A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola
La sentenza n. 24201 del 2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, si configura quale passaggio interpretativo di notevole spessore sistematico, destinato ad incidere profondamente sull’assetto applicativo delle garanzie riconosciute al lavoratore nell’ambito dei contratti di lavoro subordinato regolati dalla disciplina delle tutele crescenti, introdotta con il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23. Essa si inserisce nel quadro di una progressiva rielaborazione giurisprudenziale orientata alla piena effettività della tutela reintegratoria nei casi in cui il licenziamento risulti privo di una valida giustificazione fattuale.
La vicenda in esame trae origine dal recesso intimato da una società datrice di lavoro nei confronti di una dipendente inquadrata nella categoria dei quadri, in forza di un contratto contenente un patto di prova della durata di sei mesi. Il recesso era motivato dall’asserito mancato superamento del periodo di prova. Tuttavia, il patto risultava affetto da nullità genetica, poiché privo di qualsiasi descrizione, anche meramente sintetica, delle mansioni oggetto della valutazione, in violazione del requisito di specificità funzionale imposto dalla giurisprudenza consolidata. La genericità assoluta della clausola impediva, infatti, ogni verifica circa la congruenza tra le mansioni da svolgere e quelle effettivamente espletate, con conseguente radicale nullità dell’accordo accessorio.
In accoglimento del gravame proposto dalla lavoratrice, la Corte d’Appello di Venezia ha riconosciuto la nullità del patto di prova e, in applicazione della disciplina vigente ratione temporis, ha qualificato il recesso datoriale come licenziamento ingiustificato, disponendo la reintegrazione della dipendente e la corresponsione dell’indennità risarcitoria parametrata alla retribuzione mensile, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015.
La datrice di lavoro ha impugnato la decisione sostenendo l’inapplicabilità della tutela reintegratoria, in quanto non rientrante tra le ipotesi tassativamente previste dalla norma citata. In tale contesto, la Suprema Corte ha respinto il ricorso, aderendo ad un orientamento esegetico che valorizza l’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 128 del 2024, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui escludeva l’applicabilità della tutela reintegratoria nei casi di insussistenza del fatto materiale anche nei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
La pronuncia in commento segna dunque un deciso cambio di paradigma, fondato sulla necessità di superare l’antinomia tra le ipotesi di recesso soggettivamente e oggettivamente infondato. In particolare, si ribadisce che il licenziamento intimato per asserito mancato superamento di un patto di prova nullo configura un recesso privo di fondamento fattuale, dal momento che manca in radice il fatto materiale posto a fondamento della scelta datoriale. In virtù del principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 Cost., il trattamento sanzionatorio di tale ipotesi non può che essere assimilato a quello previsto per il licenziamento disciplinare viziato da insussistenza del fatto contestato.
Secondo l’ermeneusi accolta dalla Cassazione, la nullità del patto di prova determina la conversione automatica del rapporto in contratto a tempo indeterminato sin dall’origine, con effetto preclusivo dell’esercizio del potere di recesso ad nutum previsto dall’art. 2096 cod. civ. Ne deriva che l’interruzione del rapporto di lavoro debba essere assoggettata alla disciplina limitativa dei licenziamenti, essendo richiesta la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo oggettivo o soggettivo. Laddove tale giustificazione risulti insussistente, come nella specie, si impone l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata, con diritto del lavoratore alla riammissione in servizio ovvero, a seguito dell’opzione eventualmente esercitata, al pagamento della corrispondente indennità sostitutiva.
La rilevanza sistematica della decisione n. 24201 del 2025 risiede nella sua capacità di fungere da punto di raccordo tra la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità, armonizzando le tutele previste dal d.lgs. n. 23 del 2015 in un’ottica di coerenza assiologica e funzionale. Essa consolida l’indirizzo volto a ricondurre sotto l’egida della reintegrazione ogni ipotesi in cui emerga l’assenza del presupposto fattuale su cui si fonda il recesso, prescindendo dalla qualificazione formale del motivo addotto.
Si delinea una concezione sostanzialista delle tutele nel licenziamento illegittimo, ispirata al principio secondo cui l’insussistenza del fatto non può che essere sanzionata con il rimedio più incisivo previsto dall’ordinamento, pena la compromissione della funzione dissuasiva e compensativa della sanzione. La sentenza si configura, pertanto, come un’importante riaffermazione della centralità del fatto giustificativo nella struttura del potere di recesso datoriale e come un monito all’osservanza rigorosa dei presupposti di validità del patto di prova quale clausola derogatoria al regime generale della stabilità del rapporto di lavoro subordinato.
2 settembre 2025