Il licenziamento per fine cantiere alla prova della Cassazione: obbligo di repêchage, diligenza professionale qualificata e persistenza del rito Fornero nella fase transitoria post-Cartabia.

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

Si osserva, in premessa, che la sentenza della Corte suprema di cassazione – Sezione lavoro – 23 giugno 2025, n. 16680, decide un ricorso avverso la pronuncia n. 566/2024 della Corte d’appello di Milano, rigettando le censure promosse dal lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo (di seguito «GMO») a seguito della conclusione dell’attività nel cantiere «Sciaresina» cui egli era stabilmente adibito. La pronuncia, che conferma l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la mera ultimazione delle opere non può di per sé integrare un GMO, assume portata paradigmatica giacché ribadisce, con argomentazione analitica, i confini dell’obbligo di repêchage – vale a dire il dovere datoriale di ricollocare il dipendente in mansioni compatibili prima di procedere al recesso – e, contestualmente, delinea l’ambito di ultrattività del c.d. rito Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92) nella vigenza del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (riforma «Cartabia»).

Appare evidente, in primo luogo, che la Suprema Corte, facendo propria la ricostruzione fattuale compiuta dai giudici di merito, riafferma il principio – già scolpito in Cass. nn. 22417/2009 e 1008/2003 – secondo cui l’ultimazione dei lavori edili non esonera il datore dall’onere di dimostrare, con diligenza professionale qualificata ex art. 1176, comma 2, cod. civ., l’oggettiva impossibilità di utilizzare il dipendente in posizioni equivalenti o, comunque, fungibili all’interno dell’organizzazione. In particolare, la sentenza valorizza la ratio decidendi della Corte territoriale, che ha accertato – mediante istruttoria testimoniale e documentale – la totale assenza di cantieri attivi o programmati e la mancata aggiudicazione di ulteriori gare d’appalto, oltre alla non prevedibilità, all’epoca del recesso (6 dicembre 2018), dell’unica commessa successivamente ottenuta e accompagnata da un’offerta di riassunzione rifiutata dal lavoratore.

Sul piano dogmatico, la motivazione sviluppa un percorso argomentativo che innesta l’obbligo di repêchage nella più ampia clausola generale di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.), collocandolo quale momento applicativo del principio di proporzionalità fra sacrificio imposto al lavoratore e interesse datoriale all’efficientamento organizzativo. La Corte qualifica, in tal modo, il repêchage come vera e propria «istruttoria endo-aziendale» da condursi con perizia tecnica e tracciabilità documentale, al fine di allocare correttamente il rischio economico dell’impresa e di scongiurare condotte di licenziamento meramente elusive delle tutele occupazionali. Ne emerge un rafforzamento dell’onere probatorio a carico del datore, che deve dare conto sia dell’impossibilità attuale di ricollocazione, sia dell’imprevedibilità – secondo l’id quod plerumque accidit nel settore di riferimento – di future commesse idonee ad assorbire il personale esuberante.

Di particolare rilievo è, inoltre, il passaggio con cui la Suprema Corte respinge la censura di «mutamento di motivo» ex art. 2, legge 15 luglio 1966, n. 604, osservando che l’allegazione difensiva relativa alla cessazione dell’intera attività edile costituisce mera esplicitazione – e non modificazione – della causale originariamente comunicata («fine lavori nel cantiere»). Con ciò il Collegio consolida un orientamento volto a contemperare il divieto di immutatio libelli con il diritto di difesa, ammettendo integrazioni che, senza alterare il nucleo essenziale del motivo espulsivo, illustrino in modo più articolato il contesto fattuale oggetto di contestazione.

In chiave processuale, la decisione chiarisce il perimetro di applicazione temporale del rito Fornero a seguito dell’abrogazione disposta dall’art. 37, lett. e), d.lgs. n. 149/2022. Richiamando espressamente l’art. 35, comma 1, del medesimo decreto e la propria precedente Cass. n. 11344/2025, i giudici di legittimità affermano che i procedimenti pendenti al 28 febbraio 2023 proseguono secondo le norme originarie, indipendentemente dalla fase processuale in cui si trovano. Tal principio, oltre a offrire certezza esegetica agli operatori del diritto, si pone in linea con l’esigenza di evitare soluzioni «a macchia di leopardo» che penalizzerebbero l’effettività della tutela e la ragionevole durata del processo, specialmente nei giudizi in cui è in gioco il diritto al lavoro, di matrice costituzionale (artt. 4 e 35 Cost.).

Sul fronte sistematico la sentenza si presta a un duplice ordine di riflessioni. Da un lato, essa conferma il progressivo avvicinamento dell’ordinamento italiano ai modelli comparatistici che presidiano la fase di licenziamento economico attraverso obblighi di ricollocazione preventiva: basti pensare all’«obligation de reclassement» francese (art. L. 1233-4 Code du travail) o al «Weiterbeschäftigungsanspruch» tedesco (§ 1 Kündigungsschutzgesetz), accomunati dall’imposizione di un duty of reasonable accommodation preventivo rispetto alla cessazione del rapporto. Dall’altro lato, la pronuncia si inserisce nel più ampio dibattito – animato da dottrina e giurisprudenza unionale – circa la funzione di riequilibrio del potere datoriale esercitata dal principio di buona fede, principio che, pur non essendo codificato in modo espresso nei Trattati UE, permea l’intera architettura degli strumenti di tutela antidiscriminatoria e anticoli (direttiva 2000/78/CE, direttiva 2019/1152/UE).

A ciò si aggiunge il profilo, soltanto accennato dalla Corte, ma di crescente attualità nella prassi, relativo all’impatto della digitalizzazione dei cantieri e delle piattaforme di project-management nella programmazione occupazionale: la tracciabilità dei flussi di lavoro, infatti, consente di prevedere ex ante l’esubero di personale e, di riflesso, impone al datore un’anticipazione dell’indagine di repêchage idonea a includere opportunità di up-skilling e re-skilling professionale, in coerenza con il principio di adeguatezza delle misure di prevenzione del licenziamento.

La decisione in commento affronta, altresì, il tema del doppio contributo unificato, sancendo l’obbligo del lavoratore soccombente di versare, oltre alle spese di lite, un ulteriore importo pari a quello dovuto per il ricorso, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. Tale statuizione, da un lato, opera quale deterrente contro iniziative giudiziarie infondate; dall’altro, richiama l’avvocatura a un’attenta valutazione prognostica della fondatezza dell’azione, affinché l’interesse sostanziale del lavoratore non venga vanificato da oneri accessori insostenibili.

L’arresto n. 16680/2025 costituisce un imprescindibile punto di riferimento sia per il legislatore, impegnato nel costante bilanciamento tra flessibilità organizzativa e stabilità dell’impiego, sia per la prassi professionale: da un lato, esso impone agli operatori economici di predisporre procedure interne ispirate a criteri di trasparenza, documentabilità e diligenza professionale qualificata nel vaglio delle alternative al licenziamento; dall’altro, offre alla comunità scientifica una piattaforma di riflessione sulla dimensione assiologica del repêchage quale clausola generale idonea a permeare l’intera disciplina dei licenziamenti individuali economici. Appare, pertanto, auspicabile che la giurisprudenza prosegua nel compito di affinare i parametri di valutazione dell’obbligo di ricollocazione, tenendo conto – anche in logica di diritto antidiscriminatorio – dei divari di genere e di età che caratterizzano il mercato del lavoro dell’edilizia.

25 giugno 2025