Il licenziamento ritorsivo nel sistema delle garanzie lavoristiche: profili giuridici e oneri probatori

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La tematica del licenziamento ritorsivo, oggetto di recenti interventi della giurisprudenza di legittimità, assume rilevanza nodale nel quadro delle dinamiche conflittuali tra potere direttivo datoriale e diritti fondamentali del lavoratore. Essa si inserisce in un contesto sistemico in cui l’asimmetria contrattuale del rapporto di lavoro impone una rigorosa delimitazione dei margini entro cui il recesso può essere esercitato legittimamente, specialmente laddove siano in gioco condotte tutelate dall’ordinamento, quali la libertà di espressione, l’attività sindacale o la denuncia di illeciti aziendali (c.d. whistleblowing).

Sotto il profilo processuale, si osserva che la Corte di Cassazione ha riaffermato un principio di ordine sistematico secondo cui l’illegittimità del licenziamento per motivo ritorsivo non è suscettibile di rilievo officioso da parte del giudice. Tale assetto risponde all’esigenza di tutela del contraddittorio e alla configurazione dell’intento ritorsivo quale vizio genetico della volontà negoziale, non assimilabile ad una diversa qualificazione giuridica della medesima domanda. In questo quadro, si impone al lavoratore l’onere di allegare e provare, con rigore argomentativo e coerenza fattuale, la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta legittima esercitata e la decisione espulsiva, la quale deve risultare esclusivamente determinata da intenti ritorsivi.

Un’ulteriore precisazione interpretativa concerne la necessità di un previo scrutinio di infondatezza della causale originaria del licenziamento. La giurisprudenza ha infatti chiarito che solo una volta esclusa l’effettività della giusta causa o del giustificato motivo addotto dal datore di lavoro — anche alla luce della disciplina collettiva eventualmente applicabile — può aprirsi lo spazio per un accertamento in ordine all’eventuale carattere ritorsivo del recesso. Tale impostazione, fondata su un’analisi in chiave logico-temporale della sequenza degli addebiti e dei comportamenti precedenti, riflette una concezione formalmente garantista del processo del lavoro, dove la verifica della legittimità del recesso si articola su piani progressivi e interdipendenti.

Particolarmente significativa, sul piano dell’effettività della tutela, è l’applicazione dei principi derivanti dalla Direttiva (UE) 2019/1937, in materia di protezione dei whistleblower. Il legislatore unionale ha imposto agli Stati membri l’adozione di misure che garantiscano un ampio spettro di protezione nei confronti dei segnalanti, valorizzando la funzione sociale della denuncia di illeciti aziendali. In tale ottica, la giurisprudenza interna ha recepito l’esigenza di attribuire rilievo ad ogni forma di pregiudizio, diretto o indiretto, che colpisca il lavoratore in conseguenza della sua iniziativa di segnalazione. Il collegamento causale deve essere pieno, esclusivo, inequivoco: solo in presenza di un nesso diretto e univoco tra la denuncia e l’atto espulsivo è possibile configurare la ritorsione quale causa illecita di licenziamento.

Di particolare interesse è la fattispecie esaminata nell’ordinanza n. 15330 del 2025, ove si affronta la questione del licenziamento di un dirigente aziendale, intervenuto a seguito della sua attività di denuncia di inefficienze e resistenze al cambiamento organizzativo. Le accuse disciplinari mosse al dirigente si sono rivelate pretestuose e inconsistenti, tese esclusivamente a isolarlo e ad eliminarlo dalla struttura gerarchica dell’impresa. L’accertamento della strumentalità degli addebiti ha consentito ai giudici di ravvisare nella volontà ritorsiva l’unica causa reale del recesso, con conseguente declaratoria di nullità dello stesso.

A livello sistematico, tale pronuncia afferma un principio di rilevante portata applicativa: il motivo illecito assume rilievo invalidante solo se esclusivo e determinante nella formazione della volontà espulsiva. Non si richiede una comparazione fra motivazioni, ma una verifica dell’eventuale insussistenza di qualsiasi altra causa legittima. Tale interpretazione garantisce certezza applicativa, ma al contempo esige dal lavoratore un onere probatorio particolarmente elevato, fondato essenzialmente su presunzioni gravi, precise e concordanti, tra cui risalta la dimostrazione dell’inconsistenza dei motivi formalmente addotti.

In termini di conseguenze giuridiche, la nullità del licenziamento per motivo illecito comporta la reintegrazione nel posto di lavoro, anche nei confronti dei dirigenti, categoria normalmente sottratta alle tutele reintegratorie. La giurisprudenza ha ribadito che, in tali casi, il datore di lavoro è tenuto al risarcimento integrale del danno, al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali e al pagamento delle sanzioni civili per omissione contributiva. Tali effetti restitutori trovano fondamento nella natura radicalmente nulla dell’atto espulsivo, in quanto lesivo di principi inderogabili dell’ordinamento lavoristico.

La figura del licenziamento ritorsivo si configura quale patologia del potere unilaterale di recesso, espressiva di un uso distorto e strumentale dell’autonomia organizzativa datoriale. La sua disciplina, frutto di un’evoluzione giurisprudenziale rigorosa, risponde all’esigenza di presidiare le aree nevralgiche della libertà del lavoratore, impedendo che l’esercizio legittimo di diritti possa tradursi in un fattore di emarginazione o esclusione. Il diritto del lavoro, nella sua accezione più evoluta, si conferma così ordinamento speciale di garanzia, ove il controllo di proporzionalità e legittimità dell’atto di recesso rappresenta non solo una clausola di salvaguardia, ma un vero e proprio strumento di bilanciamento tra autorità e libertà contrattuale.

18 agosto 2025