
A cura dell’Avv. Francesco Cervellino
La sentenza n. 32586 del 2025, recentemente pronunciata dalla Corte di cassazione, si presta a una riflessione articolata in merito all’inquadramento giuridico delle fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, con specifico riferimento ai contratti di appalto fittizi destinati a dissimulare un’illegittima intermediazione di manodopera. La vicenda processuale, pur nella sua specificità fattuale, si inserisce in un filone giurisprudenziale consolidato, che merita di essere sistematizzato alla luce dei principi generali del diritto penale tributario e dei più recenti sviluppi normativi e prasseologici.
La normativa di riferimento è costituita dall’art. 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, il quale sanziona penalmente la condotta di chi, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni fiscali annuali elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. La norma distingue, sotto il profilo oggettivo, tra inesistenza oggettiva, quando le operazioni non sono mai state poste in essere, e inesistenza soggettiva, quando l’operazione è effettivamente avvenuta ma non tra i soggetti indicati nella documentazione fiscale.
Nel caso di specie, l’inesistenza contestata era di natura soggettiva. Secondo il giudice di merito, le prestazioni indicate nelle fatture erano effettivamente state rese, ma da lavoratori impiegati direttamente presso l’impresa committente, e non dall’appaltatore formalmente indicato nel contratto. Tale constatazione ha portato alla riqualificazione del contratto da appalto a somministrazione illecita di manodopera, con conseguente attribuzione soggettiva delle prestazioni non al soggetto formalmente emittente le fatture, bensì ai singoli lavoratori, e dunque con l’effetto di rendere le operazioni soggettivamente fittizie.
Sotto il profilo soggettivo, la Corte ha ribadito che per l’integrazione del reato non è richiesta la concreta realizzazione dell’evasione fiscale: è sufficiente la presentazione della dichiarazione contenente dati fittizi. Il dolo generico si configura nella consapevole inclusione in dichiarazione di elementi passivi non corrispondenti alla realtà, mentre il dolo specifico si rinviene nella finalità evasiva della condotta, anche se non necessariamente realizzata. In questo senso, la giurisprudenza di legittimità si è da tempo assestata sull’irrilevanza dell’effettivo conseguimento del vantaggio fiscale, valorizzando piuttosto l’intenzionalità della condotta fraudolenta.
Tuttavia, la sentenza in esame solleva profili problematici sul piano dell’accertamento della consapevolezza del contribuente circa la fittizietà delle operazioni. Infatti, come opportunamente evidenziato in dottrina, la mera riqualificazione del contratto da parte dell’Amministrazione finanziaria – spesso fondata su violazioni fiscali ascrivibili esclusivamente al fornitore – non può fondare ex se l’affermazione della sussistenza del dolo da parte del committente. È necessario, invece, un accertamento puntuale dell’intento negoziale delle parti, al fine di verificare se esse abbiano effettivamente voluto concludere un contratto d’appalto (inteso come prestazione d’opera o di servizio con organizzazione autonoma dei mezzi) ovvero abbiano dissimulato, mediante tale forma contrattuale, una mera fornitura di personale.
Sotto questo profilo, la giurisprudenza civile e amministrativa ha da tempo elaborato criteri per distinguere l’appalto genuino dalla somministrazione illecita, valorizzando indicatori quali l’autonomia gestionale del fornitore, l’assunzione del rischio d’impresa, la disponibilità dei mezzi organizzativi propri e l’assenza di eterodirezione da parte del committente. Tuttavia, nel contesto penal-tributario, l’accento si sposta sul grado di conoscenza e volontà del contribuente nell’utilizzare consapevolmente documentazione fittizia per fini evasivi, rendendo più stringente l’onere probatorio in capo all’accusa.
Resta poi da considerare l’effettiva incidenza della condotta sul piano fiscale. La Corte ha ritenuto sintomatica della finalità evasiva la creazione di un credito IVA derivante dall’utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti. Tuttavia, si osserva che tale credito presuppone il previo versamento dell’IVA al fornitore – elemento che tende a escludere la piena artificiosità dell’operazione – e che, alla luce dell’attuale assetto normativo, anche la somministrazione lecita di manodopera è soggetta a IVA. Ne discende che le due tipologie contrattuali, almeno sul piano dell’imponibilità, non presentano più differenze sostanziali, con conseguente ridimensionamento del vantaggio fiscale potenzialmente conseguito mediante l’uso del contratto simulato.
La pronuncia della Corte di cassazione conferma un orientamento rigoroso nella repressione delle condotte fraudolente mediante l’utilizzo di documentazione fittizia. Tuttavia, essa richiama la necessità di un approccio interpretativo equilibrato, fondato su un’analisi rigorosa sia dell’elemento soggettivo che dell’effettivo impatto fiscale dell’operazione. Solo attraverso tale impostazione è possibile assicurare il rispetto del principio di legalità e del canone costituzionale della colpevolezza, evitando derive punitive fondate su presunzioni generalizzate o su automatismi probatori.
6 ottobre 2025
