La perdita della capacità di guadagno fra accertamento e liquidazione: riflessioni sistematiche a partire dall’ordinanza della Corte di cassazione, Sez. III civile, 18 marzo 2025, n. 25733

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La pronuncia in commento, resa dalla Terza Sezione della Suprema Corte, costituisce un passaggio centrale nel percorso evolutivo della responsabilità civile da lesione personale, poiché affronta con rinnovata profondità dogmatica i criteri di ricostruzione del nesso eziologico, di distribuzione dell’onere probatorio e di determinazione equitativa del danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro. Il Collegio, richiamando i canoni di integrale riparazione sanciti dagli artt. 1223, 1226 e 2056 cod. civ. (c.c.), ribadisce che la «diligenza professionale qualificata» esige un procedimento valutativo individualizzato capace di tenere insieme il dato medico‑legale, le peculiarità della vicenda occupazionale della vittima e le variabili del mercato del lavoro. La decisione, nel declinare con finezza l’interferenza tra principio di solidarietà costituzionale (art. 2 e 4 Cost.) e dovere di attivazione del danneggiato ex art. 1227, comma 2, c.c., offre spunti di sicuro rilievo tanto per l’elaborazione scientifica quanto per la prassi forense.

La vicenda processuale rivela la confluenza di questioni che travalicano il singolo contenzioso. La ricorrente, storica dipendente di un’impresa di logistica, subisce nel 2014 un incidente stradale che le provoca una frattura scomposta dell’omero destro, esito clinico che, dopo un periodo di terapia conservativa, lascia postumi permanenti quantificati in una riduzione funzionale del 15 %. La lavoratrice, licenziata per superamento del periodo di comporto, agisce in giudizio per il risarcimento del danno da lucro cessante lamentando l’impossibilità di reinserimento professionale in mansioni equivalenti. Il Tribunale, ritenendo indimostrata la concreta incidenza reddituale del postumo, rigetta la domanda; la Corte d’appello, pur riformando la sentenza di primo grado, riconosce un importo parametrato a sole sei mensilità di retribuzione, valorizzando l’asserita inerzia della danneggiata nella ricerca di un nuovo impiego. La Cassazione interviene cassando con rinvio, ponendo al centro del discorso la corretta qualificazione giuridica dell’incapacità lavorativa e la necessità di un controllo rigoroso sulla causalità economica fileciteturn1file7turn1file16.

Il ragionamento della Suprema Corte prende le mosse dalla distinzione, spesso trascurata, tra la «causa» del danno patrimoniale – identificata nell’invalidità che altera l’idoneità alla prestazione – e il danno in senso stretto, ossia la perdita o la riduzione del reddito effettivamente percepito. Tale discrimine, lungi dall’essere un mero sofisma concettuale, riflette la necessità di evitare automatismi compensativi fondati sulla sola percentuale del postumo. La misurazione dell’invalidità, osserva la Corte, è inidonea di per sé a fondare una presunzione assoluta di diminuzione del guadagno: occorre invece indagare, con metodo analitico, se la menomazione abbia inciso sulle concrete possibilità di svolgere l’attività abituale o attività alternative ragionevolmente compatibili con il bagaglio professionale della vittima fileciteturn1file12turn1file18.

In questo alveo ermeneutico prende forma il criterio triadico di controllo, secondo il quale il giudice deve, in primo luogo, accertare l’esatta portata dei postumi permanenti attraverso un’indagine medico‑legale puntuale; in secondo luogo, esaminare il contenuto professionale delle mansioni svolte prima dell’evento lesivo, verificando la sussistenza di un’incompatibilità funzionale fra menomazioni e compiti lavorativi; infine, valutare la ragionevole incidenza reddituale prospettata, avvalendosi di dati documentali e di proiezioni fondate su parametri concreti quali età, qualificazione, contesto socio‑economico e tendenze occupazionali fileciteturn1file2. La Corte richiama, a conforto, orientamenti di diritto del lavoro che valorizzano l’obbligo del datore di lavoro di adibire il dipendente a mansioni compatibili, evidenziando come tale obbligo non esaurisca le ipotesi di reinserimento in altri segmenti produttivi.

