Autore: Francesco Cervellino

Esonero dal visto di conformità e soggetti trasparenti: l’inestensibilità soggettiva del beneficio al socio nel regime del concordato preventivo biennale

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

Il sistema tributario italiano, nell’ambito del controllo sull’utilizzo dei crediti fiscali in compensazione, si caratterizza da tempo per l’introduzione di presidi formali a garanzia della correttezza delle dichiarazioni e dell’effettività delle posizioni creditorie vantate dal contribuente. Tra questi, assume rilievo centrale l’istituto del visto di conformità, disciplinato in via generale dall’articolo 1, comma 574, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e successivamente integrato dall’articolo 3 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50. Esso costituisce condizione per l’utilizzo, in compensazione “orizzontale”, di crediti d’imposta eccedenti la soglia di 5.000 euro annui, ex articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241.

L’obbligo si inserisce in un contesto più ampio di rafforzamento del controllo formale ex ante, in funzione antielusiva e antifrode, mediante l’intervento di un soggetto abilitato (professionista o CAF) che, previo esame documentale, attesta la corrispondenza dei dati dichiarati con la contabilità e con i riscontri fiscali del contribuente. Tale strumento è stato ritenuto non solo compatibile, ma coerente con i principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità, in quanto volto a tutelare l’interesse erariale attraverso una verifica indipendente.

Nel tempo, tuttavia, sono stati introdotti meccanismi premiali che attenuano l’obbligo dell’apposizione del visto nei confronti di contribuenti ritenuti affidabili. In particolare, l’articolo 9-bis del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, ha introdotto il regime premiale connesso agli indici sintetici di affidabilità fiscale (ISA), che prevede l’esonero dal visto per i contribuenti che conseguano specifici livelli di scoring. Tali agevolazioni sono state poi estese, in via sistematica, anche ai soggetti che aderiscono al concordato preventivo biennale (CPB), istituto disciplinato dal D.Lgs. 12 febbraio 2024, n. 13, il quale consente l’accesso a un regime concordato di determinazione dell’imponibile, fondato su parametri presuntivi e impegni dichiarativi vincolanti per il contribuente.

Ai sensi dell’articolo 19, comma 3, del citato decreto, i benefici del regime premiale, ivi incluso l’esonero dal visto di conformità, si estendono ai soggetti ISA che accettino la proposta dell’Agenzia delle Entrate relativa al CPB, indipendentemente dal punteggio di affidabilità fiscale ottenuto. Ciò comporta, in termini pratici, che l’esonero spetta per la compensazione dei crediti emergenti dai modelli REDDITI e IRAP per i periodi d’imposta 2024 e 2025, entro il limite di 50.000 euro annui per le imposte dirette e l’IRAP.

Tuttavia, la questione si complica laddove si intenda verificare se tale esonero possa essere esteso anche ai soci di società di persone (o in generale ai soggetti “trasparenti”), che si trovino a dover indicare nella propria dichiarazione personale crediti derivanti dalla partecipazione in società beneficiaria del CPB. In tal senso, la prassi amministrativa – in particolare la risposta a interpello n. 411/2019 – ha fornito chiarimenti inequivoci: l’esonero dal visto si applica esclusivamente alla dichiarazione del soggetto che integra in sé la posizione fiscale attiva nei confronti dell’erario e non può essere esteso in modo riflesso a soggetti terzi, ancorché fiscalmente collegati.

Tale impostazione si fonda sul principio secondo cui il visto di conformità non è apposto sul singolo credito, bensì sull’intera dichiarazione da cui il credito emerge. Ne deriva che, anche qualora il credito indicato nella dichiarazione del socio tragga origine da ritenute trasferite dalla società partecipata, l’obbligo del visto permane in capo al socio, qualora egli intenda utilizzare tale credito in compensazione per importi superiori a 5.000 euro. L’attribuzione del credito per trasparenza non implica una surrogazione soggettiva nell’esonero riconosciuto alla società: ciò che rileva è il profilo personale del contribuente che effettua la compensazione, non la fonte giuridico-economica del credito stesso.

