Autore: Francesco Cervellino

La delicata intersezione tra le discipline codicistiche e speciali in materia di notificazione degli atti impositivi: note a margine dell’ordinanza della Corte di cassazione, Sez. Tributaria, 17 giugno 2025, n. 19520.

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La pronuncia resa dalla Sezione Tributaria della Corte di cassazione in data 17 giugno 2025, depositata il successivo 15 luglio e rubricata al n. 19520, consente di ripercorrere gli snodi esegetici che, negli ultimi quindici anni, hanno modellato la dialettica tra l’art. 140 del codice di procedura civile (di seguito «c.p.c.») e l’art. 60, comma 1, lettera e), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (d’ora innanzi «d.P.R. 600/73»), con precipuo riguardo alla notificazione degli avvisi di accertamento in presenza d’irreperibilità del contribuente.

  1. Inquadramento sistematico. – La notifica degli atti impositivi costituisce momento essenziale dell’iter procedimentale, in quanto veicola la conoscenza legale dell’atto e condiziona l’esercizio del diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione e dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo («CEDU»). Il legislatore del 1973 ha congegnato una disciplina speciale – contenuta nell’art. 60 d.P.R. 600/73 – che, nel suo inciso finale, richiama il regime ordinario di cui agli artt. 137 ss. c.p.c., salvo deroghe espressamente previste. In tale alveo si colloca la disposizione di cui alla lettera e), che consente la notificazione mediante affissione all’albo comunale quando il destinatario risulti irreperibile in modo assoluto.

La trasposizione di siffatta clausola nell’operatività quotidiana ha alimentato un contenzioso imponente, reso ancor più complesso dall’accelerazione impressa dai processi di digitalizzazione e, non di meno, dalla persistente frammentarietà normativa. All’esito di un’evoluzione giurisprudenziale non sempre lineare, l’ordinanza in commento si pone come tassello di consolidamento di un orientamento che delimita rigorosamente l’ambito applicativo della procedura semplificata, pretendendo dall’amministrazione finanziaria un’attività di diligenza professionale qualificata idonea a comprovare l’irreperibilità assoluta.

  1. Il fatto processuale e la ratio decidendi. – La vicenda in esame trae origine dall’impugnazione, da parte del contribuente, di un’intimazione di pagamento fondata su precedenti avvisi di accertamento, asseritamente notificati per compiuta giacenza. Sia la Commissione tributaria provinciale sia quella regionale hanno ritenuto insussistenti i presupposti per l’applicazione dell’art. 60, comma 1, lett. e), stante l’assenza di ricerche circostanziate sull’esatta ubicazione del destinatario. L’Agenzia delle Entrate, denunciando violazione di legge, ha adìto la Corte di cassazione, la quale, con la decisione oggetto di queste note, ha rigettato il ricorso, ravvisando nell’operato dell’ufficio un indebito sviamento dalla procedura ordinaria di cui all’art. 140 c.p.c.

L’argomentum decisorio fonda le proprie radici su un doppio ordine di considerazioni. In primo luogo, la Corte ribadisce che l’irreperibilità relativa – ossia la temporanea assenza del destinatario dal luogo di residenza, domicilio o dimora – impone il rispetto della sequenza notificatoria delineata dall’art. 140 c.p.c., comprensiva della spedizione della comunicazione di avviso a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento (c.d. C.A.D.). In secondo luogo, rammenta come l’opzione residuale dell’affissione all’albo comunale presupponga l’accertamento dell’irreperibilità assoluta, da comprovare mediante indagini concrete e documentate, suscettibili di contraddittorio e, se del caso, di querela di falso.

