Notificazione degli atti presupposti e decadenza nel procedimento di riscossione: osservazioni a margine dell’ordinanza Cass. civ., sez. trib., n. 24745/2025
A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola
L’ordinanza n. 24745 del 2025 della Corte Suprema di Cassazione, Sezione Tributaria Civile, depositata l’8 settembre 2025, si segnala per la sua pregnanza argomentativa e per il rilievo sistematico assunto nell’ambito del contenzioso tributario, in particolare nella delicata materia della validità delle notificazioni degli atti prodromici all’iscrizione ipotecaria su beni immobili e della decadenza dell’Amministrazione finanziaria dal potere impositivo.
La vicenda oggetto del giudizio trae origine dall’impugnazione, da parte della contribuente, di un avviso di avvenuta iscrizione ipotecaria basato su una pluralità di cartelle di pagamento, alcune delle quali asseritamente mai notificate. In via preliminare, la ricorrente contestava l’avvenuta notificazione degli atti presupposti, richiamando, a sostegno, la documentazione anagrafica che dimostrava una residenza continuativa presso un determinato indirizzo nel comune di Milano. In subordine, lamentava la decadenza del potere impositivo per intervenuta notificazione oltre i termini di cui all’art. 25, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602.
La Corte di legittimità, investita del ricorso proposto avverso la pronuncia della Corte di giustizia tributaria di secondo grado, ha ritenuto infondati tutti i motivi dedotti, offrendo un’articolata ricostruzione interpretativa dei criteri normativi e giurisprudenziali che regolano le modalità di notificazione degli atti tributari e l’efficacia dei certificati anagrafici nel processo di accertamento della residenza effettiva del destinatario.
In merito alla doglianza circa la nullità delle notificazioni per presunta irreperibilità solo relativa, la Corte ha precisato che, in presenza di relate di notifica redatte dall’ufficiale notificatore, contenenti l’attestazione dell’assenza del destinatario e l’assenza di elementi identificativi (quali citofono o cassetta postale) presso l’indirizzo formalmente risultante all’anagrafe, trova applicazione la disciplina prevista per l’irreperibilità assoluta di cui all’art. 60, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 600/1973. L’accertamento compiuto dall’agente notificatore riveste, in tal senso, natura di atto pubblico dotato di fede privilegiata fino a querela di falso ai sensi dell’art. 2700 cod. civ., e non può essere efficacemente contraddetto da certificazioni anagrafiche, le quali possiedono un valore meramente indiziario e non dotato di forza probatoria piena.
La Corte ha ulteriormente osservato che l’aver la parte allegato, in sede di giudizio di merito, certificati di residenza storica e composizione del nucleo familiare, non consente di infirmare l’efficacia dell’attestazione compiuta dall’organo notificatore, il quale, operando ex lege, ha eseguito gli accertamenti in loco e dichiarato l’assoluta irreperibilità del soggetto destinatario, con conseguente applicazione della procedura notificatoria speciale.
Quanto alla seconda censura, riferita alla presunta decadenza dell’Amministrazione finanziaria dalla facoltà di riscuotere i tributi per violazione dei termini di cui all’art. 25, comma 1, del d.P.R. n. 602/1973, la Suprema Corte ha richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la regolare notificazione delle cartelle di pagamento, se non impugnate nel termine di decadenza previsto dall’art. 21 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, determina la definitività del credito e la conseguente preclusione alla deduzione di qualsiasi eccezione successiva, ivi compresa quella di decadenza. Ne discende che, in sede di impugnazione dell’avviso di iscrizione ipotecaria, non è consentito riesaminare la legittimità delle cartelle sottostanti, trattandosi di atto impugnabile esclusivamente per vizi propri.
Con riguardo infine al terzo motivo di ricorso, avente ad oggetto la nullità della sentenza per motivazione asseritamente contraddittoria, perplessa o apparente, la Cassazione ha ritenuto infondata la censura, evidenziando come la motivazione della decisione di secondo grado fosse chiara, congruente e pienamente conforme ai criteri di sufficienza argomentativa imposti dall’art. 132, n. 4, cod. proc. civ. e dall’art. 36 del d.lgs. n. 546/1992. L’eventuale presenza di un passaggio motivazionale impropriamente riferito alla notificazione mediante servizio postale è stata ritenuta ininfluente rispetto alla tenuta logico-giuridica dell’intera motivazione.
L’ordinanza n. 24745/2025 si pone dunque quale affermazione coerente con i principi di legalità formale e certezza del diritto in materia fiscale, ribadendo la centralità delle forme nella notificazione degli atti e la necessità di una rigorosa osservanza dei termini decadenziali e delle preclusioni processuali. Essa conferma, altresì, che l’effettiva residenza del contribuente, ai fini della validità delle notifiche, deve risultare da elementi oggettivi e probatoriamente robusti, non potendo il certificato anagrafico da solo valere a sovvertire gli effetti giuridici dell’accertamento eseguito dal pubblico ufficiale. Tale pronuncia rappresenta un ulteriore tassello nella costruzione di un sistema di garanzie sostanziali e processuali coerente con i principi di efficienza e stabilità dell’azione amministrativa tributaria.
