Autore: Francesco Cervellino

Il principio di inversione dell’onere della prova nell’accertamento analitico-induttivo: profili sistematici e implicazioni per la tutela del contribuente

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La recente ordinanza n. 27118 del 9 ottobre 2025 della Corte di cassazione rappresenta un momento di chiarificazione significativa nel sistema dell’accertamento tributario, consolidando un orientamento volto a rafforzare la posizione dell’Amministrazione finanziaria nei casi di inattendibilità della contabilità aziendale. Il provvedimento riafferma la legittimità del ricorso al metodo analitico-induttivo, previsto dagli artt. 39 del D.P.R. n. 600 del 1973 e 54 del D.P.R. n. 633 del 1972, consentendo all’Agenzia delle entrate di integrare o ricostruire i redditi dichiarati anche mediante presunzioni semplici, purché dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 del codice civile. Tale pronuncia incide profondamente sul rapporto probatorio tra fisco e contribuente, delineando un’inversione dell’onere della prova che si colloca al crocevia tra esigenze di efficienza fiscale e garanzie di difesa.

Sotto il profilo sistematico, l’accertamento analitico-induttivo si configura come strumento intermedio tra la verifica analitica e quella induttiva pura: esso presuppone l’esistenza di scritture formalmente regolari ma sostanzialmente inattendibili, tali da consentire all’Amministrazione di superare il dato contabile sulla base di elementi indiziari. La Corte, richiamando precedenti consolidati, ribadisce che la falsità o incompletezza delle scritture contabili autorizza l’Ufficio a ricorrere a presunzioni anche isolate, purché idonee a fondare un giudizio di verosimiglianza circa l’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati. Una volta accertata l’inattendibilità delle scritture, l’onere della prova si trasferisce sul contribuente, il quale è tenuto a dimostrare la correttezza della propria contabilità e la non sussistenza dei maggiori redditi presunti. Tale principio, pur coerente con la logica dell’efficienza impositiva, comporta una rilevante deroga al paradigma ordinario dell’art. 2697 c.c., secondo cui è chi afferma un diritto a doverne provare i presupposti.

La vicenda oggetto dell’ordinanza prende le mosse da un accertamento concernente l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, emesse da società prive di struttura e operatività — le cosiddette cartiere — che avevano generato costi fittizi e occultato redditi reali. L’Amministrazione, constatata la falsità delle scritture, ha ricostruito il volume dei ricavi sulla base di presunzioni relative al margine illecito stimato. La Corte, nel cassare la decisione della giurisdizione tributaria regionale, ha rilevato l’errore dei giudici di merito nel non considerare la pluralità di elementi indiziari offerti dall’Ufficio, valorizzando il principio secondo cui anche una sola presunzione, se grave e precisa, può fondare l’accertamento. Il giudice tributario, pertanto, è tenuto a valutare la coerenza complessiva del quadro probatorio, non potendo escludere la validità della ricostruzione fiscale per il solo difetto di riscontri diretti.

Dal punto di vista dogmatico, la decisione rilegge la funzione delle presunzioni nel processo tributario come strumento di razionalizzazione probatoria. Esse non si limitano a integrare lacune documentali, ma costituiscono un mezzo autonomo di accertamento, dotato di una propria forza dimostrativa, che legittima la ricostruzione del reddito imponibile anche in assenza di prove dirette. La praesumptio hominis, nella sua declinazione fiscale, assume così valore di strumento di contrasto all’opacità contabile, specie nei casi di frodi strutturate o di contabilità meramente apparente. Tuttavia, la pronuncia evidenzia anche il rischio sistemico derivante da un’applicazione estensiva del principio: la possibilità che imprese prive di dolo, ma affette da irregolarità formali, subiscano accertamenti gravosi difficilmente confutabili, con effetti potenzialmente lesivi del diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione.

In chiave interpretativa, la Corte delinea una linea di confine sottile ma decisiva: l’inversione dell’onere della prova non scaturisce automaticamente da ogni irregolarità, bensì dalla dimostrata inattendibilità complessiva della contabilità, intesa come mancanza di coerenza sostanziale tra i dati contabili e la realtà economica sottostante. Solo in presenza di tale disallineamento sostanziale l’Amministrazione può legittimamente fondare l’accertamento su presunzioni semplici e gravare il contribuente dell’onere di confutarle. La giurisprudenza di legittimità, dunque, sembra muoversi verso una concezione “funzionale” della prova tributaria, che privilegia l’effettività dei dati economici rispetto alla mera regolarità formale delle scritture.

