrinseca gravità.
La pronuncia in esame conferma tale impostazione, riconoscendo come le reiterate condotte vessatorie integrino una violazione particolarmente intensa dei doveri coniugali e fondino, ipso facto, la dichiarazione di addebito. Tuttavia, l’elemento di maggiore interesse sistematico risiede nella distinta valutazione operata in ordine alla responsabilità genitoriale. Pur in presenza di comportamenti penalmente rilevanti e di misure cautelari limitative, il giudice ha ritenuto necessario procedere a un autonomo scrutinio della capacità genitoriale, valorizzando l’evoluzione della relazione tra genitore e figlio e l’esito degli interventi di sostegno e monitoraggio.
Si osserva, in tal senso, come il principio di bigenitorialità, oggi espressione di diritti fondamentali della persona del minore, non possa essere sacrificato automaticamente a seguito dell’addebito della separazione. La funzione genitoriale, infatti, si configura come munus distinto rispetto al rapporto coniugale, la cui compromissione non determina, di per sé, l’inidoneità all’esercizio della responsabilità genitoriale. Ne deriva che l’affidamento condiviso rimane la regola, anche in contesti segnati da pregressi conflitti, purché risulti concretamente funzionale all’interesse superiore del minore.
La decisione valorizza un approccio dinamico e prognostico, fondato sull’osservazione delle relazioni familiari nel tempo e sull’apporto delle competenze multidisciplinari. Le relazioni dei servizi territoriali e la consulenza tecnica hanno consentito di accertare non solo la qualità del legame affettivo tra genitore e figlio, ma anche la capacità di rielaborazione critica delle pregresse condotte e l’impegno verso un percorso di responsabilizzazione. Tale metodo appare coerente con una concezione sostanziale della tutela del minore, che non si esaurisce nella mera prevenzione del rischio, ma mira a garantire la continuità delle relazioni affettive significative.
Particolare rilievo assume, inoltre, la regolazione degli aspetti economici conseguenti alla separazione. Il contributo al mantenimento della prole viene determinato sulla base di un criterio ampio, che tiene conto non solo delle risorse economiche attuali, ma anche delle potenzialità reddituali e della capacità lavorativa di ciascun genitore. In tal modo, il mantenimento si configura come strumento di attuazione del diritto del figlio a un tenore di vita adeguato e tendenzialmente omogeneo a quello goduto in costanza di convivenza, estendendosi a tutte le esigenze materiali, educative e relazionali. La funzione solidaristica dell’obbligo genitoriale emerge con chiarezza, ponendosi in continuità con i principi costituzionali di protezione della famiglia e dell’infanzia .
Sul piano sistematico, la pronuncia offre spunti rilevanti anche in relazione al coordinamento tra giudizio civile e procedimenti di natura penale o amministrativa. La permanenza di misure cautelari non impedisce, di per sé, l’adozione di un modello di affidamento condiviso, purché siano previsti adeguati correttivi organizzativi e un costante monitoraggio. Ciò conferma l’autonomia funzionale del giudizio civile di famiglia, orientato prioritariamente alla salvaguardia dell’interesse del minore, anche attraverso soluzioni graduali e flessibili.
L’arresto giurisprudenziale analizzato si segnala per la capacità di coniugare rigore nell’accertamento delle responsabilità coniugali e apertura verso una concezione evolutiva della responsabilità genitoriale. La distinzione tra piano coniugale e piano genitoriale, unita alla centralità del superiore interesse del minore, consente di evitare automatismi sanzionatori e di promuovere soluzioni che, pur nel rispetto delle esigenze di protezione, favoriscano la continuità delle relazioni familiari. Tale impostazione appare destinata a incidere in modo significativo sulle future applicazioni della disciplina della separazione, rafforzando il ruolo del giudice quale garante di un equilibrio sostanziale tra diritti, doveri e interessi coinvolti.
20 dicembre 2025
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La responsabilità del socio non amministratore nella S.r.l. tra ingerenza gestionale e dolo intenzionale. Cassazione 32545/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’evoluzione della disciplina delle società a responsabilità limitata ha progressivamente inciso sull’equilibrio tradizionale tra proprietà e gestione, attribuendo al socio un ruolo che, pur restando formalmente distinto da quello dell’amministratore, può assumere una rilevanza determinante nelle scelte operative dell’impresa. In tale contesto si colloca l’interpretazione dell’art. 2476, ottavo comma, cod. civ., disposizione che consente di estendere al socio non amministratore la responsabilità per i danni cagionati alla società, agli altri soci o ai terzi, qualora egli abbia intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti di gestione dannosi. La recente elaborazione giurisprudenziale offre l’occasione per riflettere in modo sistematico sui presupposti oggettivi e soggettivi di tale responsabilità, nonché sulle sue implicazioni nel governo dell’impresa.
