
A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola
L’evoluzione dell’impresa capitalistica – accelerata, negli ultimi trent’anni, dalla finanziarizzazione dei mercati e dalla penetrazione di modelli manageriali di matrice anglosassone – ha condotto alla progressiva sovrapposizione fra professionalità dirigenziale e funzioni gestorie proprie dell’organo amministrativo. Il fenomeno, perlopiù veicolato dalla figura dell’amministratore delegato (di seguito, AD), impone di misurarsi con la tradizionale categoria della subordinazione, la cui sussistenza – pur nella versione attenuata tipica del management – richiede l’esistenza di un potere direttivo, organizzativo e disciplinare effettivamente esercitato da un soggetto sovraordinato. In tale prospettiva, la questione della compatibilità fra contratto di lavoro subordinato di livello dirigenziale e carica di amministratore investe simultaneamente profili civilistici (in termini di validità ed efficacia del doppio rapporto), giurisprudenziali (quanto all’interpretazione dell’art. 2380‑bis, comma 2, c.c. e alla configurazione dei poteri dell’organo collegiale) nonché previdenziali (per il delicato equilibrio fra le assicurazioni obbligatorie gestite dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, Inps).
Sin dalla storica pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 10680 del 1994, la coesistenza è stata reputata ammissibile solo ove il dirigente esplichi mansioni concretamente distinte da quelle oggetto della delega gestionale e risulti assoggettato a un potere di controllo idoneo a inverare l’elemento della subordinazione. Successivamente, la giurisprudenza di legittimità ha raffinato tale costrutto dogmatico, definendo – mediante decisioni che si collocano in una ideale linea evolutiva culminata nella sentenza n. 5318 del 28 febbraio 2025 – una tassonomia delle funzioni incompatibili: viene così esclusa, in via quasi assoluta, la possibilità di cumulo per il presidente del consiglio di amministrazione (Cda), la cui posizione apicale è ritenuta ontologicamente priva di un superiore gerarchico, mentre si ammette, in termini più elastici, la sovrapposizione fra contratto dirigenziale e carica di AD, purché il potere rappresentativo esterno sia modulato attraverso deleghe circoscritte e obblighi di rendicontazione periodica.
Il nodo cruciale risiede, pertanto, nel delicato bilanciamento fra autonomia organizzativa richiesta al top management – in ossequio al criterio della diligenza professionale qualificata di cui all’art. 2104 c.c. – e necessità di un effettivo potere di eterodirezione che giustifichi l’iscrizione del rapporto alle gestioni assicurative del lavoro subordinato. In tale contesto, l’Inps ha adottato un approccio spiccatamente sostanzialistico, codificato, fra l’altro, nel messaggio n. 3359 del 2019, nel quale afferma la necessità di verificare «in concreto» la sussistenza di un potere disciplinare, seppur in forma attenuata, e di un assetto di governance capace di esercitarlo. Laddove la verifica abbia esito negativo, l’Istituto procede alla riqualificazione del rapporto in forma autonoma, con effetti ex tunc sugli obblighi contributivi e conseguente iscrizione alla Gestione separata.
L’impresa che intenda preservare la compatibilità è pertanto chiamata a un’articolata opera di ingegneria contrattuale e statutaria: da un lato, l’atto consiliare di nomina deve delimitare analiticamente l’oggetto della delega attributiva di poteri all’AD, circoscrivendone l’ambito alle sole sfere funzionali che richiedono prontezza decisionale; dall’altro, il contratto di lavoro deve individuare mansioni ulteriori – ad esempio la direzione di specifiche business unit o la guida di progetti strategici – e, soprattutto, deve prevedere meccanismi di valutazione delle performance, nonché clausole disciplinari che rinviino a un codice di condotta adottato dal Cda. Ne discende l’esigenza di una documentazione rigorosa, che renda percepibile, anche all’esterno, la distinzione fra gli atti compiuti uti socii e quelli svolti uti operarius.
Un ulteriore profilo di complessità riguarda l’attribuzione dei poteri di firma: la prassi ormai dominante depone a favore della necessità di una firma congiunta con altro consigliere per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione o di un limite quantitativo al potere di spesa individuale dell’AD‑dirigente. Si tratta di accorgimenti essenziali non solo per sostenere in sede ispettiva l’esistenza di un effettivo potere di indirizzo del Cda, ma anche per prevenire possibili contestazioni in ordine alla responsabilità per atti di mala gestio, la cui natura extracontrattuale esporrebbe l’amministratore a un regime di responsabilità più gravoso rispetto a quello in cui versa il mero prestatore di lavoro.
