Autore: Francesco Cervellino

Inerenza e deducibilità fiscale dell’abbigliamento professionale: profili giurisprudenziali e limiti applicativi

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La questione della deducibilità delle spese per l’abbigliamento nel contesto del reddito d’impresa e di lavoro autonomo si configura come una delle tematiche più controverse nell’ambito dell’interpretazione dell’articolo 109, comma 5, del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), laddove si rinvia implicitamente al principio dell’inerenza. Tale principio, pur non trovando una codificazione esplicita nella norma, è stato oggetto di elaborazione giurisprudenziale progressiva, assumendo nel tempo una dimensione di tipo qualitativo, fondata sull’utilità e funzionalità del costo rispetto all’attività economica esercitata, anche in prospettiva futura.

La Corte di cassazione, con costanza ermeneutica, ha definito l’inerenza come il nesso eziologico tra il costo sostenuto e l’attività imprenditoriale o professionale, inteso non necessariamente in termini diretti e immediati con i ricavi, ma in senso più ampio e strutturale. Tale orientamento, ribadito nelle più recenti decisioni nn. 9568, 9132, 8922 e 8700 del 2025, si traduce in un’interpretazione restrittiva per le spese aventi natura potenzialmente promiscua, come quelle relative all’acquisto di abiti civili o di rappresentanza. Tali spese, sebbene utilizzate esclusivamente in ambito lavorativo, vengono di regola escluse dalla deduzione in quanto prive del carattere di esclusività funzionale all’attività esercitata.

La giurisprudenza distingue pertanto in modo netto tra abbigliamento generico, che può essere indifferentemente adoperato in contesti lavorativi e privati, e abbigliamento tecnico o funzionale, la cui natura specifica e obbligatorietà normativa (si pensi ai dispositivi di protezione individuale o alle divise sanitarie) legittima senz’altro la deducibilità del relativo costo. In tale contesto, l’onere della prova circa la sussistenza dell’inerenza grava sul contribuente, in applicazione del principio di vicinanza della prova, il quale, in deroga alla regola generale dell’art. 2697 cod. civ., pone a carico della parte più prossima alla fonte probatoria la dimostrazione dell’assunto dedotto, specie in presenza di elementi di dubbio sull’effettiva destinazione della spesa.

Occorre evidenziare che, sebbene l’Amministrazione finanziaria debba motivare le riprese fiscali in sede di accertamento, l’onere documentale a carico del contribuente impone la predisposizione di un impianto probatorio idoneo a dimostrare, caso per caso, il vincolo funzionale tra il bene acquisito e l’attività svolta. In tale ottica, appare imprescindibile una valutazione sostanziale e concreta delle circostanze fattuali, onde evitare applicazioni automatiche e generalizzate dei criteri di inerenza.

Nonostante l’approccio restrittivo della giurisprudenza di legittimità, alcune pronunce di merito hanno aperto margini interpretativi più flessibili, riconoscendo, in taluni casi, una deducibilità parziale delle spese per abbigliamento laddove sussistano vincoli contrattuali specifici o esigenze di scena che impongano l’adozione di un determinato outfit. È il caso, ad esempio, di artisti, personaggi dello spettacolo o operatori del settore della moda e della comunicazione, la cui immagine pubblica costituisce parte integrante della prestazione professionale resa. In tali ipotesi, la giurisprudenza ha talvolta ritenuto applicabile una deducibilità forfettaria, sovente fissata nella misura del 50%, in assenza di criteri oggettivi di ripartizione dell’utilizzo promiscuo.

Un’ulteriore evoluzione interpretativa si rinviene nella recente sentenza n. 959/2/24 della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Torino, che ha accolto l’istanza di un commercialista affermato, riconoscendo la deducibilità dei costi sostenuti per l’acquisto di capi d’abbigliamento di pregio, in ragione delle funzioni pubbliche ricoperte e della conseguente esigenza di mantenere un elevato standard di decoro professionale. In tale pronuncia, il giudice ha valorizzato l’immagine pubblica del contribuente quale elemento costitutivo della sua attività e ha ritenuto che l’abbigliamento formale potesse essere qualificato come spesa funzionalmente inerente alla prestazione resa, in quanto strumentale alla tutela della reputazione e credibilità professionale.

