
A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola
Si osserva che l’articolo 19 della legge 203/2024, inserito nel c.d. «Collegato lavoro», ha introdotto una forma tipizzata di risoluzione del rapporto subordinato fondata sulla protratta assenza ingiustificata del prestatore, presupposto che il legislatore eleva a manifestazione tacita di volontà risolutoria. La norma definisce una soglia minima pari a quindici giorni di assenza, salva la facoltà delle parti collettive di individuare un termine maggiore; si tratta di un meccanismo che, pur rinviando in parte al Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL), introduce una cornice legislativa uniforme, finora assente, per un istituto che la prassi giudiziaria aveva conosciuto in via pretoria.
Appare evidente che la ratio legis risieda nell’esigenza di assicurare certezza all’organizzazione imprenditoriale, evitando che l’abbandono sine die del posto di lavoro si traduca in una forma di sospensione indeterminata, in aperto contrasto con i principi di buona fede e di diligenza professionale qualificata che permeano l’esecuzione del contratto. La disciplina configura una vera e propria ipotesi di manifestazione tacita di volontà negoziale, per quanto presunta, e pone il lavoratore nella condizione di incidere sul proprio status giuridico mediante un comportamento omissivo. Tale qualificazione distingue nettamente le dimissioni di fatto dal licenziamento disciplinare, che permane quale esercizio unilaterale del potere datoriale con necessità di contestazione dell’addebito e rispetto delle garanzie procedimentali di cui all’articolo 7 della legge 300/1970.
La privazione dell’indennità di disoccupazione Naspi, prevista in modo espresso dal nuovo comma 4, solleva questioni di compatibilità costituzionale sotto il profilo dell’adeguatezza della tutela sociale, soprattutto nei casi in cui l’assenza sia riconducibile a circostanze estranee alla sfera volitiva del dipendente. In dottrina si è già osservato che la disposizione potrebbe integrare un’ipotesi di presunzione assoluta di colpevolezza, suscettibile di scrutinio alla luce degli articoli 3 e 38 della Costituzione, nonché dei principi di proporzionalità e ragionevolezza elaborati dalla Corte costituzionale.
Sul piano ermeneutico, la circolare del Ministero del Lavoro n. 6/2025 chiarisce che il dies a quo per il computo dell’assenza coincide con la prima giornata di mancata prestazione non giustificata e prescrive al datore di lavoro l’onere di un invito formale al rientro, anche mediante posta elettronica certificata, trascorso un terzo del termine previsto dal CCNL. Benché la circolare non abbia forza di legge, essa si inserisce nella consuetudine di soft law amministrativa orientativa e assume rilievo interpretativo nel contenzioso giudiziario.
Le prime pronunce di merito evidenziano un approccio differenziato. Il Tribunale di Trento, con ordinanza del 14 febbraio 2025, ha negato la configurabilità delle dimissioni di fatto in presenza di un’assenza inferiore alla soglia legale, richiamando il principio di tipicità delle cause di cessazione e sottolineando che la volontà tacita non può essere desunta da condotte ambigue o di durata limitata. Diversamente, il Tribunale di Milano, con sentenza depositata il 22 aprile 2025, ha ritenuto che il superamento del termine di venti giorni fissato dal CCNL possa integrare la fattispecie, purché il datore di lavoro dimostri l’assenza di qualsiasi forma di interlocuzione con il dipendente e l’inequivocità del disinteresse di quest’ultimo alla prosecuzione del rapporto.
In prospettiva comparatistica, l’istituto trova analogie con la job abandonment di sistemi anglosassoni, sebbene l’ordinamento italiano si distingua per la maggiore protezione accordata al prestatore mediante la fissazione di soglie temporali minime e l’esclusione di automatismi tali da eludere il controllo giurisdizionale. Lo stesso ricorso alla locuzione job abandonment – qui resa in corsivo per coerenza con le indicazioni redazionali – evidenzia l’influenza di modelli stranieri sulla recente riforma, pur nel rispetto delle peculiarità del sistema gerarchico italiano.
