Locazione della cosa comune e diritto soggettivo dei condomini: tra autonomia gestionale e limiti giuridici

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

Nel panorama del diritto delle comunioni edilizie, la disciplina dell’uso dei beni comuni da parte dei singoli condomini rappresenta uno dei nodi interpretativi più densi di implicazioni giuridiche e applicative. La sentenza n. 12930/2025 del Tribunale di Roma si inserisce in questo contesto, offrendo un’ulteriore conferma dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’assemblea condominiale non può legittimamente deliberare l’attribuzione in godimento esclusivo di una parte comune a favore di uno solo dei partecipanti alla comunione, qualora tale bene sia suscettibile di fruizione diretta da parte di tutti i condomini, secondo modalità regolamentate e compatibili con la natura del bene.

La fattispecie decisa trae origine dall’impugnazione di due delibere assembleari con le quali il condominio aveva, dapprima, approvato la proposta di un condomino volta a ottenere la locazione del terrazzo condominiale per un periodo annuale, dietro pagamento di un corrispettivo mensile, e, successivamente, autorizzato la sottoscrizione del relativo contratto. La ricorrente ha dedotto l’illegittimità di tali deliberazioni per violazione del diritto di ciascun condomino al godimento diretto del bene comune, in contrasto con quanto previsto dall’articolo 6, lettera C, del regolamento condominiale, che disciplina espressamente le modalità di fruizione del terrazzo, prevedendone l’utilizzo da parte di tutti i condomini, anche in forma esclusiva e temporanea, previa prenotazione e pagamento di un contributo.

Il Tribunale ha accolto il ricorso, ritenendo fondata la censura mossa in ordine alla violazione delle regole codicistiche e regolamentari che presiedono alla gestione dei beni comuni. La motivazione si fonda su un principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui il godimento indiretto della cosa comune – nella forma della locazione – può essere deliberato a maggioranza soltanto allorché risulti impraticabile l’utilizzazione diretta del bene da parte di tutti i condomini, secondo un criterio di alternanza o di frazionamento proporzionale. Tale principio, come affermato in plurime pronunce di legittimità (cfr. Cass. 27 ottobre 2011, n. 22435; Cass. 12 giugno 2023, n. 16557), costituisce espressione del bilanciamento tra il potere dispositivo dell’assemblea e i diritti individuali dei partecipanti alla comunione, tutelati ex articolo 1102 cod. civ.

Nel caso in esame, la possibilità per ciascun condomino di accedere al terrazzo condominiale in via diretta, come previsto dal regolamento, rendeva incompatibile con l’ordinamento la deliberazione assembleare che, in assenza del consenso unanime, ne disponeva l’uso esclusivo e protratto a favore di un solo soggetto. L’assemblea, pur espressione dell’autonomia collettiva del condominio, non può alterare la destinazione funzionale del bene comune né espropriare i singoli del diritto di uso conforme alla sua natura e alla sua regolamentazione.

L’importanza della pronuncia si coglie altresì nell’affermazione, sia pure implicita, del valore cogente del regolamento condominiale, la cui portata precettiva si impone all’assemblea anche laddove essa operi con maggioranze qualificate. La funzione del regolamento, quale fonte di disciplina secondaria integrativa rispetto alla normativa codicistica, risulta dunque rafforzata nella sua capacità di vincolare l’autonomia dispositiva dell’organo assembleare, in quanto espressione della volontà pattizia dei condomini.

La sentenza si pone pertanto nel solco di una interpretazione che tutela il principio di pari accesso ai beni comuni, garantendo una gestione del condominio rispettosa dei diritti individuali e dei limiti posti all’esercizio collettivo della sovranità assembleare. L’annullamento delle delibere impugnate, con la conseguente condanna del condominio al rimborso delle spese processuali, rafforza il ruolo centrale del giudice nella composizione dei conflitti endocondominiali e nella salvaguardia dell’equilibrio tra interessi individuali e collettivi nella gestione delle res communi.

8 ottobre 2025

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L’uso delle parti comuni in condominio e l’installazione di impianti fotovoltaici: profili di liceità e limiti ex art. 1102 c.c.