La norma in esame si inserisce nel più ampio disegno di riforma del 2003, che ha trasformato la S.r.l. da modello semplificato di società per azioni a tipo autonomo, caratterizzato da una maggiore personalizzazione del rapporto sociale. L’ampliamento dei diritti amministrativi del socio, in particolare dei poteri di controllo e di informazione, ha determinato un avvicinamento funzionale alle società di persone, pur nel mantenimento della natura capitalistica dell’ente. Da tale assetto discende l’esigenza di presidiare il rischio che l’intensità del coinvolgimento del socio nella vita sociale si traduca in un’ingerenza sostanziale nella gestione, idonea a incidere negativamente sull’interesse sociale e sulla tutela dei creditori. In questa prospettiva, la responsabilità solidale del socio non amministratore rappresenta uno strumento eccezionale, volto a sanzionare condotte che travalicano il fisiologico esercizio dei diritti partecipativi.
L’analisi della fattispecie normativa richiede, in primo luogo, la ricostruzione del presupposto oggettivo della responsabilità. Non è sufficiente la mera qualità di socio, né l’esercizio di prerogative assembleari tipiche. Occorre, invece, l’accertamento di un comportamento qualificabile come gestorio, vale a dire di una decisione o autorizzazione che si inserisca direttamente nel processo decisionale proprio dell’organo amministrativo. Tale comportamento può manifestarsi tanto attraverso atti formali quanto mediante strumenti negoziali o accordi che, pur esterni alla struttura organica, siano idonei a orientare in modo determinante l’azione degli amministratori. In questa prospettiva, il nesso causale tra l’ingerenza del socio e l’atto dannoso costituisce elemento imprescindibile, dovendosi dimostrare che l’intervento del socio abbia concretamente condizionato la scelta gestoria poi rivelatasi pregiudizievole.
Sul piano soggettivo, la disposizione introduce un requisito particolarmente rigoroso, rappresentato dall’intenzionalità della condotta. L’avverbio utilizzato dal legislatore delimita in modo netto l’ambito applicativo della norma, escludendo che la responsabilità del socio possa fondarsi su mere omissioni, su comportamenti negligenti o su una colpa, anche grave, nell’esercizio dei poteri di controllo. È richiesta, invece, una consapevolezza piena e preordinata dell’ingerenza, accompagnata dalla volontà di incidere sulla gestione sociale. Tale configurazione riconduce la responsabilità del socio nell’alveo del dolo, inteso come rappresentazione e volizione dell’atto di interferenza gestionale, senza che sia necessario accertare una specifica finalità di danno.
Questa ricostruzione appare coerente con la struttura della S.r.l. quale società di capitali, nella quale la distinzione tra organi resta principio cardine. La possibilità di estendere la responsabilità al socio non amministratore costituisce, pertanto, una deroga eccezionale, giustificata solo in presenza di un’effettiva sovrapposizione funzionale tra il ruolo del socio e quello dell’amministratore. In tale ottica, la responsabilità solidale si fonda non solo sull’identità del danno, ma anche sull’identità della causa dell’obbligazione, individuata nel concorso del socio in un’attività tipicamente gestoria.
La concreta applicazione di tali principi richiede un accertamento rigoroso in sede di merito, volto a verificare la natura delle operazioni contestate e il grado di coinvolgimento del socio. Particolare rilievo assume la valutazione del contesto economico e finanziario in cui l’ingerenza si colloca, soprattutto nei casi in cui la società versi in una situazione di perdita del capitale o di prossimità allo scioglimento. In tali circostanze, l’intervento del socio, lungi dall’essere neutro, può assumere una valenza decisiva nel determinare la prosecuzione dell’attività o l’adozione di operazioni antieconomiche, con conseguente aggravamento del dissesto e pregiudizio per i creditori.
La responsabilità del socio non amministratore ex art. 2476, ottavo comma, cod. civ. si configura come istituto di equilibrio tra l’esigenza di valorizzare il ruolo attivo del socio nella S.r.l. e la necessità di evitare che tale ruolo si traduca in una gestione occulta e irresponsabile. La rigorosa delimitazione dei presupposti oggettivi e soggettivi, in particolare l’esigenza del dolo intenzionale, consente di preservare la distinzione organica propria delle società di capitali, riservando l’estensione della responsabilità ai soli casi in cui il socio assuma, di fatto, la veste di co-gestore. Tale impostazione offre un quadro interpretativo chiaro e sistematicamente coerente, destinato a incidere in modo significativo sulle pratiche di governance e sulla redazione degli assetti negoziali interni alla compagine sociale.
20 dicembre 2025
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