Alla luce delle considerazioni esposte, si impone una riflessione critica sull’attuale quadro interpretativo, caratterizzato da una tensione costante tra esigenze di rigore fiscale e tutela della peculiarità delle singole attività economiche. L’approccio giurisprudenziale più recente suggerisce la necessità di adottare un criterio di valutazione elastico, fondato su parametri oggettivi e coerenti con la realtà economica sottostante, in grado di garantire un equo bilanciamento tra le esigenze dell’erario e i diritti del contribuente. La costruzione di un sistema di deducibilità improntato su criteri di effettiva strumentalità e non su mere presunzioni formali rappresenta una prospettiva evolutiva coerente con i principi di proporzionalità e ragionevolezza che dovrebbero improntare ogni intervento ermeneutico in materia tributaria.

27 agosto 2025

Comportamenti extralavorativi e licenziamento disciplinare: la ridefinizione giurisprudenziale del nesso fiduciario alla luce dell’ordinanza n. 22593/2025 della Cassazione

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’ordinanza n. 22593 del 2025 della Corte di Cassazione costituisce un’importante occasione per riflettere sul perimetro applicativo del licenziamento disciplinare nel caso di condotte poste in essere dal lavoratore al di fuori dell’orario di lavoro ma all’interno di spazi aziendali e in danno di un collega, sollevando interrogativi complessi sul rapporto tra doveri extralavorativi, vincolo fiduciario e sanzionabilità espulsiva.

La fattispecie sottoposta al vaglio della Corte di legittimità prende origine da un episodio avvenuto in un parcheggio aziendale, dove un dipendente, giunto a bordo di un’autovettura condotta da terzi, ha posto in essere un duplice atto di aggressività simbolica e materiale nei confronti di un collega, prima sputando sulla sua autovettura e poi danneggiandone lo specchietto laterale sinistro, che ha successivamente asportato. Tali condotte, sebbene anteriori all’inizio dell’orario di servizio, sono state ritenute dal datore di lavoro gravi al punto da giustificare l’irrogazione del licenziamento per giusta causa.

Il giudice di prime cure ha tuttavia ritenuto sproporzionata la sanzione espulsiva, qualificando la condotta come riconducibile alla clausola generale di cui all’articolo 53, lettera h, del Contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) per l’industria gomma-plastica, disposizione che contempla sanzioni conservative (multa o sospensione) per comportamenti che, pur lesivi della disciplina o della morale aziendale, non risultino tali da giustificare la rottura irreversibile del vincolo fiduciario. Al contrario, la Corte d’appello ha valorizzato la carica offensiva e anti-relazionale della condotta, inquadrandola tra le gravi infrazioni alla disciplina di cui all’articolo 54, comma 1, del medesimo CCNL, e ritenendola idonea a minare in via definitiva l’affidamento datoriale.

La Suprema Corte ha cassato la sentenza d’appello, censurandone l’iter motivazionale sotto più profili. In primo luogo, ha riaffermato la necessità di distinguere le sanzioni conservative da quelle espulsive non già in base a un’astratta valutazione della gravità della condotta, bensì alla luce della connessione funzionale della stessa con l’esecuzione del rapporto di lavoro, elemento ritenuto indefettibile per l’applicabilità dell’articolo 54. In secondo luogo, ha richiamato l’esigenza di un’interpretazione sistematica e coerente delle clausole generali contenute nei codici disciplinari collettivi, sottolineando che la disposizione di cui all’articolo 53 è idonea a ricomprendere anche comportamenti attivi, e che l’assenza di una diretta incidenza sull’espletamento della prestazione lavorativa esclude la possibilità di qualificare la condotta come giusta causa di recesso.