  1. Il principio di diligenza professionale qualificata e l’onere della prova. – È dato rilevare come il fulcro argomentativo della decisione ruoti attorno alla valorizzazione del parametro della diligenza professionale qualificata, mutuato dall’art. 1176, comma 2, c.c. e proiettato nell’azione amministrativa alla luce dell’art. 97 della Costituzione. Ne discende che il messo notificatore – figura che agisce quale longa manus dell’amministrazione – è chiamato a un’attività di ricerca che non può esaurirsi nella consultazione di banche dati statiche, dovendo piuttosto estendersi a verifiche in loco e al reperimento di informazioni anagrafiche aggiornate. Tale impostazione riflette l’esigenza di garantire effettività al diritto di difesa, ponendo la prova dell’esatto svolgimento delle operazioni notificate a carico dell’ente impositore.

La giurisprudenza di legittimità, a partire dalla nota sentenza della Corte costituzionale n. 258/2012, ha metodicamente affinato i confini dell’irreperibilità relativa, equiparando l’omessa comunicazione della C.A.D. alla mancata notifica tout court. Le Sezioni Unite civili, con sentenza n. 10012/2021, hanno poi ulteriormente rafforzato la posizione del destinatario, statuendo che la raccomandata informativa deve pervenire all’effettivo recapito, non essendo sufficiente la mera prova della spedizione.

  1. Le ricadute sulla decadenza e sull’invalidità dell’atto. – La scelta, da parte dell’amministrazione, di percorrere la via breve dell’art. 60, comma 1, lett. e), senza averne i presupposti, si riverbera inevitabilmente sul rispetto del termine di decadenza quinquennale fissato dall’art. 43 d.P.R. 600/73. In assenza di notifica valida, l’avviso di accertamento non esplica efficacia interruttiva e l’intimazione di pagamento risulta priva di base giuridica, con conseguente travolgimento degli atti successivi. Ciò conferma l’interpretazione secondo cui la notificazione non è un mero adempimento formale, ma un elemento costitutivo dell’atto amministrativo tributario, la cui assenza o invalidità incide sul potere impositivo stesso.

Sul punto, l’ordinanza n. 19520/2025 richiama un filone ormai consolidato, che qualifica come «inesistente» la notifica eseguita in violazione delle norme procedurali essenziali, distinguendola concettualmente dalla nullità sanabile. L’invalidità radicale impedisce l’applicazione del meccanismo di sanatoria previsto dall’art. 156 c.p.c., ponendo a carico dell’amministrazione l’onere di ripetere l’intero procedimento, se ancora nei termini.

  1. Prospettive de iure condendo. – Il tracciato ermeneutico delineato dalla Corte di cassazione sollecita una riflessione più ampia sulla necessità di un intervento legislativo che armonizzi la disciplina delle notificazioni alla luce delle innovazioni tecnologiche. L’introduzione obbligatoria del domicilio digitale, ormai in corso di attuazione con riferimento al processo amministrativo e civile, potrebbe rappresentare, anche in ambito tributario, la risposta strutturale alle problematiche connesse all’irreperibilità, riducendo il margine d’alea e responsabilizzando il contribuente nella gestione dei propri indirizzi telematici. Tale prospettiva, tuttavia, impone di preservare un nucleo irriducibile di garanzie, affinché la digitalizzazione non si traduca in un abridgement surrettizio del diritto di difesa.
  2. – L’ordinanza in esame, pur essendo formalmente una pronuncia di legittimità su ricorso, assurge a momento di jus dicere dal marcato valore systemico. Essa ribadisce che l’amministrazione finanziaria non può invocare la procedura semplificata dell’affissione all’albo comunale se non all’esito di accurate verifiche, imponendo un elevato standard di osservanza procedimentale fondato sul principio di diligenza professionale qualificata. Il controllo giurisdizionale, in questa prospettiva, assume la funzione di presidio della legalità e della buona amministrazione, garantendo l’equilibrio tra l’interesse erariale alla riscossione e la tutela del contribuente quale soggetto destinatario di poteri autoritativi.

