
A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola
L’ordinanza n. 3162/2025 della Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, assume una valenza paradigmatica nell’ambito della riflessione giuridica concernente la legittimità del licenziamento disciplinare per giusta causa, con particolare riferimento all’interpretazione dell’art. 2119 del codice civile e alle previsioni del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) applicabile. L’analisi condotta dalla Suprema Corte si caratterizza per una rigorosa applicazione dei criteri ermeneutici propri della clausola generale della giusta causa, valorizzando la funzione dell’ordinamento collettivo e la coerenza con i principi giuslavoristici consolidati.
La vicenda giudiziaria si sviluppa a seguito dell’impugnazione di un licenziamento disciplinare irrogato per giusta causa, fondato su un episodio in cui la dipendente, in un contesto di dissenso rispetto a una direttiva impartita, aveva rivolto un’espressione oggettivamente ingiuriosa nei confronti del proprio superiore gerarchico, alla presenza di un’altra lavoratrice, manifestando contestualmente un rifiuto di adempiere alla disposizione ricevuta. La Corte d’Appello, sovvertendo le precedenti pronunce di merito, ha ritenuto tale condotta riconducibile alla fattispecie di grave insubordinazione delineata dall’art. 32, lett. v), del CCNL AIAS, escludendo altresì che le circostanze soggettive potessero elidere il disvalore della condotta.
La Corte di Cassazione, confermando la decisione della Corte territoriale, ha ribadito l’autonomia del giudizio di merito nella valutazione della lesione del vincolo fiduciario, purché sorretto da una motivazione congrua e immune da vizi logico-giuridici. In particolare, ha sottolineato come l’insulto rivolto al superiore, accompagnato dal rifiuto all’adempimento, si configuri quale condotta idonea a compromettere radicalmente la struttura fiduciaria del rapporto, integrando pertanto un’ipotesi di giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c.
Di rilievo è la precisazione della Corte in ordine al valore normativo delle clausole generali, che impone una loro specificazione alla luce dei principi costituzionali, della coscienza sociale e delle previsioni della contrattazione collettiva. L’attività di qualificazione giuridica della condotta rilevante, in quanto sussunzione sotto la fattispecie normativa, appartiene alla dimensione giuridica e, in quanto tale, è suscettibile di controllo in sede di legittimità solo laddove siano rinvenibili errori nella identificazione dei parametri normativi integrativi. Di contro, l’accertamento dei fatti storici e la loro valutazione concreta rimangono prerogativa esclusiva del giudice di merito.
In tale contesto, la Corte ha ritenuto irrilevante la dedotta insussistenza di una recidiva in senso tecnico, evidenziando come la menzione di un precedente disciplinare, pur risalente, non costituisse fondamento autonomo della decisione bensì un elemento utile a qualificare la personalità professionale della dipendente. La giurisprudenza, d’altronde, è costante nel riconoscere al giudice di merito la facoltà di considerare episodi pregressi, ancorché non rilevanti ai fini della recidiva in senso stretto, ove funzionali alla ricostruzione della condotta complessiva e dell’idoneità della stessa a incidere sulla tenuta del vincolo fiduciario.
Quanto alla censura relativa alla regolamentazione delle spese processuali, il Collegio ha osservato che la statuizione della Corte territoriale è perfettamente coerente con il principio di soccombenza sancito dall’art. 91 c.p.c., e non suscettibile di revisione in difetto di un radicale sovvertimento dell’esito del giudizio di merito, che nel caso di specie non sussiste.
La pronuncia in esame assume pertanto rilevanza sistematica, non solo per la conferma della centralità del vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro subordinato, ma anche per il rigore metodologico con cui vengono delimitati i confini del sindacato di legittimità in presenza di clausole generali. Essa si inserisce in un solco interpretativo che riafferma l’autonomia del giudizio di fatto e la non sindacabilità delle valutazioni del giudice di merito in assenza di vizi strutturali della motivazione o di erronea interpretazione delle norme giuridiche applicabili. In definitiva, si tratta di una decisione che valorizza la funzione regolativa della giurisprudenza di legittimità nell’ambito del diritto del lavoro, riaffermando con nettezza i principi di proporzionalità, correttezza e rispetto dell’ordine organizzativo aziendale come parametri fondamentali della legittimità del recesso datoriale per giusta causa.
25 luglio 2025
