A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola
La recente decisione della Suprema Corte offre un rilevante contributo alla sistematica dei delitti tributari, affrontando in modo approfondito la nozione di “operazione inesistente” di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, nonché l’estensione della responsabilità concorsuale in capo a soggetti privi di poteri rappresentativi formali ma funzionalmente inseriti nei meccanismi di controllo documentale interni all’impresa. L’intervento nomofilattico, oltre a confermare l’orientamento volto a circoscrivere l’area del penalmente rilevante, individua criteri ermeneutici utili agli operatori economico-giuridici chiamati quotidianamente a calibrare procedure di compliance fiscale e modelli di corporate governance.
Sotto il profilo fattuale, la vicenda origina da un contratto di subappalto, stipulato nell’ambito di un più ampio appalto pubblico destinato alla manutenzione ordinaria di edifici scolastici, nel corso del quale una ditta individuale fatturava consistenti importi a una cooperativa incaricata dell’esecuzione dei lavori. Le fatture venivano successivamente ribaltate, in termini di costi, nelle dichiarazioni fiscali della committente. Le indagini di polizia economico-finanziaria mettevano in luce criticità strutturali della subappaltatrice – carenza di mezzi, capitale umano ridotto e contingenza operativa limitata – assumendo tali elementi quale indizio di una possibile fittizietà, totale o parziale, delle prestazioni contabilizzate. All’esito del giudizio abbreviato il G.U.P. disponeva condanna del direttore di produzione della cooperativa, ritenendo la sua attività di vidimazione documentale causalmente efficiente rispetto all’indebita detrazione d’imposta; la Corte territoriale confermava il dictum, fondando l’elemento soggettivo su intercettazioni intervenute in fase di indagine.
La Corte di cassazione, annullando la pronuncia e rinviando per nuovo esame, muove da una rigorosa ricostruzione della nozione di “operazione inesistente”. Rammenta che la fattispecie sanziona l’indicazione in dichiarazione di elementi passivi fittizi e che l’interesse tutelato si concreta nella salvaguardia delle entrate erariali. Ne consegue l’esigenza di un accertamento analitico della reale consistenza delle prestazioni dedotte in fattura: ove sia dimostrata l’esecuzione, ancorché a costi sovradimensionati, l’integrazione dell’illecito penale difetta e residua, semmai, una diversa contestazione in termini di operazione soggettivamente inesistente o di fatturazione gonfiata, priva di rilievo penal-tributario. Tale impostazione si colloca in linea di continuità con la giurisprudenza che valorizza il principio di offensività in concreto quale criterio indefettibile di delimitazione della tipicità.
Particolarmente pregnante risulta l’analisi del contributo concorsuale dell’extraneus, figura che tipicamente s’incardina nel reato proprio omissivo ascritto al legale rappresentante. Il Collegio ribadisce che la responsabilità dell’ausiliario presuppone una condotta antigiuridica che, sul versante oggettivo, aumenti in modo apprezzabile la probabilità di verificazione dell’evento, mentre, sul versante soggettivo, postula la consapevole adesione allo scopo di evasione fiscale. Manca detta adesione qualora i riscontri probatori evidenzino mera fiducia riposta nei protocolli aziendali preesistenti o condotte caratterizzate da colpa professionale, per quanto grave, in assenza di dolo specifico. La motivazione valorizza, a tal fine, il distacco temporale fra la vidimazione delle fatture e la successiva decisione, assunta dal board societario dopo l’uscita del tecnico, di inserirle in dichiarazione: tale iato, unitamente al blocco iniziale dei pagamenti, integra causa di interruzione del nesso eziologico, ponendo l’extraneus al di fuori del circuito causale penalmente rilevante.
L’arresto riveste altresì portata sistemica in quanto riconnette l’obbligo di diligenza professionale qualificata all’esigenza di predisporre efficaci procedure di controllo interno, coerenti con le Linee guida di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231. La Corte richiama implicitamente l’onere di implementare un assetto organizzativo idoneo a prevenire condotte elusive, rimarcando però che solo la violazione sostanziale, sostenuta da dolo, consente di trasmigrare la responsabilità dall’ordine amministrativo o disciplinare a quello penale. La decisione offre, pertanto, un ancoraggio dogmatico alla prassi di revisione dei modelli di governance, ponendo in capo all’impresa l’obbligo di definire procedure di verifica documentale proporzionate alla complessità operativa, con puntuali presidi di segmentazione e tracciabilità dei flussi informativi.
Sul versante probatorio, il Collegio fa applicazione del canone del “di là da ogni ragionevole dubbio” sancito dall’articolo 533, comma 1, del codice di procedura penale, censurando la tendenza delle corti di merito a fondare l’accertamento su argomentazioni meramente induttive. Benché la carenza di mezzi dell’appaltatore costituisca un indizio di possibile fittizietà, è necessario correlare detta carenza a evidenze specifiche in ordine alla mancata esecuzione dei lavori, evitando che si trasformi in un’impropria presunzione di colpevolezza. In tale prospettiva, la sentenza conferma l’affermazione per cui la prova dell’elemento oggettivo deve muovere da una ricognizione in concreto dei lavori, avvalendosi di perizie tecniche e riscontri contabili tali da dimostrare l’inesistenza totale o quantomeno la sproporzione assoluta fra costo dichiarato e valore di mercato.
Non meno significativa è la riflessione sull’interazione tra diritto interno e obblighi sovranazionali in materia di tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea. La Corte, pur non evocando espressamente la direttiva (UE) 2017/1371 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (cd. direttiva PIF), ne recepisce lo spirito, sottolineando la necessità di un equilibrio fra esigenze di perseguibilità effettiva e garanzie dell’imputato, in ossequio al principio di proporzionalità sancito dall’articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il provvedimento in esame si colloca nel solco di una giurisprudenza volta a evitare estensioni analogiche del diritto penale tributario, riaffermando il primato del principio di legalità e di offensività. Esso impone ai giudici del rinvio un supplemento istruttorio, finalizzato a dissodare il terreno probatorio in ordine sia alla qualificazione delle operazioni fatturate, sia all’effettiva compartecipazione psicologica dell’extraneus, orientando gli operatori a una rigorosa separazione fra responsabilità amministrative e penali e a un rafforzamento dei sistemi di controllo interno aziendale, senza tuttavia ricorrere a elencazioni normative meramente decorative. L’opera interpretativa della Corte appare dunque funzionale a quel bilanciamento fra esigenze repressive e garanzie individuali che costituisce il fulcro del sistema penale dell’economia.
4 agosto 2025