Resta affidato al legislatore il compito di definire modelli notificatori coerenti con il panorama digitale e con le istanze di semplificazione, salvaguardando, al contempo, la necessità di un’effettiva conoscenza dell’atto quale condizione imprescindibile per il dispiegarsi del contraddittorio e per il corretto funzionamento del sistema tributario.

17 luglio 2025

Applicazione degli interessi moratori nelle obbligazioni professionali: la rilevanza della condotta dilatoria del debitore nella giurisprudenza di legittimità.

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La pronuncia della Corte Suprema di Cassazione, Sezione Seconda Civile, resa nella camera di consiglio del 17 aprile 2025, si inserisce in un filone giurisprudenziale ormai consolidato in materia di determinazione dei compensi professionali e del regime degli interessi moratori applicabili alle obbligazioni pecuniarie derivanti da prestazioni d’opera intellettuale, con particolare riferimento alla professione forense.

La controversia trae origine dal ricorso proposto, ai sensi dell’art. 14 del Decreto Legislativo 1 settembre 2011, n. 150, da due avvocate che hanno prestato attività difensiva in favore di una società di capitali. Le ricorrenti hanno domandato la liquidazione giudiziale dei compensi maturati e la condanna della controparte al relativo pagamento. Il Tribunale di Bergamo, giudicando in contumacia della convenuta e pronunciandosi ex art. 281-sexies c.p.c., ha riconosciuto l’importo preteso, liquidando tuttavia gli interessi nella sola misura legale ex art. 1284 c.c., con decorrenza dalla proposizione della domanda giudiziale.

La doglianza delle ricorrenti, accolta dalla Corte di legittimità, ha riguardato la violazione della disciplina dettata dal Decreto Legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, recante attuazione della Direttiva 2000/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, concernente la lotta contro i ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali. Il Collegio ha riconosciuto che tale disciplina speciale si applica anche ai contratti d’opera professionale, e quindi anche all’attività forense, qualificabile, in determinate circostanze, come prestazione soggetta a rapporti di natura commerciale tra professionista e cliente imprenditore o ente.

In particolare, la Suprema Corte ha evidenziato che il riconoscimento degli interessi moratori di cui agli artt. 4 e 5 del D.Lgs. n. 231/2002 non presuppone la piena liquidità del credito, bensì richiede esclusivamente che il ritardo nel pagamento non sia giustificato da una causa non imputabile al debitore. A tal proposito, rileva l’orientamento che esclude l’applicabilità del principio romanistico in illiquidis non fit mora e ammette l’operatività della mora anche in presenza di crediti non ancora determinati nel quantum, purché siano ragionevolmente stimabili, come accade nel caso dei compensi professionali calcolabili sulla base dei parametri forensi vigenti.

Degno di nota è il richiamo al quarto comma dell’art. 1284 c.c., il quale dispone che, in assenza di diversa pattuizione tra le parti, a decorrere dalla proposizione della domanda giudiziale si applica il saggio degli interessi previsto dalla normativa speciale relativa ai ritardi nei pagamenti delle transazioni commerciali. Tale previsione riconduce dunque direttamente al tasso previsto dal D.Lgs. n. 231/2002, il quale ha carattere sanzionatorio e compensativo per il ritardo ingiustificato nell’adempimento di obbligazioni pecuniarie.

La Corte ha altresì ritenuto erronea la motivazione del giudice di merito nella parte in cui ha omesso di valutare la documentazione stragiudiziale attestante la costituzione in mora della società debitrice, avvenuta ben prima dell’introduzione del giudizio, e ha quindi cassato la sentenza con rinvio per una nuova valutazione anche ai fini della corretta decorrenza degli interessi moratori.

Quanto al secondo motivo di ricorso, avente ad oggetto la mancata pronuncia sulla rivalutazione monetaria del credito, la Corte lo ha rigettato, aderendo all’orientamento secondo cui la mancata liquidità del credito impedisce il riconoscimento automatico della rivalutazione. Tuttavia, è stato ribadito che anche in presenza di contestazioni circa l’esistenza o l’ammontare del credito, il comportamento dilatorio del debitore può integrare una colpa sufficiente a fondare la decorrenza degli interessi moratori dalla data della domanda o dalla diffida stragiudiziale.