17 settembre 2025
Revoca delle dimissioni nel periodo di prova: natura del diritto e limiti interpretativi tra norma e prassi amministrativa
A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola
La disciplina giuslavoristica italiana conosce, a partire dal decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151, una significativa innovazione in materia di revocabilità delle dimissioni volontarie, finalizzata a contrastare fenomeni distorsivi noti nella prassi come dimissioni in bianco. In particolare, l’articolo 26 di detto decreto riconosce al lavoratore subordinato la facoltà di revocare le dimissioni entro il termine perentorio di sette giorni dalla trasmissione del relativo modello telematico, determinando, per effetto di tale revoca, la ricostituzione automatica del rapporto di lavoro nella sua piena operatività.
La recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 24911 del 2025 riveste un rilievo sistematico e interpretativo di primo piano, chiarendo l’ambito applicativo della suddetta disposizione normativa in relazione alle dimissioni presentate nel corso del periodo di prova. Il Collegio di legittimità ha affermato, con argomentazione coerente ai canoni della legalità formale e della tutela sostanziale del lavoratore, che il diritto alla revoca delle dimissioni è esercitabile anche durante la fase probatoria, in quanto non esiste nel dettato normativo alcuna previsione derogatoria che ne limiti la portata.
La pronuncia si pone in esplicita antitesi con l’indirizzo interpretativo fornito dal Ministero del Lavoro nella circolare n. 12/2016, secondo cui la disposizione di cui all’articolo 26 non sarebbe applicabile alle dimissioni rassegnate durante il periodo di prova, in virtù della presunta specialità della fattispecie. La Corte ha rigettato tale ricostruzione, sottolineando come le circolari ministeriali non abbiano valore normativo, trattandosi di atti amministrativi interni, privi di efficacia vincolante nei confronti del giudice e incapaci di introdurre deroghe al principio di legalità.
Sotto il profilo sistematico, la Corte di Cassazione ha evidenziato la coesistenza e la compatibilità funzionale tra la disciplina del patto di prova e quella relativa alla revocabilità delle dimissioni. Mentre il periodo di prova risponde all’esigenza di tutela bilaterale delle parti del contratto, garantendo a entrambe la possibilità di verificare la reciproca convenienza del rapporto in fase iniziale, la previsione della facoltà di revoca mira a tutelare la libertà di autodeterminazione del prestatore di lavoro, scongiurando condotte elusive o abusive del datore, che possano incidere sulla genuinità della manifestazione di volontà dimissionaria.
La revoca esercitata nel rispetto dei termini di legge, anche in costanza del periodo di prova, comporta la reviviscenza del rapporto di lavoro e il pieno ripristino degli obblighi contrattuali, senza compromettere il corretto esperimento della prova stessa. Il datore di lavoro, infatti, conserva intatto il potere di recedere unilateralmente al termine del periodo di prova ovvero anche anteriormente, qualora ricorrano i presupposti di congruità temporale e oggettiva valutazione delle competenze del lavoratore. In tal senso, non si determina alcuna sovrapposizione disfunzionale tra i due istituti, che operano su piani giuridici paralleli, ma sinergici.
L’ordinanza in esame consente, pertanto, di affermare un principio di garanzia che trova fondamento nella ratio legis del decreto legislativo n. 151/2015, diretto a rafforzare le tutele del lavoratore in un contesto economico e occupazionale in cui permangono, seppur con minor intensità rispetto al passato, prassi elusive e tentativi di condizionamento indebito della volontà individuale.
Ne deriva che ogni interpretazione restrittiva dell’ambito applicativo dell’articolo 26, non espressamente prevista dalla norma, si risolve in una violazione dei principi fondamentali del diritto del lavoro, tra cui la tutela della persona del lavoratore, il rispetto della libera scelta contrattuale e il divieto di discriminazione tra lavoratori in prova e lavoratori a tempo indeterminato già confermati.
La pronuncia della Suprema Corte contribuisce a consolidare un orientamento giurisprudenziale improntato alla tutela sostanziale del rapporto di lavoro, riaffermando il primato del diritto positivo sull’attività interpretativa di fonte amministrativa e rafforzando il principio di certezza del diritto nell’ambito della disciplina lavoristica. Tale posizione appare coerente con i valori costituzionali e con gli indirizzi evolutivi della giurisprudenza nazionale ed europea in materia di protezione del lavoro subordinato, confermando la centralità della persona del lavoratore quale soggetto meritevole di tutela anche nella fase iniziale del rapporto.
