A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola
Il fenomeno del trasferimento di ramo d’azienda ‒ in particolare quando il compendio ceduto è ascrivibile alla categoria dei c.d. rami leggeri, costituiti quasi esclusivamente da capitale umano ‒ continua a rappresentare un banco di prova emblematico per la capacità dell’ordinamento di coniugare libertà d’iniziativa economica e tutela delle situazioni giuridiche soggettive dei lavoratori.
La cornice normativa sovranazionale è segnata dalla direttiva 2001/23/CE, succeduta alla 77/187/CEE, che impone la continuità del rapporto di lavoro mediante il subentro ex lege dell’acquirente in tutti i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto: tale automatismo, pur finalizzato a preservare la continuité de l’entreprise, viene attenuato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE), la quale riconosce al lavoratore un diritto di opposizione ancorato alla libertà di autodeterminazione professionale e al principio di protezione della parte contrattuale debole.
Nel diritto interno, l’art. 2112 del Codice civile (in prosieguo c.c.) recepisce formalmente il modello di trasferimento automatico, omettendo però di disciplinare espressamente la facoltà di dissenso del dipendente. Da qui sorge la questione ermeneutica circa la necessità di un’interpretazione conforme agli articoli 16 e 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, più in generale, ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità sanciti dalla giurisprudenza costituzionale.
Una recente pronuncia del Tribunale di Ravenna, sentenza 26 giugno 2025, ha affrontato il tema riconoscendo che, qualora il trasferimento concerna un’articolazione produttiva priva di beni materiali e caratterizzata dalla sola disponibilità di competenze professionali, il rifiuto – manifestato da una percentuale preponderante dei lavoratori coinvolti – è idoneo a vanificare l’operazione e ad imporre la prosecuzione del rapporto con il cedente. Il giudice romagnolo, richiamando i principi elaborati dalla CGUE in materia di dignità e stabilità occupazionale, ha rilevato come l’assenza di cespiti strumentali renda l’identità economico‑funzionale del ramo inestricabilmente legata alla compagine umana, cosicché la massa salariale stessa costituisce l’elemento prodromico alla determinazione del corrispettivo.
Siffatta impostazione si rivela coerente con il principio di effet utile, poiché scongiura interpretazioni meramente formalistiche dell’art. 2112 c.c. e salvaguarda il diritto dei lavoratori alla continuità delle condizioni di impiego. Sul versante imprenditoriale, s’impone una diligenza professionale qualificata nella fase di strutturazione dell’operazione, che dovrà prevedere una robusta due diligence giuslavoristica in grado di misurare l’eventuale impatto dell’opposizione sulla fattibilità del progetto.
Dal punto di vista contrattuale, eventuali pattuizioni volte a vincolare il dipendente all’accettazione automatica del trasferimento appaiono suscettibili di essere qualificate come clausole abusive per violazione degli artt. 1322 e 1419 c.c., in quanto alterano in modo significativo l’equilibrio sinallagmatico e contravvengono ai limiti dell’inderogabilità delle tutele minime di matrice sovranazionale. Di conseguenza, la nullità parziale dell’accordo lascerebbe sopravvivere le sole disposizioni compatibili con l’assetto ordinamentale di garanzia.
Sul piano macroeconomico, la centralità delle risorse umane in operazioni di business transfer prive di asset tangibili accentua il rischio di perdita di valore in caso di opposizione collettiva: si pensi ai programmi di outsourcing di servizi ad alta intensità di know‑how o alle scissioni societarie finalizzate a razionalizzare funzioni di supporto. L’interesse pubblico alla stabilità dei livelli occupazionali e alla salvaguardia della competitività impone, dunque, soluzioni negoziali ispirate al dialogo sociale e alla prevenzione del contenzioso.
Il contrasto interpretativo registrato in giurisprudenza – tra l’indirizzo che predilige la continuità dell’impresa e quello che valorizza il consenso individuale – riflette una tensione sistemica irrisolta. In assenza di un intervento legislativo chiarificatore, l’evoluzione ermeneutica sembra orientarsi verso modelli compositi, volti a contemperare l’esigenza di efficienza economica con la tutela della dignità del lavoratore, in ossequio al principio del bilanciamento ragionevole di interessi contrapposti. Tale approdo appare maggiormente persuasivo alla luce dell’art. 30 della Carta di Nizza, che consacra il diritto alla protezione contro il licenziamento ingiustificato.
L’art. 2112 c.c. deve essere interpretato in modo da riconoscere, almeno nelle operazioni light, uno spazio alla contrattazione individuale e collettiva, evitando che l’automatismo normativo degeneri in un’adesione coatta alle decisioni imprenditoriali. L’approccio valorizzato dalla giurisprudenza di merito, oltre a garantire la coerenza con il diritto dell’Unione europea, favorisce la sostenibilità sociale delle ristrutturazioni aziendali e incentiva la responsabilità dell’imprenditore nell’adozione di strategie organizzative fondate sul consenso e sulla partecipazione.
