La Cassazione sul licenziamento disciplinare per condotte extralavorative: l’equilibrio tra vincolo fiduciario, proporzionalità della sanzione e tutela del giusto processo

A cura dell’Avv. Francesca Coppola

L’ordinanza n. 24100 del 28 agosto 2025, pronunciata dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, offre l’opportunità di riflettere con rinnovata attenzione su alcuni snodi cruciali della disciplina del licenziamento disciplinare, in particolare sul rilievo delle condotte extralavorative penalmente rilevanti, sul giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato e sanzione espulsiva e sul principio di tempestività della contestazione.

La vicenda prende le mosse dal recesso intimato a un lavoratore a seguito di condanna penale definitiva per reiterate condotte offensive e violente nei confronti di pubblici ufficiali, maturate nel contesto delle tifoserie calcistiche. Nonostante tali fatti fossero del tutto estranei all’esecuzione della prestazione lavorativa, il datore di lavoro aveva ritenuto irrimediabilmente compromessa la possibilità di proseguire il rapporto, in quanto la condotta dell’interessato aveva inciso sulla sua figura morale, compromettendo quel legame fiduciario che costituisce il presupposto indefettibile di ogni rapporto di lavoro subordinato.

La Corte d’appello di Catania aveva già posto in luce la gravità oggettiva e soggettiva delle condotte, richiamando la reiterazione dei comportamenti, la loro natura di istigazione alla violenza e la particolare offensività nei confronti di istituzioni pubbliche. È stato così valorizzato il disvalore penale e sociale dei fatti, in quanto lesivi della dignità e del prestigio del corpo di polizia, nonché incompatibili con i doveri di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. e con l’obbligo di diligenza professionale qualificata imposto dall’art. 2104 c.c.

La Cassazione, investita della questione, ha confermato la legittimità del licenziamento, ribadendo due direttrici interpretative ormai consolidate. In primo luogo, il giudizio di proporzionalità tra la gravità dell’addebito e la sanzione espulsiva spetta al giudice di merito e non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei casi estremi di motivazione assente, contraddittoria o manifestamente illogica. Tale impostazione deriva dalla natura valutativa e discrezionale di tale giudizio, che implica l’apprezzamento del contesto concreto, della reiterazione delle condotte, dell’intensità dell’elemento soggettivo e della lesione del vincolo fiduciario. Si osserva, pertanto, come il sindacato della Cassazione si limiti a garantire il rispetto di un minimum costituzionale nella motivazione, senza invadere il terreno della ponderazione fattuale, tipicamente riservata al giudice di merito.

In secondo luogo, la Suprema Corte ha affrontato il tema della tempestività della contestazione disciplinare, chiarendo che il termine di riferimento decorre non dal momento in cui il datore potrebbe astrattamente venire a conoscenza del fatto, ma da quello in cui egli acquisisce certezza della condanna definitiva. Tale ricostruzione valorizza il principio della buona fede contrattuale e la necessità di evitare contestazioni premature, basate su elementi non ancora consolidati, che potrebbero arrecare pregiudizio ingiustificato al lavoratore. La ratio di tale orientamento è duplice: da un lato si tutela il datore di lavoro che attende l’esito definitivo del giudizio penale prima di assumere una decisione così grave e irreversibile come il licenziamento; dall’altro lato, si preserva il lavoratore da contestazioni avventate e prive di adeguato fondamento probatorio.

Quanto al profilo della parità di trattamento disciplinare, la Cassazione ha escluso l’esistenza di un principio generale che vincoli il datore ad uniformare le proprie decisioni rispetto a condotte analoghe poste in essere da altri dipendenti, salvo il caso di identità assoluta delle situazioni. Ne consegue che la diversità di trattamento non è di per sé indice di illegittimità, a meno che non emerga un vero e proprio intento discriminatorio o ritorsivo. In tal senso, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il licenziamento nullo per ritorsione richiede che il motivo illecito abbia carattere esclusivo e determinante, nel senso che la motivazione formalmente addotta risulti insussistente e l’unico vero fondamento del recesso sia rappresentato da una finalità punitiva o vendicativa. Nel caso esaminato, la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, riconosciuto tanto in primo grado quanto in appello, ha escluso in radice la configurabilità di un licenziamento ritorsivo.

Appare evidente, alla luce di tale pronuncia, che il tema centrale rimane quello del rapporto fiduciario quale elemento strutturale del contratto di lavoro. La perdita di fiducia si configura non soltanto in presenza di violazioni contrattuali dirette, ma anche quando la condotta del lavoratore, seppur estranea alla prestazione lavorativa, risulti incompatibile con i valori etici e morali che l’impresa ritiene imprescindibili per la corretta prosecuzione del rapporto. Si delinea, in tal senso, un’estensione del controllo giudiziale sulla moralità del lavoratore, la quale, pur non potendo essere ridotta a una clausola generale di conformità etica, viene concretamente declinata alla luce delle circostanze e della natura delle condotte, secondo un criterio di ragionevolezza e proporzionalità.

Questa ordinanza rafforza l’orientamento secondo cui il licenziamento disciplinare può fondarsi anche su fatti extralavorativi, laddove essi siano idonei a ledere la reputazione e l’affidabilità del lavoratore in misura tale da rendere insostenibile la prosecuzione del rapporto. L’elemento fiduciario, così, si conferma fulcro e criterio dirimente dell’intera disciplina, nella prospettiva di un equilibrio tra tutela del prestatore e legittima esigenza datoriale di affidarsi a collaboratori moralmente integri e professionalmente affidabili.

1 ottobre 2025