A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola
La recente ordinanza della Corte di cassazione n. 22636 del 2025 costituisce un’importante occasione di riflessione in merito alla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per gli effetti economicamente pregiudizievoli derivanti da un illegittimo mutamento di mansioni, specificamente laddove tale variazione determini la cessazione di prassi lavorative consolidate, quali lo svolgimento del lavoro notturno, e la conseguente perdita delle relative maggiorazioni retributive. Il provvedimento si pone in linea con una più matura elaborazione giurisprudenziale volta a garantire una tutela pienamente effettiva della posizione soggettiva del lavoratore anche sotto il profilo del danno patrimoniale, configurabile quale danno emergente ai sensi dell’articolo 1223 del Codice civile.
La vicenda esaminata dalla Suprema Corte riguarda un lavoratore che, dopo un lungo periodo di impiego in turnazione notturna continuativa – attività accompagnata da sistematiche maggiorazioni retributive –, è stato adibito unilateralmente a mansioni su turni diurni. Tale modifica organizzativa è stata ritenuta dai giudici di merito lesiva dell’articolo 2103 del Codice civile, trattandosi di un demansionamento in senso proprio, ovvero di un’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle precedentemente svolte, senza il consenso del lavoratore e in assenza di alcuna legittimazione normativa o contrattuale. Nonostante l’accertata illegittimità del comportamento datoriale, la Corte territoriale aveva tuttavia escluso la risarcibilità della perdita economica collegata al venir meno dell’indennità notturna, ritenendola espressione di una modalità accessoria della prestazione lavorativa, modificabile a discrezione datoriale e non riconducibile a un diritto acquisito.
È proprio tale impostazione che la Corte di cassazione ha inteso radicalmente censurare, rilevando l’erroneità della sussunzione giuridica operata in secondo grado e riaffermando un principio sistematico di particolare rilievo: la tutela risarcitoria del lavoratore non può essere esclusa in base alla natura strutturale o accessoria della voce retributiva perduta, né può essere subordinata alla permanenza di condizioni oggettive di disagio, come quelle tipicamente connesse al lavoro notturno. Al contrario, ciò che risulta determinante è la sussistenza di un nesso causale diretto ed immediato tra la condotta illegittima del datore e la perdita economica concretamente patita dal prestatore d’opera, anche laddove si tratti di compensi accessori corrisposti con continuità per un prolungato periodo.
In tale prospettiva, l’indennità per il lavoro notturno, pur non costituendo un elemento indefettibile del trattamento economico complessivo, assume una rilevanza sostanziale quando sia divenuta parte integrante della prassi retributiva individuale, tale da rappresentare un’aspettativa economicamente rilevante e giuridicamente tutelabile, ancorché non formalizzata in un diritto quesito. È sulla base di questo principio che la Corte ha riconosciuto la configurabilità del danno patrimoniale quale perdita subita, in contrapposizione al mancato guadagno, precisando che, nel caso in esame, la cessazione delle maggiorazioni non era esito di una riorganizzazione lecita della prestazione, ma conseguenza diretta di un demansionamento accertato come illegittimo.
Sotto il profilo sistematico, la decisione si inserisce nel contesto evolutivo della giurisprudenza in materia di tutela della professionalità del lavoratore, il cui nucleo assiologico risiede nel diritto soggettivo a vedere riconosciuto il proprio apporto lavorativo in conformità al livello professionale raggiunto e secondo modalità retributive coerenti con la qualità e la quantità delle mansioni effettivamente svolte. Quando tale equilibrio viene compromesso per effetto di un’iniziativa datoriale unilaterale e illegittima, il risarcimento del danno non può che comprendere tutte le componenti economicamente rilevanti del pregiudizio subito, anche quelle relative a compensi accessori che abbiano assunto, nel concreto, una funzione retributiva stabile.
Appare altresì di rilievo l’indicazione metodologica fornita dalla Corte, secondo cui il giudice di merito è tenuto a svolgere un accertamento rigorosamente fattuale circa l’esistenza del pregiudizio, non potendosi fondare su presunzioni astratte o generiche circa la natura delle indennità soppresse. Si sottolinea così un’esigenza di personalizzazione e contestualizzazione dell’indagine giudiziale, che implica la verifica dell’effettiva incidenza economica del comportamento datoriale sul patrimonio del lavoratore, nel rispetto dei principi generali in tema di responsabilità civile.
La pronuncia in esame contribuisce a rafforzare un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato secondo cui il demansionamento non solo lede il diritto del lavoratore all’integrità professionale, ma può comportare conseguenze economicamente apprezzabili risarcibili a pieno titolo, in presenza di una comprovata riduzione del trattamento retributivo complessivo, anche se formalmente connessa a componenti accessorie della retribuzione. La tutela risarcitoria, dunque, si estende a ricomprendere anche tali voci, qualora la loro soppressione sia effetto immediato e diretto della condotta illecita datoriale, in coerenza con una lettura sistematica dell’articolo 1223 del Codice civile e con la ratio protezionistica che informa l’intero impianto del diritto del lavoro.
3 settembre 2025