16 settembre 2025
Controlli difensivi e giusta causa: la legittimità delle investigazioni sul lavoratore inefficiente nella giurisprudenza di legittimità
A cura del Dott. Alessandro Cervellino
Il ricorso a controlli difensivi nei confronti del lavoratore, qualora sussistano elementi indiziari oggettivamente riscontrabili in ordine a condotte illecite, costituisce uno snodo interpretativo di assoluta rilevanza nel contesto delle relazioni industriali contemporanee, in cui la tutela del patrimonio aziendale e la garanzia della lealtà contrattuale assumono una centralità sempre più marcata. In tale prospettiva, l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 24564 del 4 settembre 2025 si inserisce nel solco della giurisprudenza di legittimità che riconosce la legittimità di interventi investigativi mirati, ove sorretti da fondati sospetti, purché estranei al mero controllo sull’adempimento della prestazione lavorativa.
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla vicenda del licenziamento per giusta causa di un lavoratore addetto alla lettura dei contatori (cosiddetto letturista), ha ribadito la distinzione ormai consolidata tra i controlli generalizzati, soggetti alle rigorose condizioni di cui all’art. 4 della Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), e i cosiddetti controlli difensivi in senso stretto, i quali possono invece legittimamente esplicarsi anche durante lo svolgimento della prestazione, purché siano finalizzati all’accertamento di comportamenti illeciti, potenzialmente fraudolenti o addirittura penalmente rilevanti, e non siano attivati in via preventiva e generalizzata.
Nel caso de quo, l’azienda datrice di lavoro, riscontrando una significativa anomalia nel rendimento del dipendente in questione, ha proceduto, mediante l’ausilio di un’agenzia investigativa, ad accertare l’effettiva condotta tenuta dallo stesso durante l’orario di servizio. Le risultanze hanno evidenziato comportamenti connotati da una sistematica falsificazione dei dati relativi agli orari di inizio e cessazione della prestazione lavorativa, uso strumentale del veicolo aziendale per fini personali, e reiterata inattività in luoghi estranei al perimetro delle mansioni assegnate. Tali condotte, come correttamente qualificato dalla Corte territoriale e confermato in sede di legittimità, non si esaurivano in un mero inadempimento, ma integravano un disvalore ulteriore, ravvisabile nella componente fraudolenta e potenzialmente lesiva del patrimonio e dell’immagine aziendale.
Particolarmente rilevante, nel percorso argomentativo della Corte, è il riferimento alla genesi del controllo, che non è stato disposto in via esplorativa o anticipatoria, bensì ex post, ovvero in conseguenza della documentata e non spiegabile inefficienza del lavoratore rispetto ai parametri produttivi mediamente riscontrati nel gruppo omogeneo di riferimento. Questo dato consente di radicare l’intervento datoriale nella logica del sospetto oggettivamente fondato, condizione necessaria per legittimare una deroga al divieto di controlli sull’attività lavorativa ai sensi dell’art. 2 dello Statuto dei lavoratori.
L’indagine, peraltro, è stata condotta secondo criteri di proporzionalità e necessità, attraverso l’utilizzo di strumenti ritenuti dalla giurisprudenza meno invasivi tra quelli concretamente disponibili, conformemente ai parametri di valutazione elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), in particolare nelle sentenze Barbulescu c. Romania e Köpke c. Germania, ove si pone l’accento sul corretto bilanciamento tra libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. e tutela della dignità del lavoratore ex art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
È dunque evidente come il controllo difensivo si configuri non come uno strumento volto a comprimere l’autonomia del prestatore, bensì come espressione della legittima pretesa dell’imprenditore a tutelare l’effettività del vincolo fiduciario, specie in presenza di segnali concreti di disvalore comportamentale. In tale ottica, il ricorso ad agenzie investigative trova fondamento non solo nella necessità di protezione del patrimonio aziendale, ma anche nella esigenza di garantire la correttezza contrattuale e la par condicio tra lavoratori.
La pronuncia si allinea a una tendenza giurisprudenziale che, senza derogare ai principi consolidati di tutela del lavoratore, valorizza l’elemento finalistico del controllo e la congruità dello stesso rispetto alla fattispecie concreta. Come chiarito in decisioni precedenti (Cass. nn. 25732/2021, 34092/2021, 18168/2023), i controlli difensivi in senso proprio non necessitano di autorizzazione sindacale né di accordo collettivo, purché abbiano ad oggetto fatti specifici e siano avviati a seguito di condotte sintomatiche di illiceità.
Il contributo della Suprema Corte nella sentenza in esame appare duplice: da un lato, essa ribadisce la linea di continuità con i più recenti arresti giurisprudenziali, e dall’altro, rafforza il principio di responsabilità individuale nel rapporto di lavoro subordinato, chiarendo che, in presenza di un comportamento suscettibile di qualificazione fraudolenta, il datore può legittimamente attivare forme di verifica che, se pur svolte nell’ambito temporale della prestazione, non si configurano come illeciti controlli sull’attività lavorativa, bensì come mezzi di accertamento legittimi, coerenti con le esigenze di tutela dell’impresa e compatibili con i diritti inviolabili della persona del lavoratore.
11 settembre 2025