Dall’angolo visuale dell’autonomia collettiva, la legittimazione a modulare il termine minimo di assenza costituisce un banco di prova per la contrattazione di settore, chiamata a bilanciare l’esigenza di flessibilità imprenditoriale con la salvaguardia del lavoratore. Qualora i CCNL optassero per limiti temporali eccessivamente esigui, si profilerebbe la possibile invalidità delle relative clausole per violazione del principio di contrarietà a norme imperative o di abusività, alla luce dell’articolo 1418 del Codice civile.
Una complessa questione attiene, poi, alla prova della volontà risolutoria: la presunzione legale può essere vinta mediante ogni mezzo, compresi certificati medici tardivi o comunicazioni in cui il lavoratore giustifichi l’assenza per cause di forza maggiore. In tale contesto, la giurisprudenza ha valorizzato lo strumento dell’interlocuzione preventiva, ritenendo che l’omessa risposta del dipendente all’invito di rientro rafforzi il quadro indiziario. Resta, tuttavia, necessario un accertamento caso per caso, al fine di evitare che la presunzione si trasformi in meccanismo ablativo di garanzie procedimentali.
Particolarmente delicato è l’impatto sul calcolo dell’anzianità di servizio, giacché la cessazione ex lege produce effetti retroattivi solo al termine del periodo di assenza individuato dalla norma o dal CCNL. Ne discende che eventuali emolumenti maturati sino a tale momento restano dovuti, con conseguente obbligo datoriale di liquidazione delle competenze pregresse e del T.F.R. (Trattamento di Fine Rapporto) nei termini ordinari. La questione si intreccia con il potere di trattenuta ex articolo 2751-bis n. 1 del Codice civile, nella misura in cui il datore intenda compensare eventuali danni derivanti dall’abbandono, tema che la giurisprudenza affronta ricorrendo ai canoni di proporzionalità e di specificità del pregiudizio.
In ottica sistematica, la novella si colloca in un più ampio trend di razionalizzazione delle cause di cessazione, volto a ridurre il contenzioso e a responsabilizzare le parti. Non sfugge, peraltro, che la configurazione di un recesso tacito possa innescare conflitti di qualificazione con gli istituti dell’assenza ingiustificata e del licenziamento per giusta causa, i cui confini rischiano di sovrapporsi se la soglia temporale non è calibrata con attenzione. Sotto tale profilo, appare auspicabile un intervento della Corte di cassazione che, con funzione nomofilattica, tracci criteri uniformi utili a circoscrivere il margine applicativo dell’articolo 19.
Da ultimo, va segnalato il possibile impatto sul mercato del lavoro delle fasce deboli, in particolare dei riders e dei lavoratori cd. platform based, nei cui confronti il potere di recesso tacito del datore potrebbe risultare particolarmente penetrante, in ragione della frammentazione della prestazione e della ridotta rappresentanza sindacale. Una lettura costituzionalmente orientata impone dunque di verificare se la soglia minima di quindici giorni sia effettivamente idonea a garantire l’equilibrio tra la posizione del prestatore e quella dell’imprenditore, specie in contesti caratterizzati da accentuata volatilità.
In conclusione, la disciplina delle dimissioni per fatti concludenti rappresenta un tassello significativo del mosaico di riforme dirette a semplificare i rapporti di lavoro, ma al contempo introduce tensioni interpretative che richiedono un perimetro applicativo rigoroso. Sarà compito della contrattazione collettiva affinare i tempi di rilevanza dell’assenza e della giurisprudenza individuare indici sintomatici idonei a corroborare la presunzione di volontà risolutoria, in un’ottica di equilibrio tra certezza dei traffici giuridici e tutela della parte debole del rapporto, senza trascurare il principio di solidarietà sociale che permea l’intero sistema della sicurezza sociale italiana.
26 giugno 2025