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La sentenza n. 193/2025 del Tribunale di Rovereto, emessa in composizione monocratica, si inserisce nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale concernente i limiti all’uso individuale della cosa comune nell’ambito della comunione ordinaria e del condominio, con particolare riferimento all’installazione di impianti fotovoltaici su beni condominiali. La decisione offre spunti di riflessione significativi circa l’equilibrio tra il diritto del singolo alla fruizione del bene comune in funzione delle proprie esigenze e l’esigenza di tutela delle posizioni giuridiche soggettive degli altri partecipanti alla comunione.

Il caso di specie trae origine dalla realizzazione, da parte di un condomino, di un impianto fotovoltaico composto da tredici moduli, installato sulle falde del tetto di un edificio costituito in comunione, il quale ha occupato quasi integralmente le superfici tecnicamente idonee all’installazione di analoghi impianti da parte degli altri compartecipi. Gli altri comunisti, ritenendo che tale condotta determinasse una lesione del proprio diritto ad un uso paritetico del bene comune, hanno adito l’autorità giudiziaria chiedendo, in via principale, la rimessione in pristino del tetto mediante la rimozione dell’impianto, ovvero, in subordine, la sua riduzione entro i limiti della quota ideale del responsabile.

Nell’ambito della propria motivazione, il Tribunale affronta, in primo luogo, le questioni di rito sollevate dal convenuto, tra cui l’eccezione di improcedibilità per omesso esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione, la presunta nullità della domanda per incertezza dell’oggetto e la mancata integrazione del contraddittorio per litisconsorzio necessario. Con argomentazione coerente con l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, il giudice esclude la sussistenza di un litisconsorzio necessario tra tutti i condomini in un’azione tesa a far cessare l’uso illecito della cosa comune da parte di uno di essi, richiamando l’insegnamento secondo cui la rimessione in pristino non incide sulla titolarità del bene comune, ma sul suo uso, e pertanto non comporta una modifica dei diritti dominicali degli altri partecipanti.

Parimenti, l’omesso esperimento della mediazione obbligatoria nei confronti di tutti i comunisti non determina l’improcedibilità dell’azione, trattandosi di una legittimazione autonoma dei singoli comunisti a far valere la violazione del proprio diritto di comproprietà. Infine, quanto alla doglianza relativa alla pretesa indeterminatezza dell’oggetto del contendere, il Tribunale la supera valorizzando la natura meramente materiale dell’errore di indicazione catastale e rilevando la sufficiente determinabilità dell’oggetto della domanda mediante gli allegati documentali prodotti.

Sul piano sostanziale, la decisione si distingue per una lettura sistematica e bilanciata del combinato disposto degli artt. 1102 e 1122-bis cod. civ.. In particolare, viene ribadito che l’installazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità immobiliari è ammessa sulle parti comuni, in forza della disposizione di cui all’art. 1122-bis, comma 2, cod. civ., purché ciò non comporti una lesione dei diritti degli altri condomini, sia quanto all’uso del bene, sia quanto alla sua destinazione. La norma citata esclude espressamente la necessità di autorizzazione assembleare, salvo il caso in cui l’intervento modifichi le parti comuni, nel qual caso l’interessato è tenuto a darne comunicazione all’amministratore, il quale potrà richiedere garanzie o proporre modalità alternative di realizzazione.

Nel caso de quo, pur riconoscendosi la liceità in astratto dell’intervento eseguito, è stata accertata, sulla base delle risultanze peritali, un’occupazione pressoché integrale delle superfici utili alla installazione di impianti fotovoltaici, tanto da rendere impossibile agli altri comunisti un uso analogo del bene comune. Il giudice ha ritenuto che tale uso totalizzante e preclusivo configuri una violazione dell’art. 1102 cod. civ., che, pur consentendo un uso più intenso del bene comune, lo ammette solo se non sia escluso l’analogo godimento da parte degli altri comunisti.

Significativa è la soluzione individuata per ristabilire l’equilibrio tra le posizioni soggettive: in luogo della rimessione integrale in pristino, è stata ordinata la riduzione dell’impianto da tredici a otto moduli, così da consentire la futura installazione di impianti autonomi a uso domestico da parte di altri due comunisti, secondo la configurazione tecnica più razionale individuata dal consulente tecnico d’ufficio. Tale scelta testimonia un approccio funzionale alla gestione del bene comune, orientato alla massimizzazione della sua utilitas e alla prevenzione di conflitti futuri, mediante una ripartizione equa e concreta delle risorse.

