A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola
La recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 11586 del 2 maggio 2025 costituisce una significativa tappa evolutiva nella giurisprudenza in materia di tutela del lavoratore subordinato, specificamente con riferimento all’istituto del demansionamento. Con tale provvedimento, la Suprema Corte ha ribadito, con ulteriore fermezza rispetto ai precedenti orientamenti, il principio secondo cui l’assegnazione a mansioni inferiori non determina automaticamente un danno risarcibile in re ipsa, bensì necessita di specifica allegazione e dimostrazione delle conseguenze pregiudizievoli subite, sia sul piano patrimoniale sia su quello non patrimoniale.
Tale impostazione si innesta nel solco già tracciato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la storica sentenza n. 6572 del 2006, la quale aveva sancito l’abbandono della concezione meramente oggettiva del danno da dequalificazione. La ratio decidendi sottesa a tale orientamento consiste nella necessità di coniugare la tutela della persona del lavoratore con i principi fondamentali dell’ordinamento civilistico, in particolare quelli relativi all’onere della prova (art. 2697 c.c.) e alla funzione del risarcimento del danno quale strumento compensativo e non punitivo.
L’illegittima modificazione in peius dell’oggetto della prestazione lavorativa, ancorché suscettibile di produrre effetti lesivi rilevanti, non comporta, dunque, ex se il sorgere del diritto al risarcimento. È richiesto, invece, che il lavoratore dimostri, anche mediante presunzioni gravi, precise e concordanti, la concreta lesione della propria sfera giuridica soggettiva. L’onere probatorio si declina, pertanto, nell’allegazione di fatti storici specifici idonei a fondare un giudizio di verosimiglianza circa la sussistenza del pregiudizio.
Sotto il profilo patrimoniale, il danno può consistere nell’impoverimento della capacità professionale, intesa come perdita di competenze tecniche e conoscenze operative, oppure nella perdita di chance, ovvero nella frustrazione di potenzialità evolutive di carriera e occasioni di miglioramento reddituale. Sul versante non patrimoniale, si configura un vulnus alla dignità e alla identità professionale del prestatore d’opera, integrando una violazione dei diritti inviolabili della persona tutelati dagli artt. 2 e 41 Cost. e dall’art. 2087 c.c., i quali impongono al datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.
L’accertamento giudiziale del danno, pertanto, non può fondarsi su presunzioni generiche o su automatismi risarcitori, bensì deve essere ancorato all’analisi concreta delle circostanze del caso specifico. In tal senso, risulta censurabile la pronuncia della Corte d’appello successivamente cassata dalla Suprema Corte, per aver omesso ogni valutazione delle peculiarità fattuali del rapporto lavorativo e per aver desunto la sussistenza del danno esclusivamente sulla base di un precedente giurisprudenziale astratto.
Viceversa, la sentenza del Tribunale di Milano del 7 maggio 2025 si distingue per aver riconosciuto, con adeguata motivazione, l’esistenza di un danno risarcibile nella misura del 30% della retribuzione mensile globale, sulla scorta del carattere reiterato della condotta datoriale, della rilevanza qualitativa delle mansioni disattese e della durata significativa del periodo di dequalificazione. Tale decisione si fonda su un corretto utilizzo del criterio equitativo ex art. 1226 c.c., applicato in presenza di una comprovata difficoltà di quantificazione del danno.
Ne consegue che non ogni mutamento mansione integra ipso iure un demansionamento illegittimo, essendo necessario accertare una effettiva e sostanziale dequalificazione professionale, caratterizzata da una sottoutilizzazione stabile delle competenze acquisite, nonché da una regressione nella crescita professionale e nella valorizzazione del capitale umano.
La prova del danno deve articolarsi su un compendio sistematico di elementi presuntivi e documentali, tra cui rilevano: la durata del demansionamento; la distanza gerarchico-funzionale tra le mansioni originarie e quelle nuove; la perdita di occasioni formative; la lesione del decoro e della reputazione professionale interna ed esterna; la compromissione dell’immagine professionale del lavoratore nel contesto aziendale e nel mercato del lavoro.
La giurisprudenza più recente rafforza un approccio interpretativo rigoroso e coerente con i principi del diritto del lavoro e del diritto civile, nella prospettiva di una tutela effettiva ma non automatica della professionalità del lavoratore subordinato. In tale ottica, il danno da demansionamento si configura come una fattispecie complessa, che richiede una puntuale allegazione dei fatti, una solida base probatoria e una valutazione giudiziale improntata a criteri di ragionevolezza, proporzionalità ed equità sostanziale.
9 giugno 2025