Il tema dell’onere probatorio si intreccia con il dovere di cooperazione processuale: spetta al danneggiato allegare e provare, anche tramite presunzioni semplici, la concreta perdita di chance reddituali; ma non è sufficiente al responsabile eccepire l’astratta possibilità di riqualificazione per attestare una negligenza qualificata dell’attore. L’art. 1227, comma 2, c.c. opera, secondo la Cassazione, come «valvola correttiva» che consente, in presenza di condotte colpose successive all’illecito, di ridurre la misura del risarcimento, senza però arrivare ad escluderlo integralmente. La ratio di tale impostazione viene ricondotta ad una lettura costituzionalmente orientata del principio di solidarietà, che impone un equilibrio fra tutela dell’integrità psico‑fisica e incentivo al reinserimento produttivo fileciteturn1file11turn1file13.

La liquidazione equitativa, calata in questa cornice metodologica, assume la forma di una capitalizzazione analitica, che respinge l’adozione di tabelle standardizzate sganciate dalle caratteristiche soggettive della vittima e dalle oscillazioni del mercato del lavoro. La Suprema Corte indica al giudice del rinvio di valorizzare gli indici di residuale idoneità lavorativa, le qualificazioni conseguibili mediante percorsi formativi compatibili, nonché i tassi di disoccupazione settoriale, così da prevenire un risarcimento surrettiziamente punitivo ovvero, per converso, irrisorio. È in questa prospettiva che il parametro della «diligenza professionale qualificata» funge da criterio di verifica ex post della tenuta argomentativa della sentenza, assicurando che l’equità non si traduca in arbitrarietà fileciteturn1file17.

Da un punto di vista sistematico, la decisione in esame si colloca lungo la traiettoria evolutiva tracciata da Cass., Sez. Un., 15 luglio 2022, n. 22585, la quale aveva già disinnescato la tesi dell’automatismo aritmetico fra invalidità biologica e danno patrimoniale, insistendo sulla necessità di un’indagine differenziata per categorie professionali. L’ordinanza del 2025 affina tale impostazione, evidenziando che il fondamento assiologico della responsabilità civile non risiede nella tutela della salute intesa come valore a sé stante, bensì nella tutela dell’attività produttiva quale manifestazione del diritto all’autorealizzazione. In ciò si riscontra un dialogo fecondo con la giurisprudenza costituzionale che, sin dalla sentenza n. 184/1986, attribuisce rilevanza al lavoro non solo come fonte di sostentamento ma come dimensione identitaria della persona.

Le ricadute operative della pronuncia sono destinate ad incidere sulle strategie difensive di avvocati e compagnie assicuratrici. La parte attrice, consapevole dell’onerosità probatoria richiesta, sarà indotta a predisporre un corredo documentale che includa, oltre alle certificazioni medico‑legali, bilanci individuali, documenti di retribuzione, eventuali rifiuti di offerte di lavoro e statistiche di settore. Il convenuto, dal canto suo, dovrà strutturare un’istruttoria volta a dimostrare la disponibilità di impieghi compatibili, magari avvalendosi di consulenze specialistiche in ambito di orientamento professionale. Ne risulta rafforzato il ruolo del CTU come actus legitimus di sintesi fra perizia medica e analisi del contesto economico, chiamato a fornire al giudice elementi che travalicano la mera quantificazione dell’invalidità.

In conclusione, l’ordinanza del 18 marzo 2025 sembra inaugurare una stagione di maggiore sofisticazione degli strumenti di tutela del reddito da lavoro, superando la dicotomia tradizionale fra danno biologico e danno patrimoniale e inscrivendola in un’ottica di protezione integrata della persona‑lavoratore. Si conferma così la centralità di una lettura interdisciplinare del risarcimento, che tenga insieme diritto civile, diritto del lavoro ed economia, valorizzando una concezione della responsabilità civile non meramente compensativa ma dinamicamente orientata alla ricostruzione delle condizioni di vita e di produzione del reddito della vittima. La dottrina, in dialogo con la giurisprudenza di legittimità, dovrà proseguire nello sforzo di sistematizzazione concettuale, allo scopo di dotare l’ordinanza di un tessuto teorico capace di sostenerne l’applicazione uniforme nei fori di merito.

24 giugno 2025