Tale approccio interpretativo, pur fondandosi su una rigorosa lettura formale del dato normativo, solleva rilevanti problematiche di ordine sistemico. Invero, appare riduttivo limitare l’operatività del vincolo fiduciario al solo perimetro spazio-temporale della prestazione lavorativa, trascurando il fatto che la relazione di lavoro è, per sua natura, intrinsecamente fondata su un’aspettativa di affidabilità e correttezza comportamentale che trascende i confini dell’orario di servizio. In tale ottica, atti di manifesta aggressività o ostilità, compiuti all’interno di spazi aziendali e in danno di colleghi, possono e devono essere valutati alla stregua di violazioni dei doveri comportamentali fondamentali, ancorché non riconducibili direttamente all’attività lavorativa in senso stretto.

Appare dunque opportuno ricondurre l’analisi della sanzionabilità disciplinare entro la più ampia cornice dei doveri ex articolo 2104 del Codice civile, che impone al prestatore d’opera subordinato l’adempimento diligente e leale delle proprie obbligazioni, nonché del dovere di fedeltà sancito dall’articolo 2105, che implica, tra l’altro, l’astensione da comportamenti potenzialmente lesivi dell’integrità organizzativa e relazionale dell’impresa. La condotta in esame, sebbene estranea al momento esecutivo della prestazione, ha indubbiamente inciso negativamente sulla coesione del gruppo di lavoro e sulla qualità delle relazioni interne, fattori rilevanti ai fini della tenuta del contesto produttivo.

Sotto altro profilo, la pronuncia in commento evidenzia ancora una volta le criticità insite nell’utilizzo delle clausole generali all’interno dei codici disciplinari, la cui elasticità semantica si traduce spesso in margini di incertezza applicativa tali da compromettere il principio di certezza del diritto e di prevedibilità degli effetti disciplinari. La conseguenza pratica è un aumento del contenzioso e una pericolosa frammentazione interpretativa, che finisce per ostacolare la costruzione di un diritto del lavoro coerente e prevedibile.

In questo quadro, si impone un ripensamento complessivo della disciplina del licenziamento disciplinare, che potrebbe avvalersi di un intervento normativo volto a tipizzare le condotte espulsive, delineare con maggiore precisione il concetto di giusta causa e valorizzare il criterio della lesione del vincolo fiduciario in un’ottica funzionale e non meramente formale. Solo un tale riassetto normativo potrà restituire certezza e razionalità a un settore del diritto del lavoro profondamente segnato da incertezze esegetiche e da soluzioni giurisprudenziali non sempre uniformi.

26 agosto 2025

Responsabilità gestoria e imputazione causale nella crisi d’impresa: profili sostanziali e processuali nella giurisprudenza di merito

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’ordinanza del Tribunale di Milano, Sezione feriale, del 21 agosto 2025, offre un contributo rilevante alla sistematizzazione dei presupposti giuridici dell’azione risarcitoria esperibile dai creditori sociali nei confronti degli amministratori di società a responsabilità limitata (S.r.l.), ai sensi dell’articolo 2476, comma 6, del codice civile. Il provvedimento, intervenendo sulla revoca di un sequestro conservativo precedentemente concesso, pone l’accento sull’esigenza di una rigorosa verifica del nesso eziologico tra condotta gestoria e pregiudizio patrimoniale, sancendo in via giurisprudenziale la centralità dell’onere probatorio quale presidio dell’effettività della responsabilità.

È principio ormai consolidato che l’amministratore di S.r.l., pur non rispondendo personalmente dei debiti sociali in ragione dell’autonomia patrimoniale perfetta dell’ente, possa essere chiamato a rispondere ex delicto o ex contractu qualora la sua condotta, connotata da violazione degli obblighi di legge o statutari, abbia prodotto un danno diretto alla società ovvero ai creditori sociali. In tale contesto, l’articolo 2476, comma 6, c.c. configura un’azione speciale di natura aquiliana, fondata su un titolo di responsabilità extracontrattuale, a tutela dei creditori danneggiati da atti gestori in violazione del generale dovere di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale.

