A cura dell’Avv. Francesco Cervellino
L’ordinanza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, n. 24245 del 31 agosto 2025, si colloca in un ambito di particolare rilevanza teorico-pratica, poiché affronta il delicato tema dell’intreccio fra licenziamento individuale e tutela antidiscriminatoria connessa alle scelte riproduttive della lavoratrice. La decisione non si limita a risolvere una vicenda concreta, ma contribuisce a delineare in termini più netti i confini applicativi dell’art. 40 del D.Lgs. 198/2006 e dell’art. 2112 c.c., proiettandosi nell’alveo della più ampia evoluzione giurisprudenziale in materia di uguaglianza sostanziale e di garanzie contro i recessi ritorsivi o discriminatori.
La controversia trae origine dal licenziamento di una lavoratrice part-time, impiegata come segretaria presso uno studio professionale, in concomitanza con l’avanzamento di un percorso di fecondazione in vitro (FIVET), inserito nell’ambito della procreazione medicalmente assistita (PMA). La lavoratrice aveva dedotto la nullità del recesso in quanto discriminatorio, prospettando altresì la sua illegittimità per insussistenza del giustificato motivo oggettivo.
Dopo una prima decisione sfavorevole in sede di merito, la Corte d’Appello ha ritenuto sussistente un intento discriminatorio, valorizzando la concomitanza temporale fra il trattamento sanitario e il provvedimento espulsivo, nonché la non necessità giuridica del licenziamento alla luce della disciplina sul trasferimento di azienda. Il datore ha proposto ricorso per cassazione, fondato su molteplici motivi, ma la Suprema Corte ha dichiarato l’impugnazione inammissibile, confermando la nullità del recesso.
L’aspetto centrale della pronuncia attiene al riparto dell’onere probatorio disciplinato dall’art. 40 del Codice delle pari opportunità, disposizione che costituisce diretta attuazione della normativa eurounitaria (art. 19 Direttiva 2006/54/CE) e che si pone in stretta correlazione con l’art. 2697 c.c. La Corte ribadisce che non vi è un’inversione tout court dell’onere probatorio, bensì una attenuazione a favore del lavoratore.
Il ricorrente, infatti, non è tenuto a fornire la prova piena della discriminazione, ma soltanto ad allegare elementi fattuali, anche non gravi ma precisi e concordanti, idonei a fondare una presunzione di discriminazione. A fronte di ciò, incombe sul datore di lavoro la dimostrazione dell’inesistenza della condotta discriminatoria, secondo un modello di distribuzione dell’onere probatorio già delineato dalla giurisprudenza di legittimità (fra le altre, Cass. n. 14206/2013; Cass. n. 23338/2018; Cass. n. 3361/2023) e dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (sentenza 21 luglio 2011, causa C-104/10).
Nel caso di specie, il giudice di appello aveva valorizzato la rapida sequenza fra l’inizio della fase più delicata della procedura di fecondazione assistita e l’adozione del provvedimento espulsivo, unitamente alla sostanziale mancanza di necessità del licenziamento in presenza di un’operazione qualificabile come trasferimento d’azienda. La Suprema Corte ha ritenuto tale valutazione conforme ai principi consolidati in tema di onere probatorio, affermando l’insindacabilità dell’apprezzamento indiziario in sede di legittimità.
Particolarmente significativo appare il passaggio in cui la Corte valorizza la dimensione discriminatoria connessa alla scelta di sottoporsi a PMA. La tutela antidiscriminatoria, infatti, non si esaurisce nella parità formale, ma si estende alla garanzia sostanziale delle scelte personali e familiari del lavoratore. La protezione della libertà riproduttiva assume rilievo costituzionale, collocandosi all’incrocio fra l’art. 3 Cost. (uguaglianza sostanziale), l’art. 37 Cost. (tutela della maternità e del lavoro femminile) e l’art. 31 Cost. (protezione della famiglia).
La Corte ha colto la specificità del rischio di discriminazione legato non tanto allo “status” della lavoratrice, quanto alla concreta esposizione derivante dalla probabilità di successo della tecnica di fecondazione in vitro, più elevata rispetto a precedenti tentativi di inseminazione intrauterina (IUI). L’intento discriminatorio è stato dunque inferito non da un generico pregiudizio, ma da un dato oggettivo: la percezione datoriale di un rischio più elevato di maternità imminente.
La decisione si sofferma altresì sulla questione del trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c. La Corte d’Appello aveva ritenuto che l’operazione di esternalizzazione dei servizi ad una cooperativa integrasse una ipotesi di successione nel rapporto di lavoro, con conseguente automatica prosecuzione dello stesso e irrilevanza del licenziamento. La Cassazione ha confermato tale interpretazione, ritenendo che essa non costituisse un’eccezione nuova, bensì una mera difesa volta a contestare la validità della giustificazione addotta dal datore.
Ne discende che il licenziamento intimato in un simile contesto non solo risulta privo di giustificato motivo oggettivo, ma si configura altresì come atto nullo in quanto discriminatorio.
L’ordinanza in commento consolida un orientamento volto ad ampliare la sfera di tutela delle lavoratrici nei confronti dei recessi collegati a scelte riproduttive, riaffermando la centralità del principio di uguaglianza sostanziale e della dignità della persona nel rapporto di lavoro. L’accento posto sull’attenuazione dell’onere probatorio ex art. 40 D.Lgs. 198/2006 e sull’interpretazione funzionale dell’art. 2112 c.c. contribuisce a rafforzare l’effettività del divieto di discriminazione, rendendolo strumento operativo e non mera proclamazione di principio.
Appare evidente che la decisione della Suprema Corte ribadisce l’obbligo datoriale di esercitare una diligenza professionale qualificata, idonea a prevenire e neutralizzare condotte discriminatorie anche indirette, confermando l’evoluzione del diritto del lavoro verso una sempre più marcata attenzione alla dimensione esistenziale del lavoratore.
26 settembre 2025