L’evoluzione giurisprudenziale più recente ha riacceso il dibattito sul complesso rapporto — sotto il profilo della disciplina di fonte eurounitaria e nazionale — fra libertà d’iniziativa economica dell’imprenditore e tutela della posizione giuridica del lavoratore in ipotesi di cessione di ramo d’azienda privo di significativa consistenza materiale, fenomeno sovente descritto come operazione light.
Sin dall’adozione della direttiva 2001/23/CE, l’ordinamento dell’Unione europea (UE) ha delineato un modello di continuità del rapporto di lavoro fondato sul trasferimento automatico, in capo al cessionario, di diritti ed obblighi nascenti dal contratto. Tale impostazione, ispirata all’esigenza di salvaguardare l’occupazione nel contesto di ristrutturazioni aziendali, è stata però temperata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE), la quale ha riconosciuto al prestatore un diritto di opposizione fondato sul principio di autodeterminazione professionale e sulla tutela della parte contrattuale strutturalmente più debole.
Nel recepire la normativa sovranazionale, l’art. 2112 del Codice civile (c.c.) ha mantenuto un meccanismo solo apparentemente improntato all’automatismo, poiché non contiene clausole che sopprimano in modo espresso la facoltà di dissenso. Ne discende una tensione interpretativa che impone un’ermeneutica conforme ai canoni eurounitari: il trasferimento non può essere considerato ineluttabile qualora si risolva in una mera relocazione del capital umano, priva di asset materiali o di reale autonomia funzionale.
La decisione del Tribunale di Ravenna del 26 giugno 2025 costituisce un passaggio nodale nell’affermare che, in presenza di un ramo leggero formato quasi esclusivamente da professionalità, la manifestazione di dissenso dei dipendenti — circa il 90 per cento del personale coinvolto nel caso esaminato — impedisce di fatto la stessa successione a titolo particolare nel contratto di lavoro. Il ragionamento valorizza l’assenza di beni strumentali quali indice decisivo dell’insussistenza di continuità organizzativa, cosicché l’operazione di business transfer risulta priva di oggetto e, pertanto, inidonea a produrre l’effetto traslativo.
In tale orizzonte dogmatico, l’imprenditore è gravato da un’obbligazione di diligenza professionale qualificata che si traduce, in concreto, nell’esecuzione di una rigorosa due diligence giuslavoristica preliminare. Essa dovrà sondare, oltre ai profili finanziari, la prevedibile adesione dei lavoratori, al fine di evitare contenziosi che possano pregiudicare la sostenibilità economica e organizzativa dell’operazione.
Sul versante contrattuale, eventuali pattuizioni volte a vincolare ex ante il lavoratore all’accettazione del trasferimento rischiano di integrare un’ipotesi di abusività della clausola, poiché alterano in maniera significativa l’equilibrio sinallagmatico e si pongono in frontale contrasto con norme imperative di derivazione unionale. L’invalidità di tali disposizioni discende dall’art. 1419 c.c., letto alla luce dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che tutela il diritto alla protezione contro il licenziamento ingiustificato.
Le ricadute sul piano della concorrenza e della politica industriale sono di immediata percezione: laddove il valore patrimoniale del ramo d’azienda si concentri nel patrimonio di competenze dei dipendenti, il dissenso di questi ultimi determina la dissoluzione economica dell’operazione, minando strategie di outsourcing e progetti di scissione societaria finalizzati alla razionalizzazione delle business unit.
Dal punto di vista sistematico, la pronuncia ravennate si pone in dialettica con precedenti orientamenti della Corte di cassazione, tradizionalmente orientati a privilegiare la continuità produttiva. Nondimeno, la prospettiva che attribuisce rilevanza preminente all’opposizione in presenza di ramo leggero appare maggiormente coerente con il principio di gerarchia delle fonti e con l’esigenza di rendere effettiva (effet utile) la tutela dei diritti fondamentali del lavoratore, evitando un’applicazione meramente formalistica dell’art. 2112 c.c.
L’odierna riflessione evidenzia come l’automatismo successorio previsto dalla disciplina nazionale non possa essere applicato in maniera meccanica e avulsa dal contesto: la cessione di un’entità economica priva di beni strumentali esige un vaglio puntuale circa la reale autonomia funzionale e la volontà dei lavoratori. Ne discende l’opportunità per le imprese di adottare procedure trasparenti e partecipative, basate su un dialogo sociale effettivo che consenta di armonizzare l’interesse all’efficienza con la salvaguardia della dignità professionale. Solo una tale impostazione, orientata al ragionevole bilanciamento dei valori in gioco, potrà garantire la tenuta complessiva del sistema nell’attuale scenario di trasformazioni organizzative a forte connotazione immateriale.
2 luglio 2025