A cura dell’Avv. Francesco Cervellino
La recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione VI penale, n. 32937 del 7 ottobre 2025, si colloca all’interno di un consolidato orientamento giurisprudenziale che riconosce piena dignità probatoria alle dichiarazioni della persona offesa nei delitti contro l’incolumità individuale, e in particolare nel reato di cui all’art. 572 cod. pen. La pronuncia riveste rilievo sotto un duplice profilo: da un lato, per la conferma della sufficienza delle dichiarazioni della vittima, laddove dotate di coerenza logico-narrativa e supportate da riscontri esterni; dall’altro, per la valorizzazione della testimonianza resa da professionisti della salute mentale quale elemento oggettivante del vissuto soggettivo della vittima di violenza psicologica.
Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte concerneva una fattispecie di maltrattamenti in ambito familiare e lesioni personali aggravate, in cui l’imputato, secondo quanto accertato nei due gradi di merito, aveva instaurato un regime relazionale connotato da dominio, controllo e sistematiche prevaricazioni nei confronti della compagna convivente. La condotta, sviluppatasi nel corso di un protratto arco temporale, si era espressa prevalentemente mediante modalità psicologiche di soggiogamento, piuttosto che attraverso atti di violenza fisica, i quali risultavano invece sporadici e minoritari.
La difesa deduceva, tra gli altri motivi di ricorso, il vizio di motivazione con riferimento all’attendibilità della persona offesa, richiamando lo stato depressivo da cui quest’ultima era affetta, nonché l’assenza di adeguata valutazione critica delle testimonianze di terzi che avrebbero potuto escludere l’effettiva ricorrenza dei maltrattamenti. La Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha ritenuto che il giudizio di attendibilità espresso dalla Corte d’appello fosse sorretto da motivazione piena, non manifestamente illogica, e conforme all’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenza Bell’Arte, n. 41461/2012), secondo cui le dichiarazioni della persona offesa possono costituire unico fondamento per l’affermazione di responsabilità penale, purché sottoposte a vaglio di credibilità soggettiva e attendibilità oggettiva, condotto con maggiore rigore rispetto a quello ordinariamente riservato ai testimoni.
Di particolare rilievo risulta la considerazione del contributo reso dalla psicologa presso cui la vittima aveva intrapreso un percorso terapeutico. Tale testimonianza è stata ritenuta decisiva, in quanto corroborava le dichiarazioni della donna attraverso un’analisi professionale dell’ambiente oppressivo in cui la stessa era costretta a vivere, aggravato dalla necessità di ricorrere di nascosto all’aiuto specialistico a causa del controllo esercitato dall’imputato sui suoi orari e spostamenti. La deposizione ha delineato un quadro coerente di prevaricazione sistematica, suffragato altresì da una relazione psicosociale redatta congiuntamente da un’assistente sociale e da un’altra professionista, che evidenziava il vissuto di “schiacciamento” espresso dalla donna e i tratti di marcata prepotenza dell’uomo, connotati da un’impostazione relazionale maschilista.
Completavano il compendio probatorio le dichiarazioni di soggetti terzi – tra cui familiari e testimoni oculari – che confermavano la ricorrenza di episodi di violenza verbale, nonché referti sanitari idonei a documentare le conseguenze fisiche di almeno uno degli episodi. La Cassazione ha ritenuto che l’intreccio probatorio formatosi nei giudizi di merito consentisse di escludere qualsiasi vizio logico nella valutazione della responsabilità, respingendo altresì le doglianze relative all’asserita discontinuità delle condotte contestate. In particolare, è stata riaffermata la natura abituale del reato di maltrattamenti, il quale può essere integrato da comportamenti psicologicamente lesivi anche in assenza di contiguità cronologica, purché sintomatici di un atteggiamento sistematico di dominio e di soggezione.
Sotto il profilo soggettivo, la Corte ha precisato che il dolo del reato in esame si configura come generico, essendo sufficiente la volontà cosciente di porre in essere una condizione abituale di sopraffazione emotiva. Pertanto, anche in assenza di finalità specifiche o motivazioni ulteriori, la reiterazione di condotte lesive della dignità e dell’autonomia della vittima è idonea ad integrare l’elemento psicologico richiesto dalla norma incriminatrice.
La pronuncia in esame assume valenza paradigmatica per la capacità di enucleare i criteri interpretativi utili alla ricostruzione del reato di maltrattamenti psicologici, fenomeno spesso sommerso e difficile da documentare con strumenti tradizionali. La valorizzazione della testimonianza specialistica – purché connotata da rigore metodologico e coerenza narrativa – quale mezzo di riscontro delle dichiarazioni della persona offesa, apre nuove prospettive nella tutela effettiva delle vittime di violenza intrafamiliare. In tal senso, il pronunciamento si inserisce nel solco di un’evoluzione giurisprudenziale che riconosce dignità e valore processuale anche ai danni invisibili, ribadendo il principio per cui la giustizia penale è chiamata a farsi carico dell’interezza del vissuto lesivo, non solo delle sue manifestazioni esteriori.
14 ottobre 2025
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