In tale prospettiva, l’Agenzia delle Entrate, nella risposta a interpello n. 176203/2025, ha confermato che per il periodo d’imposta 2024 l’esonero è subordinato, oltre che all’adesione al CPB, anche a determinate soglie di affidabilità fiscale pregressa (media pari almeno a 9 nei periodi 2023 e 2024, o a 8,5 nella media biennale, o a 8 per l’anno 2024). Al di sotto di tali soglie, il limite per la fruizione dell’esonero si riduce a 20.000 euro. Si tratta di soglie il cui accertamento si compie in relazione alla posizione del contribuente interessato (persona fisica o società), e non si estendono ai soci in forza del regime di trasparenza.

La ricostruzione fornita dall’Amministrazione appare conforme ai principi sistematici di personalità dell’obbligazione tributaria e di autoresponsabilità dichiarativa. Anche nei regimi di trasparenza, infatti, la dichiarazione del socio costituisce un autonomo atto giuridico-fiscale, dal quale discende l’obbligo di conformità formale per eventuali compensazioni. La funzione del visto non è quella di certificare la legittimità della fonte del credito, bensì di attestare la veridicità e la coerenza dell’intero contenuto dichiarativo. Ne deriva che l’apposizione del visto sulla dichiarazione della società non è idonea ad assolvere il medesimo obbligo in capo al socio, la cui dichiarazione resta formalmente distinta e autonomamente rilevante.

Il principio affermato nella prassi e ribadito dalla giurisprudenza amministrativa può così sintetizzarsi: l’esonero dal visto di conformità è beneficio di natura soggettiva e personale, applicabile esclusivamente alla dichiarazione del contribuente direttamente beneficiario della condizione premiale (ISA o CPB), e non estendibile ai soci per effetto della mera partecipazione societaria o del regime di trasparenza. Qualsiasi estensione richiederebbe un’esplicita previsione normativa, in difetto della quale non può che trovare applicazione la disciplina ordinaria.

23 agosto 2025

Segreto professionale e poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria: limiti di legittimità e principio di legalità nell’ordinanza n. 17228/2025 della Corte di Cassazione

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’ordinanza n. 17228 depositata dalla Corte di Cassazione in data 26 giugno 2025 si colloca all’interno di un ambito estremamente delicato del diritto tributario: il bilanciamento tra le esigenze istruttorie dell’Amministrazione finanziaria e la tutela del segreto professionale, quale presidio inderogabile del diritto di difesa e della riservatezza del rapporto fiduciario tra professionista e cliente. La pronuncia affronta una questione paradigmatica, concernente la legittimità dell’acquisizione, da parte della Guardia di Finanza, di documentazione rinvenuta in sede di verifica fiscale presso lo studio di un avvocato, successivamente all’opposizione del segreto professionale da parte di quest’ultimo.

Nel caso di specie, i verificatori avevano acquisito un blocknotes contenente, a loro dire, riferimenti a nominativi di clienti e compensi percepiti. A seguito dell’eccezione di segreto sollevata dal professionista, veniva esibita un’autorizzazione rilasciata dalla competente Procura della Repubblica, ma temporalmente anteriore rispetto all’opposizione formale e redatta in termini generici. L’Amministrazione ha poi fondato anche su tale documento l’avviso di accertamento, determinando un contenzioso che si è protratto sino al giudizio di legittimità.

La Corte di Cassazione ha confermato la nullità dell’acquisizione documentale, ribadendo principi consolidati in materia di limiti all’operatività dei poteri accertativi in presenza del segreto professionale. In particolare, il Collegio ha affermato che, ai sensi dell’articolo 52, comma 3, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, l’acquisizione di documentazione coperta da segreto può avvenire unicamente in forza di un’autorizzazione ad hoc dell’autorità giudiziaria, rilasciata in forma specifica e successivamente all’eccezione sollevata dal professionista. Non è pertanto sufficiente una preventiva autorizzazione “in bianco”, per definizione incapace di soddisfare il requisito della specificità e della contestualità richiesti dalla norma.