In prospettiva sistematica, l’ordinanza n. 27118/2025 si inserisce nel più ampio processo di rafforzamento dei poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria, in linea con le politiche europee di contrasto all’evasione e all’elusione fiscale. Essa invita gli operatori economici a una maggiore trasparenza contabile e a un presidio più rigoroso dei processi documentali, poiché ogni anomalia può divenire il presupposto di una ricostruzione presuntiva difficilmente ribaltabile. Al contempo, il provvedimento sollecita una riflessione sul bilanciamento tra esigenze di gettito e garanzie del contribuente, richiamando la necessità di un controllo giurisdizionale effettivo sulla ragionevolezza e proporzionalità delle presunzioni utilizzate.

La decisione della Suprema Corte consolida il principio per cui, in presenza di contabilità inattendibile, l’Agenzia delle entrate può procedere a un accertamento basato su presunzioni semplici, spostando sul contribuente l’onere di dimostrare la correttezza dei propri dati fiscali. Tale impostazione, pur rispondendo a un’esigenza di tutela dell’interesse erariale, impone un rinnovato equilibrio tra potere accertativo e diritti di difesa, affinché l’efficacia degli strumenti di contrasto all’evasione non si traduca in un indebito sacrificio delle garanzie processuali e sostanziali del contribuente. In definitiva, l’ordinanza n. 27118/2025 si configura come un tassello fondamentale nella costruzione di un diritto tributario probatorio sempre più fondato sul principio di ragionevolezza presuntiva, ma anche come monito a preservare, in ogni caso, la centralità del giusto processo tributario.

17 ottobre 2025

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La configurabilità dell’esercizio abusivo della professione tra apparenza qualificata e libertà delle attività non regolamentate

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’evoluzione giurisprudenziale in materia di esercizio abusivo della professione offre una prospettiva di rilievo nella definizione dei limiti di liceità delle prestazioni tecnico-professionali rese da soggetti non iscritti ad albi o ordini. La sentenza della Corte di cassazione, Sezione quinta penale, n. 1374 del 2025, si inserisce nel solco tracciato dalle Sezioni Unite del 2012, riaffermando con rigore i principi che governano l’individuazione del perimetro applicativo dell’art. 348 del codice penale. Essa assume particolare significato con riferimento alla figura del tributarista, la cui attività, pur riconosciuta dalla legge n. 4 del 2013 come libera professione non ordinistica, rischia di interferire con ambiti riservati alle professioni contabili regolate dal d.lgs. n. 139 del 2005.

Il caso di specie trae origine dalla condotta di un soggetto che, privo di abilitazione e di iscrizione all’albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili, aveva per anni gestito la contabilità, la predisposizione delle dichiarazioni fiscali e gli adempimenti connessi di un’impresa individuale, presentandosi come professionista abilitato e curando persino gli aspetti previdenziali e assicurativi del personale dipendente. La Corte ha confermato la condanna per esercizio abusivo della professione, rilevando che l’attività svolta, per modalità, continuità, onerosità e organizzazione, aveva determinato l’apparenza oggettiva di un’attività professionale riservata agli iscritti all’albo dei commercialisti.

Il nucleo argomentativo della decisione risiede nell’adesione al principio, già espresso dalle Sezioni Unite nella pronuncia Cani (n. 11545/2012), secondo cui integra il reato di cui all’art. 348 cod. pen. non solo il compimento di atti singolarmente riservati a una professione, ma anche lo svolgimento sistematico di attività che, pur non esclusive, risultino univocamente riconducibili alla competenza specifica di essa, qualora la condotta, per continuità e organizzazione, generi nei terzi l’affidamento nella qualità professionale del soggetto agente. Si supera così l’approccio formalistico che limitava la rilevanza penale ai soli atti tipicamente riservati, abbracciando una concezione funzionale dell’offesa: è la lesione dell’interesse pubblico alla corretta regolamentazione delle attività professionali e alla tutela dell’affidamento dell’utenza che fonda l’antigiuridicità della condotta.

La Corte ha altresì escluso la tesi difensiva che invocava la libertà delle professioni non regolamentate di cui alla legge n. 4/2013. Tale disciplina, volta a garantire la trasparenza e la qualificazione dei soggetti operanti in settori privi di ordine, non legittima l’ingerenza in ambiti normativamente riservati. Laddove la prestazione travalichi l’assistenza meramente amministrativa o contabile e si estenda ad attività che, per contenuto tecnico e rilevanza giuridica, richiedono l’iscrizione ad un albo, la libertà professionale trova un limite insuperabile nella riserva di competenza. Ne deriva che l’esercizio di fatto di funzioni tipiche del commercialista – quali la tenuta dei libri contabili, la redazione delle dichiarazioni tributarie e la consulenza in materia di rapporti di lavoro – senza abilitazione integra la fattispecie incriminatrice, a prescindere dall’assenza di un danno patrimoniale o di un vantaggio economico specifico.

