A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola
L’ordinanza n. 24100 del 2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, si pone quale tassello giurisprudenziale di particolare rilievo nell’evoluzione interpretativa delle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo derivante da condotte extralavorative di rilievo penale. Il provvedimento, inquadrandosi nel solco di una consolidata elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, affronta con rigore sistematico la questione della compatibilità tra comportamento tenuto al di fuori del contesto professionale e la tenuta del vincolo fiduciario che sorregge il rapporto di lavoro subordinato.
La fattispecie sottoposta al vaglio della Corte trae origine dal licenziamento disciplinare irrogato ad un lavoratore con qualifica di operaio, condannato con sentenza penale irrevocabile alla pena detentiva di otto mesi per reiterate condotte di oltraggio alle forze dell’ordine e istigazione a delitti di resistenza e di violenza contro pubblici ufficiali, avvenute in un contesto connotato da forte tensione sociale e identitaria, quale quello delle tifoserie calcistiche. Le espressioni utilizzate, intrinsecamente lesive dell’onore e della reputazione di pubblici funzionari e caratterizzate da una marcata connotazione istigatoria, sono state ritenute dalla datrice di lavoro gravemente incompatibili con la prosecuzione del rapporto, anche in considerazione del ruolo operativo e dell’inserimento del lavoratore in un contesto di stretta collaborazione tra colleghi.
La Corte d’Appello di Catania ha confermato la legittimità della sanzione espulsiva, valorizzando non solo la gravità oggettiva delle condotte accertate in sede penale, ma anche la loro valenza disgregante sotto il profilo etico e fiduciario. In particolare, ha evidenziato la non occasionalità dei fatti, la loro reiterazione e l’effetto discreditante rispetto alla statura morale del lavoratore, ai sensi della previsione espulsiva contenuta nell’art. 10, lett. A, punto g), del contratto collettivo nazionale di lavoro di settore. La sentenza ha altresì chiarito che, sebbene il giudice non possa limitarsi ad una verifica di tipo meramente formale, deve comunque operare una valutazione sostanziale della condotta e della proporzionalità della sanzione, alla luce dei principi generali desumibili dagli articoli 2104, 2106 e 2119 del codice civile.
La Suprema Corte ha integralmente confermato tale impostazione, rigettando il ricorso del lavoratore in tutti i suoi articolati motivi. Con riferimento alla tempestività della contestazione disciplinare, ha riaffermato l’orientamento per cui il dies a quo decorre dal momento in cui il datore di lavoro viene a conoscenza, in modo circostanziato e ufficiale, della sentenza penale passata in giudicato, e non dalla mera conoscibilità astratta del fatto illecito. Tale principio, che contempera esigenze di correttezza procedurale e garanzie difensive, trova fondamento nei criteri di buona fede e lealtà contrattuale ex artt. 1175 e 1375 c.c., nonché nella giurisprudenza di legittimità che esclude l’obbligo per il datore di attivarsi con diligenza investigativa al di fuori dei canoni della ragionevolezza.
Sotto il profilo della proporzionalità, la Corte ha escluso la sussistenza di vizi logici o giuridici nel giudizio operato dai giudici di merito, ribadendo che l’apprezzamento della gravità della condotta e della sua incidenza sulla fiducia non è suscettibile di riesame in sede di legittimità, se non nei ristretti limiti della violazione del minimo costituzionale motivazionale. Il riferimento a possibili trattamenti più favorevoli riservati ad altri dipendenti in situazioni analoghe è stato ritenuto ininfluente, in assenza di identità fattuale delle condotte, con l’affermazione del principio secondo cui il datore di lavoro non è tenuto a motivare in chiave comparativa ogni provvedimento disciplinare adottato.
Particolarmente rilevante, nella costruzione argomentativa della Corte, è il riconoscimento della portata extracontrattuale delle obbligazioni fiduciariamente rilevanti. La condotta del lavoratore, ancorché estranea all’ambito strettamente lavorativo, è stata qualificata come idonea a compromettere il presupposto di affidabilità soggettiva richiesto per la regolare esecuzione della prestazione, nella misura in cui risulta espressione di un disvalore etico-sociale radicalmente incompatibile con l’assetto valoriale dell’ordinamento e con il corretto svolgimento della vita aziendale.
L’ordinanza n. 24100 del 2025, dunque, si pone quale autorevole conferma dell’orientamento secondo cui la dimensione morale del lavoratore rappresenta un elemento costitutivo dell’affidamento contrattuale, la cui compromissione, ancorché derivante da comportamenti extralavorativi, può giustificare il recesso datoriale per giustificato motivo soggettivo. Essa contribuisce a definire un perimetro chiaro di legittimità dell’azione disciplinare, ancorato ad una concezione sostanziale della fiducia e alla rilevanza sociale del comportamento del prestatore di lavoro al di là del luogo e del tempo della prestazione.
2 settembre 2025