Il principio affermato, dunque, consolida una prospettiva interpretativa volta ad attribuire rilievo alla condotta processuale e pre-processuale del debitore, qualificandola in termini di diligenza professionale qualificata ex art. 1176, comma 2, c.c. In tale ottica, l’omessa tempestiva contestazione del credito ovvero l’assenza di motivi giuridicamente apprezzabili per il mancato pagamento consente di ravvisare la colpa contrattuale e, di conseguenza, di applicare il regime sanzionatorio proprio degli interessi moratori commerciali.

La decisione in oggetto si presenta di indubbia rilevanza sistematica, in quanto rafforza la posizione creditoria del professionista nell’ambito delle obbligazioni di valuta, chiarendo le condizioni e i presupposti per l’applicazione della disciplina antiritardo prevista dalla normativa unionale e recepita nel diritto interno. Essa contribuisce inoltre a delineare con maggiore certezza il perimetro operativo del D.Lgs. 231/2002, estendendone l’efficacia ai rapporti obbligatori derivanti da prestazioni d’opera intellettuale in ambito professionale, conferendo valore alla funzione sanzionatoria degli interessi moratori anche in contesti non propriamente commerciali in senso stretto.

La Corte ha cassato l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Bergamo in diversa composizione, affinché provveda a un nuovo esame della domanda tenendo conto dei principi espressi, riaffermando con ciò la centralità della tutela del credito professionale nell’ordinamento giuridico, in un’ottica di effettività delle garanzie a presidio della giusta remunerazione dell’attività intellettuale.

16 luglio 2025

L’utilizzo del contenuto di dispositivi elettronici personali nei giudizi di separazione: profili di legittimità e limiti normativi.

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

Nel contesto del contenzioso familiare contemporaneo, l’impiego delle prove digitali estratte da dispositivi elettronici personali, in particolare dai telefoni cellulari dei coniugi, ha assunto un ruolo di crescente centralità, divenendo strumento cardine per la dimostrazione di condotte suscettibili di determinare l’addebito della separazione. Tale fenomeno, espressione dell’evoluzione tecnologica e della sempre più pervasiva digitalizzazione delle relazioni interpersonali, solleva delicate questioni in merito alla legittimità dell’acquisizione e utilizzabilità in giudizio di tali elementi probatori, imponendo un’attenta valutazione del bilanciamento tra il diritto alla prova e la tutela della riservatezza personale, anche alla luce del principio di proporzionalità.

Una prima linea ermeneutica, avallata dalla sentenza n. 6432 del 30 marzo 2016 del Tribunale di Roma, ha riconosciuto la liceità dell’utilizzo processuale delle riproduzioni di messaggi rinvenuti in modo fortuito dal coniuge nel dispositivo dell’altro, lasciato incustodito in un ambiente comune dell’abitazione familiare. In tale fattispecie, la coabitazione e la condivisione di spazi e strumenti di uso quotidiano configurano una situazione in cui si determina, secondo il giudice di merito, un fisiologico affievolimento del diritto alla riservatezza, legittimando l’accesso occasionale a dati personali.

Tale orientamento ha trovato ulteriore consolidamento nella giurisprudenza della Corte di cassazione che, con ordinanza n. 13121 del 12 maggio 2023, ha affermato la legittimità dell’utilizzo, in chiave difensiva, di screenshot di conversazioni tramite applicazioni di messaggistica istantanea, tra cui WhatsApp, nel contesto di un procedimento di separazione personale. La Suprema Corte ha posto in risalto la prevalenza del diritto di difesa, sancito dall’articolo 24 della Costituzione della Repubblica Italiana, e ha altresì richiamato l’articolo 51 del Codice penale, che esclude la punibilità di chi eserciti un diritto riconosciuto dall’ordinamento. L’elaborazione giurisprudenziale evidenzia dunque una progressiva apertura verso l’ammissione delle prove digitali, purché ottenute nel rispetto delle garanzie fondamentali e in assenza di violazioni sostanziali della sfera privata.