Un ulteriore profilo di interesse della decisione riguarda il rapporto tra l’esercizio abusivo e il delitto di truffa. La difesa aveva sostenuto che la falsa qualità professionale avrebbe rappresentato un mero mezzo fraudolento, assorbito dalla fattispecie di truffa. La Corte ha invece escluso l’assorbimento, valorizzando la diversità dei beni giuridici tutelati: la truffa protegge il patrimonio, mentre l’art. 348 cod. pen. tutela l’ordine pubblico professionale e la fiducia collettiva nell’esercizio qualificato delle attività regolamentate. I due reati possono pertanto concorrere, poiché l’artificio di presentarsi come professionista abilitato non esaurisce l’offesa, ma la duplica, ledendo l’interesse pubblico oltre che quello patrimoniale della vittima.

Sotto il profilo sistematico, la sentenza ribadisce il ruolo dell’elemento dell’“apparenza qualificata” quale discrimine tra attività libera e professione abusiva. La sussistenza del reato richiede che la condotta si svolga in modo tale da indurre terzi a ritenere il soggetto dotato del titolo abilitante, anche in assenza di un esplicito riferimento alla qualità. È, dunque, il contesto complessivo – continuità, organizzazione, compenso e pubblica spendita della qualifica – a fondare la tipicità penale, ponendo un argine alla proliferazione di figure para-professionali che, in assenza di un controllo deontologico o tecnico, possono generare confusione e pregiudizio per l’affidamento sociale.

La pronuncia in esame si pone così come un punto di equilibrio tra la libertà d’iniziativa economica e la tutela della funzione pubblica delle professioni ordinistiche. Essa riafferma che la demarcazione tra attività consentite e riservate non può essere affidata alla mera autodefinizione dell’operatore, ma deve ancorarsi a parametri oggettivi di contenuto, organizzazione e rappresentazione esterna dell’attività. La linea interpretativa che ne deriva tende a garantire la certezza del diritto e la protezione dell’utenza, riaffermando l’importanza dell’abilitazione come presidio di competenza, responsabilità e correttezza professionale.

La decisione contribuisce a delineare un perimetro più chiaro dell’art. 348 cod. pen. nell’era delle professioni ibride e digitali, in cui il confine tra consulenza libera e attività riservata si fa sempre più labile. L’attenzione della giurisprudenza verso l’apparenza sociale dell’attività e la tutela dell’interesse collettivo alla professionalità qualificata conferma la funzione sistemica della norma penale: non strumento di difesa corporativa, ma garanzia dell’affidabilità del mercato dei servizi professionali e della correttezza dei rapporti economici fondati su competenze certificate.

16 ottobre 2025

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Il disturbo della quiete pubblica nel condominio: la Cassazione e l’autonomia probatoria della testimonianza

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La recente sentenza n. 32043 del 26 settembre 2025 della Terza Sezione penale della Corte di Cassazione offre un significativo chiarimento interpretativo in materia di reati contro l’ordine pubblico, con particolare riguardo alla contravvenzione prevista dall’art. 659 del codice penale (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone). L’occasione giurisprudenziale consente di riflettere sull’evoluzione del concetto di quiete pubblica nel contesto condominiale e, più in generale, sul rapporto tra accertamento tecnico e valutazione giudiziale in materia di immissioni rumorose. La decisione, che si inserisce nel solco di un orientamento ormai consolidato, assume rilievo non solo sul piano penalistico, ma anche sotto il profilo sistematico dei rapporti di vicinato, nei quali si intrecciano esigenze di convivenza civile, tutela della salute e ordine pubblico.

L’ambito applicativo dell’art. 659 c.p. è stato progressivamente circoscritto dall’evoluzione normativa in tema di inquinamento acustico, fino a comprendere essenzialmente le ipotesi di disturbo provenienti da comportamenti individuali e non riconducibili ad attività soggette a specifiche autorizzazioni amministrative. La norma, collocata nel Titolo dedicato ai reati contro l’ordine pubblico, tutela il bene giuridico della tranquillitas publica, intesa come condizione di quiete collettiva e di regolare svolgimento delle relazioni sociali. La fattispecie si configura come reato di pericolo presunto: non è necessario che il disturbo si verifichi in concreto, ma è sufficiente che la condotta sia astrattamente idonea a turbare il riposo o le occupazioni di una pluralità indeterminata di persone. È questo il punto di distinzione rispetto alle semplici controversie civili in materia di immissioni intollerabili ex art. 844 c.c., ove la tutela riguarda un diritto soggettivo individuale.