Tale impostazione si pone in linea di continuità non solo con la giurisprudenza delle Sezioni Unite, ma altresì con il principio, di matrice costituzionale e convenzionale, secondo cui ogni deroga a diritti fondamentali deve essere sorretta da un presupposto normativo chiaro, proporzionato e applicato secondo modalità rigorosamente previste dalla legge. Si richiama, in particolare, il disposto dell’articolo 7-quinquies della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), il quale sancisce l’inutilizzabilità, a fini impositivi, degli elementi probatori acquisiti in violazione di legge. La norma, nel recepire una serie di principi consolidati nella giurisprudenza costituzionale e della Corte di Giustizia dell’Unione europea, conferisce rilevanza sostanziale al corretto iter procedurale quale condizione di legittimità dell’accertamento tributario.

Il segreto professionale rappresenta, in tal senso, un limite di natura sostanziale e procedurale all’esercizio dei poteri coercitivi dell’amministrazione. Esso trova fondamento non solo nell’articolo 200 del codice di procedura penale, applicabile in via analogica al procedimento tributario, ma anche nell’articolo 24 della Costituzione, che tutela il diritto alla difesa in ogni stato e grado del procedimento. Ogni intervento ablativo in tal senso deve pertanto risultare strettamente funzionale e proporzionato, non potendosi ritenere sufficiente una legittimazione preventiva e generica, inidonea a bilanciare i diritti in conflitto.

La sentenza si distingue, inoltre, per l’esplicita valorizzazione della prassi amministrativa interna alla Guardia di Finanza, che, nelle proprie direttive operative, ha più volte ribadito l’obbligo di richiesta di autorizzazione specifica per l’acquisizione di documentazione professionale in caso di opposizione. L’inosservanza di tali linee guida, come accaduto nel caso di specie, non solo inficia la legittimità dell’operato dei verificatori, ma espone l’Amministrazione a conseguenze contenziose rilevanti, sino all’annullamento dell’atto impositivo e alla condanna alle spese processuali.

L’ordinanza n. 17228/2025 si inserisce autorevolmente in un filone giurisprudenziale volto a riaffermare il primato del principio di legalità sostanziale e il carattere garantistico dell’ordinamento tributario. Essa ribadisce che i poteri istruttori dell’Amministrazione, pur funzionali al corretto esercizio dell’azione accertativa, non possono travalicare i limiti imposti dal rispetto delle garanzie fondamentali del contribuente e dei professionisti. La deroga al segreto professionale, in quanto eccezione ad un principio di ordine pubblico, deve essere interpretata in senso restrittivo e applicata nel rispetto di stringenti condizioni procedurali, onde evitare derive autoritarie incompatibili con lo Stato di diritto e la tutela effettiva dei diritti fondamentali.

23 agosto 2023

 

Discrezionalità giudiziale e sistema sanzionatorio dei licenziamenti: una riflessione sulla torsione giurisprudenziale del modello post-Jobs Act

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La più recente evoluzione interpretativa delle disposizioni in materia di licenziamento illegittimo, segnata da una sequenza di pronunce della Corte costituzionale tra il 2018 e il 2025, ha ridisegnato in modo profondo — e sotto molti aspetti problematico — l’assetto normativo delineato dal legislatore con il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, attuativo della delega contenuta nella legge n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act). L’impianto riformatore, orientato a ridurre l’incertezza applicativa e ad assicurare un più razionale bilanciamento tra tutela del lavoratore e esigenze di certezza per l’impresa, appare oggi ampiamente disarticolato. La progressiva erosione dei suoi pilastri — in particolare la predeterminazione tabellare dell’indennità risarcitoria e la marginalizzazione della tutela reintegratoria — ha condotto ad una ri-espansione del potere valutativo del giudice, accompagnata da un’accentuata imprevedibilità delle conseguenze giuridiche del recesso datoriale.

La sentenza n. 194 del 2018 ha costituito il primo, significativo intervento demolitorio, dichiarando l’illegittimità costituzionale del meccanismo di quantificazione dell’indennizzo esclusivamente ancorato all’anzianità di servizio. Secondo la Consulta, un simile criterio si risolveva in una liquidazione forfetizzata del danno, tale da omologare situazioni tra loro disomogenee e precludere una valutazione calibrata sulla gravità del vizio del licenziamento. La rigidità del parametro legale veniva così giudicata incompatibile con i principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui agli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione, in quanto precludeva un apprezzamento giudiziale delle circostanze concrete del caso.

