Autore: Francesco Cervellino

L’accertamento induttivo nelle Srl a ristretta base: il limite dell’antieconomicità apparente

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’esame della sentenza n. 3026/5/2025 della Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania consente di riflettere su un tema cruciale in materia di accertamento tributario delle società a responsabilità limitata a ristretta base partecipativa, ovverosia quelle configurazioni societarie in cui la compagine sociale si riduce a pochi soci, spesso legati da vincoli familiari o comunque personali. In tali ipotesi, l’Amministrazione finanziaria tende sovente a sospettare una distribuzione occulta di utili in presenza di sproporzioni ritenute ingiustificate tra costi e ricavi, ricorrendo all’accertamento analitico-induttivo.

Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva fondato l’accertamento su una pretesa antieconomicità rilevata in sede di analisi delle dichiarazioni fiscali per il triennio 2015-2017. A fronte di una redditività apparente pari al 2,76%, giudicata incongrua rispetto ai costi del personale sostenuti (oltre 130mila euro nel solo 2016), l’Ufficio aveva ritenuto configurabile una distribuzione di dividendi non dichiarati, parametrando tali utili occulti al compenso medio unitario dei dipendenti. Ne erano scaturiti tre distinti avvisi di accertamento: uno nei confronti della società e due a carico delle socie, in quanto ritenute beneficiarie dei proventi occulti.

La difesa delle contribuenti ha articolato la propria linea argomentativa, da un lato, attraverso una corretta ricostruzione degli indici di redditività (Return on Equity – ROE e Return on Sales – ROS), i quali risultavano perfettamente coerenti con i parametri medi di settore; dall’altro, producendo idonea documentazione attestante l’esistenza di redditi da lavoro dipendente percepiti all’esterno dalle socie, a dimostrazione della liceità della gestione societaria e dell’assenza di qualsiasi forma di distribuzione dissimulata di utili.

La Corte tributaria di primo grado aveva disatteso tali argomentazioni, aderendo alla prospettazione dell’Amministrazione finanziaria. Tuttavia, in sede di gravame, i giudici di secondo grado hanno accolto l’appello, ritenendo fondate le censure difensive. Il Collegio ha valorizzato due profili: in primo luogo, l’assenza di contestazioni puntuali alla documentazione prodotta dalle contribuenti; in secondo luogo, la carenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, così come richiesto dalla consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cass., sent. n. 9722/2015, n. 6978/2015, n. 14068/2014).

Appare evidente come l’onere probatorio in tema di antieconomicità gravi in capo all’Amministrazione, la quale è chiamata a dimostrare l’irragionevolezza della condotta imprenditoriale del contribuente, anche alla luce delle più recenti pronunce di legittimità (Cass., ord. n. 21531/2024). In difetto di tale dimostrazione, non può ritenersi legittimo l’accertamento induttivo, pena una lesione del principio di libera iniziativa economica, costituzionalmente garantito.

Nel caso de quo, la Corte ha ritenuto che la presenza di redditi esterni in capo alle socie, regolarmente documentati, fosse elemento sufficiente a escludere l’esistenza di una distribuzione occulta di utili, facendo venir meno la presunzione di antieconomicità che sorreggeva l’accertamento. Ciò implica un importante principio di diritto: la gestione societaria non può dirsi aprioristicamente antieconomica per il solo fatto di presentare margini ridotti, ove sia fornita dal contribuente una plausibile spiegazione del disequilibrio economico rilevato.

Il contributo giurisprudenziale in esame si colloca nel solco di un orientamento volto a temperare l’utilizzo dell’accertamento induttivo in presenza di società a ristretta base, evitando che la ridotta compagine sociale si trasformi in un mero criterio presuntivo di evasione, in assenza di riscontri fattuali concreti e oggettivi.

14 agosto 2025

La rappresentanza sostanziale del minore nel nuovo processo di famiglia: il ruolo strategico del curatore speciale

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’articolo 473-bis.8 del Codice di procedura civile, introdotto dal decreto legislativo n. 149 del 2022 nell’ambito della riforma Cartabia, ha rappresentato una svolta sistemica nella disciplina della rappresentanza legale del minore nei procedimenti giudiziari, attribuendo al curatore speciale un ruolo centrale di garante dei diritti soggettivi, anche sotto il profilo patrimoniale. La portata innovativa della norma si manifesta non soltanto nella previsione della nomina obbligatoria del curatore in caso di inadeguata rappresentanza genitoriale o su richiesta del minore ultraquattordicenne, ma soprattutto nella possibilità di conferirgli specifici poteri di rappresentanza sostanziale.

