A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola
Nel contesto del contenzioso familiare contemporaneo, l’impiego delle prove digitali estratte da dispositivi elettronici personali, in particolare dai telefoni cellulari dei coniugi, ha assunto un ruolo di crescente centralità, divenendo strumento cardine per la dimostrazione di condotte suscettibili di determinare l’addebito della separazione. Tale fenomeno, espressione dell’evoluzione tecnologica e della sempre più pervasiva digitalizzazione delle relazioni interpersonali, solleva delicate questioni in merito alla legittimità dell’acquisizione e utilizzabilità in giudizio di tali elementi probatori, imponendo un’attenta valutazione del bilanciamento tra il diritto alla prova e la tutela della riservatezza personale, anche alla luce del principio di proporzionalità.
Una prima linea ermeneutica, avallata dalla sentenza n. 6432 del 30 marzo 2016 del Tribunale di Roma, ha riconosciuto la liceità dell’utilizzo processuale delle riproduzioni di messaggi rinvenuti in modo fortuito dal coniuge nel dispositivo dell’altro, lasciato incustodito in un ambiente comune dell’abitazione familiare. In tale fattispecie, la coabitazione e la condivisione di spazi e strumenti di uso quotidiano configurano una situazione in cui si determina, secondo il giudice di merito, un fisiologico affievolimento del diritto alla riservatezza, legittimando l’accesso occasionale a dati personali.
Tale orientamento ha trovato ulteriore consolidamento nella giurisprudenza della Corte di cassazione che, con ordinanza n. 13121 del 12 maggio 2023, ha affermato la legittimità dell’utilizzo, in chiave difensiva, di screenshot di conversazioni tramite applicazioni di messaggistica istantanea, tra cui WhatsApp, nel contesto di un procedimento di separazione personale. La Suprema Corte ha posto in risalto la prevalenza del diritto di difesa, sancito dall’articolo 24 della Costituzione della Repubblica Italiana, e ha altresì richiamato l’articolo 51 del Codice penale, che esclude la punibilità di chi eserciti un diritto riconosciuto dall’ordinamento. L’elaborazione giurisprudenziale evidenzia dunque una progressiva apertura verso l’ammissione delle prove digitali, purché ottenute nel rispetto delle garanzie fondamentali e in assenza di violazioni sostanziali della sfera privata.
Sul versante opposto, risulta di particolare rilievo l’indirizzo restrittivo tracciato dalla Cassazione penale nella sentenza n. 19421 del 23 maggio 2025, secondo cui l’accesso arbitrario al dispositivo informatico del coniuge, protetto da credenziali di sicurezza, configura una violazione dell’articolo 615-ter del Codice penale, che disciplina l’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico. Il dispositivo mobile, infatti, viene qualificato come sistema informatico a pieno titolo, e le misure di sicurezza, quali le password, rappresentano barriere giuridicamente rilevanti, la cui elusione comporta l’integrazione della fattispecie incriminatrice.
L’ordinanza n. 4530 del 20 febbraio 2025 ha ulteriormente chiarito che non può considerarsi lecita l’acquisizione di dati provenienti dal telefono del coniuge sulla base di dichiarazioni testimoniali de relato, le quali si limitano a riferire una presunta consuetudine di reciproca condivisione dell’accesso ai dispositivi. In difetto di prova diretta e certa della legittimità dell’acquisizione, l’utilizzo processuale delle conversazioni è da considerarsi inammissibile, pena la lesione del diritto alla riservatezza, costituzionalmente garantito.
In ambito penalistico, ulteriori sviluppi si rinvengono nella sentenza n. 7338 del 21 febbraio 2025 della Cassazione penale, la quale ha qualificato come prova documentale, idonea a essere prodotta in giudizio, la registrazione fonografica di colloqui tra presenti, effettuata unilateralmente da uno dei partecipanti. La registrazione, se riversata su supporto idoneo e presentata in modo da garantire il contraddittorio, non integra un’intercettazione ambientale e può pertanto essere validamente utilizzata, delineando un significativo strumento probatorio anche in ambito familiare.
A fondamento della valutazione di liceità nell’utilizzo di tali prove digitali, rilevano altresì le Regole deontologiche adottate dal Garante per la protezione dei dati personali nel 2018, che aggiornano il Codice di deontologia forense del 2008. Tali disposizioni, specificamente dedicate ai trattamenti di dati personali effettuati per finalità difensive o per l’esercizio di un diritto in sede giudiziaria, impongono al professionista l’adozione di un comportamento ispirato alla diligenza professionale qualificata, nel rispetto del principio di pertinenza, non eccedenza e proporzionalità, con lo scopo di tutelare l’integrità della sfera personale del soggetto controinteressato.
Alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale sopra delineata, appare evidente che l’impiego dei contenuti digitali estratti dal dispositivo dell’altro coniuge nei procedimenti di separazione richiede un’attenta ponderazione tra esigenze probatorie e salvaguardia dei diritti fondamentali, quali la riservatezza, l’inviolabilità del domicilio digitale e la libertà di comunicazione. L’accesso lecito ai dati può avvenire unicamente in presenza di circostanze fortuite o di un consenso esplicito, mentre la violazione di misure di sicurezza tecnica comporta conseguenze giuridiche rilevanti sotto il profilo penale, oltre a inficiare l’utilizzabilità della prova.
In conclusione, la giurisprudenza più recente conferma l’importanza di un approccio interpretativo coerente con i principi costituzionali e sovranazionali in materia di tutela dei diritti della persona, nonché con i canoni deontologici della professione forense. In tale prospettiva, si impone una rigorosa valutazione della legittimità della prova digitale, che non può prescindere dal rispetto delle garanzie procedimentali e dei limiti posti dall’ordinamento a presidio della dignità e dell’autonomia del soggetto coinvolto.
14 luglio 2025