Il repêchage e lo ius variandi: coordinate sistematiche e funzionali tra tutela del posto di lavoro e potere organizzativo datoriale

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’ordinanza della Corte di cassazione n. 19556 del 2025, nel confermare la legittimità di un licenziamento intimato a seguito del rifiuto del lavoratore di accettare mansioni inferiori con retribuzione decurtata, rappresenta un significativo sviluppo nella delineazione delle relazioni sistematiche tra l’obbligo di repêchage e l’istituto del mutamento di mansioni disciplinato dall’articolo 2103 del Codice civile. Essa consente una riflessione approfondita sul bilanciamento tra interesse datoriale all’efficientamento organizzativo e diritto del lavoratore alla conservazione dell’occupazione.

Si osserva, infatti, come la Suprema Corte ribadisca la piena autonomia concettuale e funzionale dell’obbligo di repêchage rispetto alla disciplina dello ius variandi. Mentre quest’ultimo costituisce espressione del potere unilaterale del datore di lavoro di modificare le mansioni del dipendente per esigenze organizzative sopravvenute, con rigorosa salvaguardia del livello retributivo e della categoria legale di appartenenza, il repêchage si colloca in una fase patologica e terminale del rapporto, ove assume una funzione tipicamente conservativa. In tale contesto, l’interesse primario tutelato dall’ordinamento è quello del lavoratore a evitare la perdita del posto, anche al costo di una dequalificazione professionale o di una penalizzazione economica.

La rilevanza sistemica del principio di repêchage si fonda su un dovere di diligenza professionale qualificata in capo al datore di lavoro, che deve attivarsi per verificare concretamente e oggettivamente la possibilità di reimpiego del dipendente in mansioni compatibili con la professionalità già acquisita. Non si tratta di un obbligo meramente formale o documentale, bensì di una ricerca effettiva, che presuppone un’analisi dell’organico aziendale e della struttura produttiva. Tuttavia, come chiarito dalla Corte, tale obbligo non si estende fino a comprendere la necessità di formare ex novo il lavoratore per adibirlo a mansioni non coerenti con il suo bagaglio professionale. Ciò che rileva è esclusivamente l’accessibilità immediata a compiti compatibili, indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica o dalla collocazione nell’inquadramento formale.

Di contro, l’esercizio dello ius variandi è condizionato dall’esistenza di modificazioni organizzative che giustifichino la nuova assegnazione e dalla permanenza del livello retributivo, cui si aggiunge l’obbligo formativo datoriale, quale garanzia di idoneità tecnica e professionale alle nuove mansioni. Il terzo comma dell’articolo 2103 c.c. attribuisce al datore il potere di assegnare il dipendente a mansioni inferiori nei soli casi in cui la riorganizzazione incida sulla posizione lavorativa, sempreché le nuove mansioni rientrino nella medesima categoria legale. In tale ipotesi, il mantenimento del trattamento economico è elemento indefettibile di legittimità, così come l’adempimento dell’obbligo di adeguata formazione.

Appare dunque evidente che i due istituti si muovano su assi normativi distinti e obbediscano a logiche differenziate: il repêchage è funzionale alla continuità del rapporto e costituisce strumento di tutela dell’occupazione, mentre lo ius variandi rappresenta una prerogativa datoriale che, seppur limitata, consente una gestione adattiva delle risorse umane in costanza del rapporto. In tale quadro, la distinzione tra i due strumenti non è meramente nominalistica, bensì assume rilievo sostanziale ai fini della determinazione dei confini della legittimità dell’azione datoriale.

L’elaborazione giurisprudenziale più recente, come quella contenuta nelle ordinanze n. 17036 e n. 10627 del 2024, consolidano l’orientamento secondo cui l’obbligo di repêchage non comprende alcun dovere di riconversione professionale, né impone al datore di lavoro un’attività proattiva volta alla creazione di nuove mansioni. La verifica si arresta al perimetro delle competenze già consolidate, escludendo soluzioni che implichino percorsi formativi specifici o investimenti formativi.

La corretta interpretazione dei due istituti impone una loro netta distinzione sul piano logico e giuridico: il repêchage, per la sua natura funzionalmente protettiva del lavoratore, si caratterizza come limite esterno alla legittimità del licenziamento; lo ius variandi, invece, esprime una facoltà di gestione imprenditoriale interna al rapporto, in quanto tale subordinata a requisiti strutturali più stringenti, con effetti sulle condizioni giuridiche ed economiche del dipendente. La lettura congiunta delle recenti pronunce della Corte rafforza questa dicotomia, offrendo un quadro sistematicamente coerente per la risoluzione delle controversie in materia di licenziamento e mobilità interna.

31 luglio 2025