Tale configurazione si traduce in un significativo rafforzamento della funzione protettiva del minore, il quale, lungi dall’essere un mero oggetto del processo, acquisisce, per il tramite del curatore, una presenza attiva e sostanziale nella dinamica processuale e nella tutela dei propri interessi economici. In tal senso, il curatore speciale agisce non solo in sostituzione dei genitori nelle ipotesi di conflitto di interessi, ma anche quale soggetto capace di far valere con autonomia i diritti del minore, sviluppando un’attività che si estende ben oltre i limiti della rappresentanza processuale.

La recente ordinanza del Tribunale di Roma del 4 giugno 2025 costituisce un esemplare sviluppo giurisprudenziale dell’articolato assetto normativo introdotto dalla riforma Cartabia. In tale contesto, il giudice ha conferito al curatore speciale del minore un mandato di ampia portata, volto a quantificare il debito del genitore inadempiente all’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento, a verificarne le azioni giudiziarie eventualmente intraprese dal genitore affidatario e a relazionare su tale attività mediante una dettagliata memoria istruttoria. L’intervento del curatore è così finalizzato alla ricostruzione oggettiva, non filtrata dagli interessi contrapposti delle parti, della situazione debitoria gravante sul genitore e del corrispondente credito spettante al minore.

Particolare rilievo assume la previsione di una serie di poteri accessori, autorizzati espressamente dal giudice, quali la possibilità di interloquire con i servizi sociali, di acquisire atti giudiziari presso uffici competenti e di ottenere informazioni direttamente dalle parti processuali. Si tratta di prerogative che, sebbene accessorie, assumono valenza strategica nell’attuazione della funzione sostanziale attribuita al curatore speciale, giacché gli consentono di costruire una rappresentazione fattuale accurata e giuridicamente rilevante della condotta economica e patrimoniale dei genitori.

Si evidenzia altresì l’integrazione di tale dispositivo con ulteriori strumenti di indagine quali gli accertamenti di polizia tributaria a mezzo della Guardia di Finanza, diretti a far luce sul tenore di vita, sulla consistenza patrimoniale e reddituale, sulla partecipazione a compagini societarie e sull’esistenza di rapporti finanziari dei genitori. In questo scenario, l’intervento del curatore assume un carattere sinergico rispetto all’attività istruttoria disposta dal giudice, concorrendo a formare un quadro probatorio ampio, trasparente e non viziato da reticenze o opacità dichiarative.

Inoltre, la finalità del giudice di valutare anche l’effettività dell’esercizio della responsabilità genitoriale da parte del genitore affidatario, con particolare riferimento alla diligenza nella tutela del credito del minore, conferma la tendenza della giurisprudenza ad un approccio sostanzialistico nella valutazione dei comportamenti genitoriali, che devono dimostrarsi coerenti con l’obbligo di protezione e promozione dell’interesse superiore del figlio minore.

È in tale cornice che si consolida la figura del curatore speciale come soggetto titolare di un incarico ad alta intensità tecnica e deontologica, il cui corretto esercizio impone una professionalità elevata, una preparazione giuridica solida e una capacità di interazione interistituzionale funzionale alla tutela sostanziale dei diritti del minore. La diligenza professionale qualificata che deve caratterizzare l’operato del curatore si traduce, dunque, in un’attività orientata non solo all’efficacia giuridica, ma anche alla concretezza sociale dell’intervento protettivo.

Appare evidente, pertanto, che il principio del superiore interesse del minore, cui ogni intervento giudiziale deve essere conformato, trova nella valorizzazione del curatore speciale e nella sua capacità operativa un punto di snodo cruciale. La giurisprudenza di merito, come dimostrato dal Tribunale di Roma, mostra una crescente sensibilità nel considerare il minore quale soggetto di diritto autonomo, la cui voce e le cui esigenze trovano espressione e tutela non più solo formale ma pienamente sostanziale, anche in ambito patrimoniale, grazie alla mediazione qualificata del curatore speciale.

12 agosto 2025

Affidamento e diritto di visita degli animali da compagnia nei contesti di crisi familiare: profili critici e prospettive di riforma

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

Nel progressivo mutamento delle dinamiche familiari e nell’ampliamento della nozione stessa di relazione affettiva, l’affidamento degli animali da compagnia in occasione della cessazione della convivenza rappresenta un terreno giuridicamente problematico, collocato all’incrocio fra la tutela del legame affettivo e la rigida dogmatica della proprietà mobiliare. Nonostante l’ordinamento europeo e, in parte, anche quello nazionale abbiano formalmente riconosciuto la senzienza dell’animale – concetto che si discosta radicalmente dalla tradizionale qualificazione civilistica del medesimo come res –, permane nel sistema italiano un evidente scarto fra l’evoluzione del sentire sociale e il dato normativo, tuttora ancorato a una concezione patrimoniale e strumentale dell’animale d’affezione.

