
A cura dell’Avv. Francesco Cervellino
La più recente giurisprudenza di legittimità offre una significativa occasione per riflettere sui criteri di imputazione soggettiva nei reati di bancarotta fraudolenta, con particolare riferimento alla delicata distinzione tra socio e amministratore di fatto. L’analisi trae origine da un caso nel quale il socio di una società a responsabilità limitata dichiarata insolvente era stato condannato quale amministratore di fatto, con conseguente addebito di condotte distrattive e irregolarità documentali. La Corte di cassazione ha annullato tale decisione, riaffermando i principi applicabili e censurando l’approccio che confonde il ruolo partecipativo del socio con l’effettivo esercizio di poteri gestori. L’occasione consente di esaminare la ratio dell’art. 2639 cod. civ., che costituisce il fulcro della qualificazione dell’amministratore di fatto, e di valutarne l’incidenza nella struttura della responsabilità penal-fallimentare.
L’inquadramento normativo richiede di partire dalla funzione dell’art. 2639 cod. civ., il quale estende la disciplina penalistica prevista per gli amministratori a coloro che, pur privi di formale investitura, esercitano in modo continuativo e significativo i poteri tipici della funzione gestoria. Tale norma risponde all’esigenza di evitare che l’organizzazione societaria, con la sua strutturale autonomia tra proprietà e gestione, possa essere manipolata attraverso schermi formali idonei a sottrarre responsabilità a chi, in concreto, dirige l’impresa. L’amministratore di fatto, pertanto, non coincide con chi occasionalmente partecipa a decisioni aziendali né con il socio che esprime un interesse fisiologico alla vita della società, ma si identifica in colui che orienta stabilmente le scelte operative, incidendo sulla conduzione dell’impresa in modo non episodico.
Alla luce di tali principi, la Corte ha ritenuto non corretto inferire la qualità gestoria dal mero coinvolgimento del socio in specifiche operazioni, quali la presenza alla stipula di un contratto di affitto di ramo d’azienda o la frequentazione della sede sociale. È stato osservato che tale approccio costituisce un salto logico, poiché confonde la naturale attenzione del socio alle dinamiche societarie con l’effettivo esercizio di poteri direttivi. Ai fini della bancarotta fraudolenta, infatti, la continuità e la significatività della gestione rappresentano requisiti indefettibili: occorre dimostrare un ruolo operativo sistematico, lo svolgimento di attività tipiche della funzione amministrativa e la capacità di incidere sulle scelte strategiche o finanziarie dell’impresa. L’analisi della Corte sottolinea come non rilevi l’interesse personale alla gestione né la mera interazione con l’organo amministrativo, ma il concreto esercizio di poteri decisionali.
In questa prospettiva, risulta determinante distinguere tra interventi compatibili con la posizione di socio e condotte che, invece, integrano una proiezione effettiva nella sfera gestoria. La giurisprudenza ha più volte chiarito che l’amministratore di fatto deve porsi in un rapporto di sostanziale sovrapposizione con l’amministratore di diritto, assumendone le funzioni e influenzando l’andamento aziendale. Non è sufficiente un ruolo di consulenza, né la mera presenza in momenti rilevanti della vita societaria. La continuità e la significatività dell’attività gestoria costituiscono gli indici qualificanti, la cui prova deve essere puntuale e non desumibile da circostanze secondarie.
Le ricadute sul piano della responsabilità penal-fallimentare sono evidenti. Laddove l’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto sia erronea o priva di adeguato fondamento probatorio, viene meno il presupposto soggettivo che collega l’agente alle condotte distrattive o alle irregolarità documentali. Ciò comporta la necessità di rivalutare l’intera ricostruzione dell’illecito, soprattutto nei casi in cui le operazioni contestate, come pagamenti o movimentazioni finanziarie, possano trovare una giustificazione economica coerente con l’interesse della società. La Corte ha rimarcato che l’esistenza di un contratto, pur problematico nella sua esecuzione, non può automaticamente essere qualificata come operazione distrattiva, imponendosi un accertamento causale e funzionale più rigoroso.
Sul versante processuale, la vicenda oggetto della pronuncia evidenzia ulteriori profili di rilievo, in particolare con riferimento alle modalità di notificazione del rinvio d’udienza nei confronti dell’imputato privo di difensore di fiducia. La Corte ha evidenziato come, anche in situazioni emergenziali, non possa essere sacrificato il diritto di difesa attraverso comunicazioni limitate al difensore d’ufficio, poiché tale assetto non assicura il necessario collegamento fiduciario. La nullità rilevata in sede di legittimità rende manifesto il ruolo centrale delle garanzie procedurali nella struttura del processo penale, soprattutto quando la contestazione coinvolge reati che incidono sull’onorabilità e sulla capacità economica dell’imputato.
Nel complesso, l’intervento della Corte rafforza un principio essenziale: la qualificazione di amministratore di fatto non può essere fondata su presunzioni legate allo status di socio o alla partecipazione episodica alla vita d’impresa, ma richiede una verifica sostanziale e rigorosa dell’attività svolta. Tale criterio, oltre a tutelare la funzione gestoria formale, assicura che la responsabilità penal-fallimentare rimanga ancorata a condotte effettivamente riconducibili al soggetto e non alla sola compagine sociale. La prospettiva che si apre invita a riconsiderare, con rinnovata attenzione, il ruolo della prova e la distinzione concettuale tra partecipazione societaria e gestione imprenditoriale, in vista di un assetto più coerente con le esigenze di tutela del patrimonio sociale e di garanzia dei diritti individuali.
17 novembre 2025
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