Sul versante opposto, risulta di particolare rilievo l’indirizzo restrittivo tracciato dalla Cassazione penale nella sentenza n. 19421 del 23 maggio 2025, secondo cui l’accesso arbitrario al dispositivo informatico del coniuge, protetto da credenziali di sicurezza, configura una violazione dell’articolo 615-ter del Codice penale, che disciplina l’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico. Il dispositivo mobile, infatti, viene qualificato come sistema informatico a pieno titolo, e le misure di sicurezza, quali le password, rappresentano barriere giuridicamente rilevanti, la cui elusione comporta l’integrazione della fattispecie incriminatrice.

L’ordinanza n. 4530 del 20 febbraio 2025 ha ulteriormente chiarito che non può considerarsi lecita l’acquisizione di dati provenienti dal telefono del coniuge sulla base di dichiarazioni testimoniali de relato, le quali si limitano a riferire una presunta consuetudine di reciproca condivisione dell’accesso ai dispositivi. In difetto di prova diretta e certa della legittimità dell’acquisizione, l’utilizzo processuale delle conversazioni è da considerarsi inammissibile, pena la lesione del diritto alla riservatezza, costituzionalmente garantito.

In ambito penalistico, ulteriori sviluppi si rinvengono nella sentenza n. 7338 del 21 febbraio 2025 della Cassazione penale, la quale ha qualificato come prova documentale, idonea a essere prodotta in giudizio, la registrazione fonografica di colloqui tra presenti, effettuata unilateralmente da uno dei partecipanti. La registrazione, se riversata su supporto idoneo e presentata in modo da garantire il contraddittorio, non integra un’intercettazione ambientale e può pertanto essere validamente utilizzata, delineando un significativo strumento probatorio anche in ambito familiare.

A fondamento della valutazione di liceità nell’utilizzo di tali prove digitali, rilevano altresì le Regole deontologiche adottate dal Garante per la protezione dei dati personali nel 2018, che aggiornano il Codice di deontologia forense del 2008. Tali disposizioni, specificamente dedicate ai trattamenti di dati personali effettuati per finalità difensive o per l’esercizio di un diritto in sede giudiziaria, impongono al professionista l’adozione di un comportamento ispirato alla diligenza professionale qualificata, nel rispetto del principio di pertinenza, non eccedenza e proporzionalità, con lo scopo di tutelare l’integrità della sfera personale del soggetto controinteressato.

Alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale sopra delineata, appare evidente che l’impiego dei contenuti digitali estratti dal dispositivo dell’altro coniuge nei procedimenti di separazione richiede un’attenta ponderazione tra esigenze probatorie e salvaguardia dei diritti fondamentali, quali la riservatezza, l’inviolabilità del domicilio digitale e la libertà di comunicazione. L’accesso lecito ai dati può avvenire unicamente in presenza di circostanze fortuite o di un consenso esplicito, mentre la violazione di misure di sicurezza tecnica comporta conseguenze giuridiche rilevanti sotto il profilo penale, oltre a inficiare l’utilizzabilità della prova.

In conclusione, la giurisprudenza più recente conferma l’importanza di un approccio interpretativo coerente con i principi costituzionali e sovranazionali in materia di tutela dei diritti della persona, nonché con i canoni deontologici della professione forense. In tale prospettiva, si impone una rigorosa valutazione della legittimità della prova digitale, che non può prescindere dal rispetto delle garanzie procedimentali e dei limiti posti dall’ordinamento a presidio della dignità e dell’autonomia del soggetto coinvolto.

14 luglio 2025