La domanda relativa alla rimozione della canaletta di cablaggio, fondata sull’asserita invasione della proprietà esclusiva, è stata respinta per difetto di prova, essendo stato accertato che essa insiste esclusivamente su parti comuni. Ulteriori allegazioni, prospettate per la prima volta in sede di comparse conclusionali, sono state ritenute inammissibili per violazione del principio del contraddittorio.

Quanto al regime delle spese processuali, il Tribunale ha applicato il principio della soccombenza reciproca, disponendo la compensazione per un terzo e condannando il convenuto al pagamento dei residui due terzi, comprensivi delle spese della mediazione obbligatoria, qualificata come spesa processuale a tutti gli effetti, in conformità alla recente pronuncia della Corte di Cassazione (Cass., sez. III, n. 32306/2023). Analoga ripartizione è stata effettuata in ordine alle spese della consulenza tecnica d’ufficio, in base ai rapporti interni tra le parti, con salvezza della solidarietà esterna nei confronti del consulente.

La sentenza analizzata si configura quale applicazione coerente dei principi fondanti il regime della comunione, espressi in primis dall’art. 1102 cod. civ., in chiave evolutiva e sistemica, non disgiunta da una lettura pragmatica delle esigenze tecnologiche ed energetiche contemporanee. Il bilanciamento tra il diritto individuale all’efficientamento energetico e la tutela del pari uso del bene comune da parte degli altri comunisti è condotto nel rispetto delle coordinate ermeneutiche offerte dalla giurisprudenza di legittimità e dalla normativa vigente in materia condominiale.

Appare dunque evidente che la realizzazione di impianti fotovoltaici in ambito condominiale, pur incentivata dal legislatore e compatibile con l’evoluzione sostenibile del patrimonio edilizio, deve confrontarsi con i principi fondamentali della comunione e del rispetto della funzione del bene comune, pena la nullità o l’inefficacia degli atti posti in essere in violazione di tali criteri. L’equilibrio fra utilitas individuale e collettiva resta il fulcro della legittimità degli interventi sul bene comune, anche alla luce delle nuove esigenze imposte dalla transizione ecologica.

6 ottobre 2025

L’estensione della responsabilità ai soci di società estinta: profili ricostruttivi alla luce della sentenza n. 11651/2025 della Corte di Giustizia di Primo Grado di Roma

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La pronuncia della Corte di Giustizia di primo grado di Roma, depositata il 28 agosto 2025, si inserisce nel quadro interpretativo concernente la sorte delle obbligazioni tributarie non estinte in capo a una società cancellata dal registro delle imprese e, più in particolare, la possibilità di imputazione delle medesime in capo ai soci estinti per effetto della liquidazione. In tale ambito, la sentenza n. 11651/2025 riafferma l’orientamento secondo cui, in ipotesi di attribuzione patrimoniale al socio, ancorché fondata su crediti ancora non riscossi, sussiste una responsabilità personale del medesimo nei limiti del valore attribuito, in applicazione combinata dell’art. 36 del d.P.R. n. 602/1973 e dell’art. 2495 c.c.

La fattispecie oggetto di decisione vedeva quale parte ricorrente un ex socio di una società a responsabilità limitata cancellata nel 2016, destinatario di una cartella di pagamento emessa dall’amministrazione finanziaria nel 2024, avente ad oggetto obbligazioni tributarie originariamente riferibili alla società stessa. L’interessato eccepiva, tra l’altro, l’omessa notificazione del titolo presupposto, l’intervenuta prescrizione del credito e la carenza di presupposti per l’imputazione soggettiva del debito in capo al socio, in quanto – secondo la ricostruzione difensiva – alcun importo materiale sarebbe stato effettivamente percepito in sede di liquidazione, né vi sarebbe stata alcuna ripartizione di somme riconducibili al credito oggetto della cartella impugnata.

