La confisca del profitto nei confronti dell’ente beneficiario del reato tributario commesso da amministratori di fatto

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’elaborazione giurisprudenziale in materia di reati tributari e misure patrimoniali applicabili alle persone giuridiche ha progressivamente consolidato un orientamento volto a valorizzare il nesso funzionale tra la condotta illecita realizzata nella sfera dell’ente e il vantaggio patrimoniale da essa derivante. La sentenza n. 36683/2025 della Corte di cassazione offre un ulteriore chiarimento sistematico circa l’inconfigurabilità della posizione di terzo estraneo in capo alla società che abbia tratto un profitto, anche sotto forma di semplice risparmio di spesa, da operazioni fraudolente poste in essere dagli amministratori di fatto. Il caso oggetto della decisione riguarda il sequestro di somme giacenti sul conto corrente societario, riferibili al profitto del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 2 del decreto legislativo n. 74/2000, realizzato nell’interesse dell’ente da soggetti che esercitavano in via di fatto la gestione sociale.

Sin dalla ricostruzione fattuale emerge come il giudice dell’esecuzione avesse erroneamente valorizzato l’assoluzione dell’amministratrice di diritto quale elemento decisivo per ritenere la società estranea al reato. Tale impostazione si fondava sull’assunto che solo un rapporto di immedesimazione organica in senso tecnico potesse collegare la condotta degli autori materiali all’ente, escludendo quindi l’applicabilità della confisca diretta delle somme depositate sul conto societario. Secondo questa prospettiva, la mancanza di un legame strutturale tra gli amministratori di fatto e la persona giuridica avrebbe impedito di attribuire all’ente il profitto generato dall’evasione, giustificando la restituzione delle somme sequestrate.

La Corte di cassazione confuta in modo rigoroso tale impostazione, riaffermando un principio di ordine sistematico: la persona giuridica che abbia beneficiato dell’altrui condotta illecita non può essere qualificata quale terzo estraneo. L’estraneità presuppone infatti non soltanto la mancanza di un rapporto organico formale con gli autori del reato, ma anche l’assenza di qualsiasi vantaggio economico riconducibile all’illecito. Nel caso esaminato, il profitto — nella forma di risparmio di spesa derivante dall’indicazione di costi fittizi nelle dichiarazioni fiscali — affluiva direttamente al patrimonio dell’ente, sicché le somme rinvenute sul conto corrente societario erano per loro natura riconducibili all’illecito tributario.

La Corte sottolinea come la gestione di fatto esercitata dai soggetti responsabili delle condotte fraudolente si caratterizzasse per continuità, stabilità e pregnanza tali da renderli, sostanzialmente, amministratori di fatto dell’ente. Anche in assenza di un’investitura formale, tale rapporto gestorio è ritenuto idoneo a integrare quel requisito funzionale che consente di imputare all’ente il vantaggio economico prodotto dal reato. In questa prospettiva, il richiamo alla teoria dell’immedesimazione organica assume connotati sostanziali e non meramente formali: ciò che rileva non è il titolo giuridico della funzione esercitata, ma la concreta riconducibilità dell’attività gestoria all’interesse e alla sfera operativa dell’ente.

La confisca diretta del profitto trova così pieno fondamento nell’art. 12-bis del decreto legislativo n. 74/2000, che consente l’ablazione delle somme costituenti il vantaggio economico del reato laddove queste siano rinvenute nel patrimonio dell’ente beneficiario. In quanto misura obbligatoria, la confisca non può essere esclusa sulla base di una presunta estraneità della società quando, come nel caso di specie, l’ente ha tratto un’utilità patrimoniale dalle condotte poste in essere nel suo interesse. La Cassazione precisa che non si tratta di attribuire responsabilità penale alla società, ma di impedire che il profitto del reato permanga nella sua disponibilità, in conformità alle finalità di prevenzione e neutralizzazione degli effetti economici dell’illecito.

La decisione in commento esclude invece di poter prendere in considerazione la prospettiva della confisca per equivalente, richiamata solo nell’atto integrativo del ricorrente. Tale questione resta estranea al thema decidendum, poiché il ricorso originario verteva esclusivamente sull’erronea esclusione della confisca diretta. Rimane comunque evidente come l’applicazione di tale misura presupponga un diverso accertamento, volto a verificare la natura fittizia dell’ente, controllo che non era stato effettuato nel procedimento in esame.

La pronuncia offre dunque un contributo rilevante nell’interpretazione delle norme sulla confisca nei reati tributari, chiarendo che l’ente non può beneficiare dei profitti illeciti senza subirne le conseguenze ablative. Ne discende una forte riaffermazione della funzione preventiva della confisca, la quale opera come strumento volto non solo a privare i responsabili del vantaggio economico derivante dall’illecito, ma soprattutto a impedire che la persona giuridica possa avvantaggiarsi di pratiche gestorie distorte, anche se compiute da soggetti formalmente privi di qualifica. In prospettiva sistematica, la decisione rafforza la coerenza tra il regime della confisca tributaria e il principio secondo cui il beneficio economico dell’illecito rappresenta un elemento dirimente per escludere la posizione di terzietà dell’ente.

14 novembre 2025

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