Nel caso esaminato, l’imputato era stato condannato dal Tribunale di Brindisi per aver, nelle ore notturne, diffuso musica ad alto volume e provocato rumori tali da impedire ai vicini del piano inferiore il normale riposo. In sede di legittimità, la difesa aveva contestato l’assenza di accertamenti tecnici e di perizia fonometrica, sostenendo che il disturbo avesse riguardato unicamente un numero ristretto di persone, circoscritto all’appartamento sottostante. La Cassazione ha tuttavia rigettato il ricorso, confermando che la sussistenza del reato non dipende dal numero dei soggetti effettivamente disturbati, bensì dall’idoneità oggettiva della condotta a compromettere la quiete di una collettività, anche potenziale, di soggetti.

La Corte ha ribadito che il giudice può fondare il proprio convincimento non solo su dati tecnici, ma anche su elementi probatori di diversa natura, quali testimonianze dirette o riscontri degli agenti intervenuti. La perizia fonometrica, pur rappresentando uno strumento utile, non è condizione necessaria per l’accertamento dell’offensività della condotta. Tale principio, già affermato da precedenti pronunce (Cass., Sez. III, n. 1501/2018; Cass., Sez. I, n. 20954/2011), trova oggi un’applicazione sistematica che valorizza la prova dichiarativa e la percezione sensoriale come elementi idonei a fondare il giudizio di superamento della soglia di normale tollerabilità. Il disturbo, infatti, non va inteso in senso meramente fisico o misurabile, ma come alterazione dell’ordinario equilibrio sonoro che consente la convivenza pacifica in un contesto abitativo.

Sotto il profilo metodologico, la decisione si segnala per aver riaffermato la centralità del prudente apprezzamento del giudice nella valutazione dell’idoneità lesiva dei rumori. Il giudizio, essendo di natura fattuale, richiede un’analisi complessiva delle circostanze concrete, in cui assumono rilievo la frequenza, l’intensità e la durata delle emissioni sonore, nonché il momento temporale in cui esse si verificano. L’assenza di una perizia tecnica non può dunque costituire, di per sé, motivo di annullamento della sentenza di condanna, qualora la prova testimoniale e gli accertamenti empirici degli organi di polizia abbiano fornito elementi sufficienti per ritenere superata la soglia della normale tollerabilità.

La portata sistematica della pronuncia va oltre il singolo caso di rumori condominiali. Essa consolida un’interpretazione del bene giuridico “quiete pubblica” che, pur radicandosi nella dimensione collettiva dell’ordine pubblico, non esclude la rilevanza di fenomeni localizzati, purché astrattamente idonei a propagarsi oltre l’ambito domestico immediato. In questa prospettiva, il reato non tutela il diritto al silenzio di un singolo individuo, ma la tranquillità di una comunità abitativa, anche quando solo un soggetto si attivi per denunciare la condotta molesta. Tale approccio riflette un bilanciamento tra l’interesse collettivo al riposo e la libertà individuale di comportamento, imponendo a ciascun consociato un dovere di misura nell’esercizio delle proprie attività domestiche.

In prospettiva, la decisione contribuisce a chiarire la linea di confine tra responsabilità penale e responsabilità civile nelle controversie condominiali. Laddove la condotta rumorosa assuma carattere episodico e circoscritto, potrà configurarsi un illecito civile per immissioni intollerabili. Diversamente, quando essa risulti oggettivamente idonea a turbare la quiete di una pluralità indeterminata di soggetti, ricorre la fattispecie penale ex art. 659 c.p., anche in assenza di misurazioni fonometriche. Si tratta di un principio che rafforza la funzione preventiva del diritto penale in materia di disturbo acustico, ponendo al centro il rispetto delle regole di convivenza e la tutela di un bene immateriale, ma essenziale, quale l’ordine pubblico domestico.

La sentenza n. 32043/2025 assume dunque un valore paradigmatico nel delineare i criteri probatori del reato di disturbo della quiete pubblica, riaffermando l’autonomia del giudice nel valutare la pericolosità della condotta anche in assenza di accertamenti scientifici. Essa ribadisce che la tutela penale della quiete pubblica non può ridursi a un dato tecnico, ma deve riflettere la percezione sociale del disturbo e la sua attitudine a compromettere il benessere collettivo. In tal modo, la giurisprudenza della Cassazione contribuisce a definire una moderna concezione dell’ordine pubblico domestico, fondata sull’equilibrio tra libertà individuale e responsabilità sociale, cardine imprescindibile della convivenza civile.

16 ottobre 2025

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