L’organo giudicante ha rigettato integralmente le doglianze del ricorrente, valorizzando la circostanza, documentalmente provata, secondo cui il credito tributario in contestazione risultava iscritto nel bilancio finale di liquidazione della società, quale posta attiva. Sebbene lo stesso non fosse ancora stato oggetto di riscossione al momento della cancellazione, l’attribuzione pro quota ai soci del relativo valore – in sede contabile – è stata ritenuta sufficiente ad integrare un’ipotesi di distribuzione patrimoniale rilevante ai sensi dell’art. 2495 c.c., in quanto idonea a determinare un vantaggio economico immediatamente riferibile al socio. La responsabilità personale è stata, dunque, ancorata non alla percezione materiale delle somme, bensì all’effetto giuridico derivante dall’attribuzione patrimoniale effettuata in sede di scioglimento.

L’impostazione della pronuncia appare coerente con l’evoluzione interpretativa della giurisprudenza di legittimità, la quale ha avuto modo di chiarire come la cancellazione della società non comporti di per sé l’estinzione delle obbligazioni insoddisfatte, le quali possono essere oggetto di azione da parte dei creditori sociali nei confronti dei soci estinti, entro i limiti di quanto dagli stessi ricevuto in sede di riparto. Non è, dunque, la titolarità originaria del debito a fondare la responsabilità personale, bensì l’arricchimento patrimoniale correlato alla fase liquidatoria.

A tal proposito, si osserva che la giurisprudenza prevalente, pur nella varietà delle soluzioni interpretative, ha riconosciuto l’estensione soggettiva della legittimazione passiva ai soci beneficiari di beni, somme o crediti attribuiti in sede di liquidazione, anche se tali valori non siano stati ancora materialmente riscossi al momento della cancellazione dell’ente. In questa prospettiva, si è precisato che il principio di responsabilità limitata tipico delle società di capitali trova un limite nella fase finale della vita societaria, laddove l’estinzione dell’ente non elide la possibilità per i creditori insoddisfatti di agire in via sussidiaria nei confronti dei soci beneficiari del residuo attivo.

Il dato cruciale, ai fini dell’affermazione della responsabilità, è rappresentato dalla prova della distribuzione patrimoniale operata in favore dei soci. La giurisprudenza ha in più occasioni ritenuto che tale prova possa desumersi non soltanto dalla materiale attribuzione di beni, ma anche dall’indicazione contabile nel bilancio finale di poste attive attribuite pro quota ai soci, quand’anche non ancora monetizzate. In tal senso, si è valorizzata una nozione sostanziale di attribuzione patrimoniale, intesa come assegnazione di un valore economicamente rilevante suscettibile di soddisfare, almeno potenzialmente, le pretese dei creditori.

Sotto il profilo sistematico, la sentenza in commento si fonda su una lettura integrata dell’art. 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973, che disciplina l’azione esecutiva nei confronti dei soci, e dell’art. 2495 c.c., norma cardine in tema di responsabilità post-estintiva. Tale coordinamento normativo impone di considerare che, una volta cancellata la società, i creditori insoddisfatti possono agire nei confronti dei soci nei limiti di quanto dagli stessi ricevuto in sede di riparto finale. Ne deriva che, qualora venga provato un vantaggio patrimoniale, anche solo potenziale o contabile, riferibile al credito contestato, il socio può essere chiamato a rispondere nei confronti dell’amministrazione finanziaria.

La pronuncia conferma, infine, l’irrilevanza dell’eventuale mancata riscossione del credito al momento della liquidazione, sottolineando che il mero fatto che lo stesso sia stato iscritto nel bilancio finale come posta attiva comporta l’obbligo per il socio di rispondere nei limiti della quota di tale attribuzione, a nulla rilevando che la somma non fosse ancora disponibile o immediatamente esigibile.

Il principio affermato dalla Corte di Giustizia di Primo Grado di Roma appare in linea con l’impostazione sostanzialistica che governa la materia della responsabilità post-estintiva dei soci, ponendo l’accento sul nesso funzionale tra attribuzione patrimoniale e obbligazione residua, e confermando che la cancellazione della società non può essere utilizzata quale strumento elusivo per sottrarsi agli obblighi verso l’erario. In tale prospettiva, il bilancio finale di liquidazione assume valore centrale nella ricostruzione dell’assetto patrimoniale post-estintivo e costituisce il parametro di riferimento per la determinazione della responsabilità individuale del socio.

6 ottobre 2025