L’ordinanza in commento si segnala per la chiarezza con cui ribadisce che la crisi d’impresa, pur potendo costituire l’esito di una gestione negligente o colpevole, non è di per sé idonea a fondare la responsabilità degli amministratori, ove non sia dimostrata la riconducibilità eziologica della stessa a condotte qualificabili come mala gestio. La decisione milanese si pone in perfetta continuità con l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’azione dei creditori non può fondarsi su presunzioni semplici, bensì necessita dell’allegazione e della prova di fatti concreti, atti gestori specifici e dannosi, secondo un impianto probatorio articolato e coerente (Cass., 24 febbraio 2014, n. 4377).

Nella fattispecie, il giudice di merito ha chiarito che l’inattività degli amministratori, consistita nella mancata costituzione in giudizio o nell’omesso pagamento di alcuni debiti, non può essere ritenuta ex se sufficiente a integrare gli estremi della responsabilità risarcitoria, qualora si collochi in una fase già caratterizzata da dissesto economico e non risulti connotata da condotte antidoverose tipiche. Analogamente, la mera insufficienza patrimoniale, se non sorretta da un impianto contabile documentato e correlato a condotte gestorie specifiche, non legittima l’adozione di misure cautelari conservative. Ne discende l’inidoneità del fumus boni iuris a sostenere la misura interdittiva, che pertanto è stata revocata in sede di riesame.

La decisione recepisce altresì un orientamento consolidato in dottrina e giurisprudenza circa l’inesistenza di una responsabilità oggettiva dell’amministratore, anche qualora investito di una carica formale o di fatto. Secondo Cass., 3 febbraio 2017, n. 2954, la responsabilità non può essere desunta automaticamente dalla posizione apicale, ma deve fondarsi su un accertamento specifico del ruolo attivo nella gestione e della violazione di obblighi di diligenza, prudenza e correttezza. Questo principio è stato ribadito da Cass., 12 gennaio 2021, n. 296, e ulteriormente sviluppato nella pronuncia 1° settembre 2023, n. 25631, che ha statuito che, una volta allegata la violazione, incombe sull’amministratore l’onere di dimostrare la conformità della condotta ai criteri di diligentia quam in suis.

Elemento centrale dell’impianto argomentativo del provvedimento è il richiamo al principio della business judgment rule, inteso quale limite funzionale al sindacato giudiziale sulle scelte imprenditoriali. Tale principio, mutuato dall’esperienza nordamericana e ormai stabilmente accolto nella giurisprudenza civile italiana, tutela la discrezionalità gestoria da interventi ex post non giustificati da violazioni manifeste delle regole di condotta. In base a questo criterio, il giudice può sindacare le scelte dell’amministratore solo laddove risultino manifestamente imprudenti, arbitrarie, irrazionali o poste in essere in violazione degli obblighi di lealtà e diligenza previsti dagli articoli 2392 e 2476 c.c.

Sul piano sistematico, l’ordinanza in commento riafferma l’importanza del corretto bilanciamento tra libertà di impresa e protezione dei terzi, ribadendo che la responsabilità gestoria non può tradursi in un’ipoteca permanente sul patrimonio dell’amministratore, ma deve essere limitata ai casi in cui sia riscontrabile una condotta concretamente antigiuridica, produttiva di danno e causalmente riconducibile all’agente. Ne consegue la necessità, per i creditori, di articolare un impianto probatorio che documenti puntualmente il credito certo, l’insufficienza patrimoniale, l’inadempimento degli obblighi conservativi e il nesso di causalità tra condotta e danno.

In ultima analisi, la pronuncia del Tribunale di Milano si inserisce tra quelle decisioni che, nel delimitare le condizioni dell’azione risarcitoria, contribuiscono a rafforzare la certezza del diritto, prevenendo derive punitive e assicurando al contempo la tutela dell’affidamento legittimo dei creditori sociali. In tale ottica, l’amministratore non è chiamato a rispondere in re ipsa del dissesto, ma solo laddove risulti comprovato che la crisi d’impresa costituisca effetto immediato e diretto di una gestione antidoverosa e causalmente efficiente.

26 agosto 2025