L’assenza, nell’ambito del diritto di famiglia, di una disciplina positiva che regolamenti espressamente la sorte degli animali domestici all’atto della cessazione del rapporto coniugale o di convivenza, determina un vuoto normativo che la giurisprudenza ha tentato di colmare mediante l’applicazione analogica di principi desunti da altri settori dell’ordinamento o mediante il ricorso a istituti tipici del diritto delle cose, quale la tutela possessoria. Tuttavia, tali soluzioni appaiono, sul piano sistematico, inadeguate a cogliere la complessità del fenomeno relazionale e a offrire una protezione effettiva al vincolo affettivo che lega l’essere umano all’animale da compagnia.

In sede di separazione consensuale, la giurisprudenza di merito ha manifestato una certa disponibilità ad accogliere patti tra i coniugi che, mutuando le categorie previste per l’affidamento dei figli minori, disciplinano la permanenza dell’animale presso l’uno o l’altro partner, nonché i tempi e le modalità di visita. Tali accordi, fondati sull’autonomia privata, sono stati sovente considerati meritevoli di tutela in quanto coerenti con il principio di autoresponsabilità e con la valorizzazione del rapporto affettivo quale bene giuridicamente rilevante.

Di segno opposto è l’approccio nei procedimenti giudiziali, nei quali la mancanza di una previsione normativa specifica ha condotto la giurisprudenza ad escludere la possibilità per il giudice di statuire autonomamente sull’affidamento dell’animale o sul diritto di visita in assenza di un’intesa tra le parti. Il Tribunale di Rovigo, con ordinanza del 15 maggio 2025, ha emblematicamente riaffermato tale orientamento, negando la tutela cautelare ex art. 700 c.p.c. invocata da un coniuge separato, che lamentava un grave turbamento emotivo conseguente all’interruzione della frequentazione con il cane condiviso durante il matrimonio. Il giudice, nel rigettare il ricorso, ha ribadito l’inapplicabilità della disciplina familiare al caso di specie, richiamando la natura mobiliare dell’animale e la conseguente necessità, per il ricorrente, di adire l’autorità giudiziaria ordinaria mediante azione possessoria.

Il rimedio possessori, sebbene teoricamente ammissibile, presuppone la dimostrazione dell’esistenza di un rapporto significativo tra l’animale e la persona che agisce in giudizio, nonché l’interruzione arbitraria del relativo godimento da parte del detentore esclusivo. Si tratta di una tutela indiretta e insufficiente, poiché si fonda su presupposti estranei alla natura relazionale del legame affettivo. Tale impostazione è stata ripresa anche dal Tribunale di Pescara, che con ordinanza del 15 febbraio 2025 ha ritenuto inammissibile la domanda cautelare avanzata da una ex compagna, rilevando tuttavia la possibilità di agire in via possessoria, a condizione di fornire prova della continuità e stabilità del rapporto con l’animale.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8459 del 2023, ha a sua volta stabilito che il diritto all’affidamento o alla comproprietà dell’animale può essere riconosciuto solo in presenza di indici oggettivi attestanti l’esistenza di un legame affettivo durevole e qualificato, come la convivenza, l’assistenza sanitaria e la cura quotidiana. La breve durata della relazione non può di per sé fondare una posizione giuridicamente tutelabile in capo al richiedente. Tali pronunce convergono nel delineare un quadro in cui l’animale continua a essere trattato come oggetto di un rapporto dominicale, nonostante le dichiarazioni normative che ne riconoscono la personalità senziente.

La dottrina più attenta ha rilevato come tale impostazione configuri una forma di disallineamento tra la dimensione fattuale e quella giuridica della relazione uomo-animale. Ne deriva la necessità di un intervento legislativo che riconosca specificamente la rilevanza del vincolo affettivo instauratosi con l’animale da compagnia, anche in chiave relazionale, e che consenta al giudice di valutare, caso per caso, l’interesse prevalente dell’animale e delle persone coinvolte, sulla base di criteri analoghi a quelli adottati in materia di affidamento dei minori, pur tenendo conto della diversità ontologica e giuridica dei soggetti.

L’introduzione di una normativa organica in materia di affidamento degli animali da compagnia nelle crisi familiari si impone dunque come un’esigenza sistematica e di civiltà giuridica, finalizzata a superare la visione proprietaria dell’animale e a ricondurre la relativa disciplina nell’alveo della tutela della persona e dei legami affettivi. Solo in tal modo sarà possibile colmare il divario tra diritto e realtà, conferendo adeguata dignità giuridica al ruolo sociale e relazionale dell’animale d’affezione nella vita familiare contemporanea.

11 agosto 2025