
A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e dell’Avv. Francesca Coppola
Nel panorama giuslavoristico italiano, il patto di prova rappresenta un istituto di rilevante interesse teorico e pratico, posto al crocevia tra libertà negoziale e tutela del contraente debole. La sua causa giuridica si concreta nella possibilità, riconosciuta a entrambe le parti del rapporto di lavoro, di verificare ex ante la reciproca convenienza dell’instaurazione di un vincolo continuativo. Tale funzione sperimentale, per assumere validità sul piano formale e sostanziale, presuppone la determinazione inequivoca dell’ambito oggettivo dell’esperimento, ossia delle mansioni specifiche che il lavoratore è chiamato a svolgere durante il periodo di prova.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 15326 del 9 giugno 2025, ha offerto un’ulteriore e significativa precisazione circa i presupposti di validità del patto, rigettando il ricorso di una lavoratrice che lamentava l’indeterminatezza delle mansioni indicate nel contratto individuale, ritenute non conformi al profilo previsto dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) delle cooperative sociali. La Suprema Corte ha ribadito che la clausola di prova è legittima qualora contenga una specifica indicazione delle mansioni, anche mediante richiamo per relationem alle declaratorie del contratto collettivo, purché tale richiamo sia sufficientemente dettagliato da consentire la precisa identificazione del profilo professionale. Si esige, dunque, un riferimento puntuale non alla sola categoria o livello, bensì al profilo concreto, poiché soltanto così può essere soddisfatta l’esigenza di certezza che permea l’istituto in esame.
Tale orientamento si inscrive nella più ampia cornice interpretativa fondata sull’art. 2096 del Codice civile, norma cardine del regime del patto di prova, la quale impone la forma scritta ad substantiam. Ne consegue che la carenza di forma sin dall’inizio del rapporto determina la nullità radicale della clausola, non emendabile né mediante equipollenti né attraverso successiva sottoscrizione tardiva, come ribadito nell’ordinanza n. 8849 del 3 aprile 2025. In tale prospettiva, la forma scritta si configura non solo quale presidio di certezza ma anche quale strumento di garanzia della libertà e consapevolezza del consenso manifestato dalle parti.
Una dimensione ulteriore del dibattito concerne il contenuto della clausola di prova: secondo quanto affermato nella sentenza n. 5264 del 20 febbraio 2023, la mera indicazione del titolo professionale o della qualifica – ad esempio, “meat buyer” – si rivela insufficiente, ove non accompagnata dalla specificazione delle relative mansioni operative. In difetto, si compromette la possibilità per il giudice di esercitare un controllo, ancorché limitato, sull’esercizio del potere di recesso da parte del datore di lavoro durante la prova, il quale deve fondarsi su compiti predeterminati e non elusivamente generici.
È altresì pacifico in giurisprudenza che l’assegnazione a mansioni differenti da quelle previste nel patto non determina la nullità automatica della clausola, bensì integra un vizio funzionale, legittimando il lavoratore a esigere l’adempimento dell’esperimento pattuito o, alternativamente, a chiedere il risarcimento del danno. Lo ha statuito la Corte d’Appello di Messina nella sentenza n. 591 del 26 febbraio 2025, elaborando un modello di responsabilità contrattuale fondato sulla violazione del sinallagma funzionale proprio della clausola.
Un ulteriore elemento interpretativo emerge dalla pronuncia del Tribunale di Arezzo (sentenza n. 445 del 9 ottobre 2024), la quale ha escluso l’illegittimità del recesso anticipato entro un periodo di prova inferiore a quello previsto dal contratto, purché siano state effettivamente assegnate al lavoratore le mansioni che consentono di valutarne le competenze, valorizzando così il criterio della “ragionevolezza e sufficienza” del tempo concesso, da parametrarsi alle peculiarità del caso concreto. Analoga attenzione alla tempestiva e chiara comunicazione delle mansioni si rinviene nella sentenza del Tribunale di Bari n. 2904 del 25 giugno 2024, secondo cui la specificazione deve precedere l’inizio dell’attività lavorativa, pena la perdita della funzione causale del patto.
Infine, si osserva come la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 6230 del 2025, abbia escluso la validità del patto di prova concluso successivamente alla cessazione di un precedente rapporto tra le stesse parti, laddove il contenuto professionale delle prestazioni sia rimasto immutato. In tale ipotesi, la reiterazione del patto si configura quale abuso dello strumento probatorio, non sorretto da alcuna esigenza esplorativa genuina.
Alla luce di tali sviluppi giurisprudenziali, si può affermare che l’istituto del patto di prova richiede oggi una elevata coerenza tra forma e contenuto, nella prospettiva di garantire l’equilibrio contrattuale e la protezione della parte più debole del rapporto. La sua validità dipende da un delicato bilanciamento tra l’autonomia privata e le garanzie sostanziali, che si realizza solo laddove siano rispettati requisiti rigorosi di forma, determinatezza e trasparenza. L’attenzione del legislatore e della giurisprudenza al rispetto della causa concreta del patto appare dunque imprescindibile per evitare che l’istituto venga distorto in funzione elusiva delle tutele ordinarie del rapporto di lavoro subordinato.
28 luglio 2025