Successivamente, con la sentenza n. 118 del 2025, la Corte ha ulteriormente inciso sulla coerenza del sistema sanzionatorio, ritenendo costituzionalmente illegittimo il tetto massimo di sei mensilità previsto per i lavoratori illegittimamente licenziati da imprese minori. La previsione, contenuta nel Jobs Act e applicabile ai rapporti instaurati successivamente al 7 marzo 2015, impediva ogni modulazione giudiziale dell’indennità in funzione della gravità della condotta datoriale o del pregiudizio subito dal lavoratore. La Consulta ha così imposto l’applicazione, anche in tali ipotesi, di un range più ampio (tra tre e diciotto mensilità), sottraendo definitivamente la quantificazione del risarcimento a ogni vincolo predeterminato e rafforzando la discrezionalità del giudice quale criterio ordinante del sistema.

Non meno incisiva è la linea interpretativa tracciata dalle decisioni relative alla tutela reale. La sentenza n. 22 del 2024 ha riconosciuto l’operatività della reintegra non solo nei casi in cui la nullità del licenziamento sia espressamente prevista dalla legge, ma anche in tutte le ipotesi in cui tale nullità sia desumibile da una violazione di norme imperative. Tale ricostruzione, pur formalmente coerente con il dettato dell’articolo 1418, comma 1, del codice civile, determina un’incertezza strutturale circa l’ambito applicativo della sanzione reintegratoria, poiché apre la porta a interpretazioni estensive e variabili in funzione della sensibilità del singolo giudicante.

La sentenza n. 128 del 2024 ha, dal canto suo, esteso l’applicazione della tutela reale attenuata anche ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, in presenza di comprovata insussistenza del presupposto economico-organizzativo addotto dal datore di lavoro. Tale orientamento ha formalmente equiparato il regime sanzionatorio tra recesso disciplinare e recesso per giustificato motivo oggettivo, superando l’impianto del Jobs Act che riservava alla sola ipotesi disciplinare l’applicabilità della reintegra attenuata.

In materia di licenziamento disciplinare, infine, la pronuncia n. 129 del 2024 ha sancito la spettanza della tutela reintegratoria qualora il fatto contestato, pur esistente, risulti sanzionato dalla contrattazione collettiva con una misura conservativa. Ciò implica, in sostanza, che l’operatore giudiziale debba procedere ad un’interpretazione estensiva del contenuto e del perimetro applicativo del codice disciplinare, anche in presenza di clausole generiche o indeterminate. In tal modo, la valutazione della proporzionalità del licenziamento è nuovamente ricondotta alla discrezionalità del giudice, a discapito della funzione regolativa della contrattazione collettiva.

Il quadro normativo che emerge da tale stratificazione giurisprudenziale risulta dunque caratterizzato da una progressiva decostruzione dell’apparato sanzionatorio delineato nel 2015 e da un ritorno, per molti versi disordinato, a una configurazione giurisprudenziale di tipo casistico. Ciò determina una frammentazione delle tutele, una riduzione della prevedibilità giuridica e una compressione del principio di legalità sostanziale, con effetti distorsivi tanto per i lavoratori quanto per le imprese. Né si può trascurare il rischio, già segnalato in dottrina, di una perdita di certezza del diritto che mina la fiducia nell’ordinamento e ostacola l’attrattività del sistema produttivo nazionale.

Alla luce di tali considerazioni, si impone un rinnovato intervento del legislatore che, pur tenendo conto dei vincoli derivanti dal giudicato costituzionale, persegua l’obiettivo di una ristrutturazione coerente ed efficace del sistema delle sanzioni in caso di licenziamento illegittimo. In tale prospettiva, la valorizzazione del rimedio indennitario, accompagnata da una tipizzazione delle fattispecie di reintegra e da una codificazione rigorosa dei criteri di quantificazione del danno, rappresenta una via d’uscita necessaria per ripristinare un quadro normativo ispirato ai principi di certezza, prevedibilità e proporzionalità, in linea con gli standard dello Stato di diritto e con le esigenze dell’economia contemporanea.

23 agosto 2025