Le ricadute sanzionatorie dovute a errata qualificazione del rapporto si manifestano su più piani: civilistico, con la possibile nullità o inopponibilità al lavoratore di clausole che altrimenti sarebbero prevalenti; previdenziale, con l’annullamento dei versamenti effettuati alla gestione dirigenti e la loro traslazione alla Gestione separata, operazione spesso foriera di scoperture assicurative; fiscale, con la riqualificazione dei compensi percepiti e il conseguente recupero di imposta da parte dell’Agenzia delle Entrate; infine, penale‑societario, allorché l’assenza di un adeguato assetto organizzativo evidenziato dalla riqualificazione integri gli estremi dell’inosservanza degli obblighi di cui all’art. 2381, comma 3, c.c.
Nel dialogo fra prassi e giurisprudenza emerge, altresì, la rilevanza del diritto unionale: le direttive in materia di corporate sustainability e di whistleblowing, pur non affrontando in via diretta la questione del doppio rapporto, enfatizzano la centralità di procedure trasparenti di monitoraggio interno, le quali, se effettive, possono rafforzare la percezione di un controllo consiliare idoneo a salvaguardare la subordinazione. Analogamente, la giurisprudenza della Corte di giustizia, nell’interpretare la nozione di “lavoratore” ai fini della tutela previdenziale e della parità di trattamento, valorizza criteri fattuali che ben si prestano a essere traslati nello scrutinio domestico.
In chiave comparatistica, si rileva che negli ordinamenti di common law la sovrapposizione fra impiego e carica è regolata da un duty of loyalty che non ammette deroghe statutarie e impone la disclosure di ogni conflitto d’interessi: una disciplina che, sebbene formalmente distinta, suggerisce al giurista d’impresa italiano di implementare procedure di compliance capaci di attestare la separazione fra funzioni, così da sterilizzare il rischio di commistione fra poteri.
Sul versante della contrattualistica individuale, assumono rilievo le clausole di good leaver e di indennizzo, cui spesso si fa ricorso per remunerare il dirigente‑amministratore: qualora il rapporto venga riqualificato, tali pattuizioni rischiano di essere assoggettate al vaglio della disciplina sul recesso ingiustificato e sulle indennità sostitutive previste dal contratto collettivo dirigenti, con potenziali effetti moltiplicatori dell’esposizione economica dell’impresa.
Il quadro sin qui tracciato conduce a un approdo di sistema nel quale la compatibilità è eccezione e non regola: la società di capitali che intenda percorrere la via del cumulo dovrà adottare un impianto di governance che non si limiti alla formalistica ripartizione di deleghe, ma che si manifesti quale reale architettura di controlli incrociati, periodici rendiconti, reporting continuo e capacità di intervento correttivo del Cda. Solo un simile assetto – corroborato da una linearità contribuzionale e da politiche retributive trasparenti – appare idoneo a soddisfare il parametro della ragionevolezza richiesto al giurista d’impresa e, nel contempo, a neutralizzare l’alea di riqualificazione in sede giudiziale o amministrativa.
Si osserva che la compatibilità fra contratto dirigenziale e carica di amministratore rappresenta oggi un istituto praticabile, ma ad elevatissima complessità attuativa: la dottrina e la giurisprudenza convergono nel delineare un sentiero stretto, in cui ogni deviazione – fosse anche di carattere meramente organizzativo – può trasformarsi in un boomerang dagli esiti onerosi. L’avvocato d’affari e il consulente del lavoro sono dunque chiamati a un’opera di tailoring disciplinare che tenga conto degli orientamenti più recenti della Corte di cassazione e delle prassi ispettive dell’Inps, senza trascurare gli impulsi provenienti dalla regolazione unionale e dalla comparazione interordinamentale. Solo così la società di capitali potrà coniugare l’esigenza di attrarre e trattenere executive talents con il rispetto di un quadro normativo che, lungi dall’essere meramente formale, si sostanzia in un complesso di garanzie a presidio dell’equilibrio fra interessi collettivi e autonomia negoziale.
30 giugno 2025
