Accessi domiciliari e nullità dell’autorizzazione motivata per relationem: vincoli procedurali e limiti probatori nell’accertamento tributario

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’ordinanza n. 25049 dell’11 settembre 2025, pronunciata dalla Sezione Tributaria Civile della Corte di Cassazione, rappresenta un rilevante snodo giurisprudenziale in materia di accessi domiciliari a fini fiscali, riaffermando in modo incisivo il principio di legalità e il rispetto delle garanzie costituzionali in sede di accertamento tributario. La pronuncia si inserisce nel contesto di un procedimento volto alla verifica della legittimità di un avviso di accertamento fondato su documentazione acquisita mediante accesso presso un immobile ad uso abitativo, in assenza di una motivazione adeguata dell’autorizzazione rilasciata dal pubblico ministero.
La Corte ha osservato che l’art. 52, comma 2, del D.P.R. 633/1972, applicabile anche alle imposte sui redditi per effetto del rinvio operato dall’art. 33 del D.P.R. 600/1973, subordina l’accesso nei locali adibiti ad uso abitativo alla presenza di “gravi indizi di violazioni delle norme tributarie”. Tale presupposto costituisce condizione sostanziale della legittimità del procedimento di accertamento e trova fondamento nei principi costituzionali di inviolabilità del domicilio e di legalità dell’azione amministrativa. L’autorizzazione rilasciata dal pubblico ministero, ancorché qualificabile come atto amministrativo, è suscettibile di sindacato giurisdizionale sotto il profilo della congruità e della coerenza della motivazione, nonché della effettiva esistenza dei presupposti legittimanti.
La specificità della fattispecie esaminata attiene alla motivazione “per relationem” dell’autorizzazione, fondata su una nota dell’organo accertatore. La Suprema Corte ha riaffermato che tale forma motivazionale è ammissibile solo ove la nota venga prodotta in giudizio, così da consentire al giudice tributario di apprezzarne la reale idoneità a fondare i gravi indizi richiesti dalla normativa. In difetto di tale produzione documentale, si configura la nullità dell’autorizzazione e, per il principio di inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita, anche dell’atto impositivo fondato su essa. Tale ricostruzione sistematica si pone in linea con i principi espressi dalla Corte costituzionale e con l’evoluzione giurisprudenziale della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale ha reiteratamente sottolineato la necessità di una tutela rafforzata del contribuente in caso di ispezioni e verifiche che incidano sul domicilio, inteso quale ambito privilegiato di libertà personale.
L’efficacia dirompente di tale principio discende dalla qualificazione dell’autorizzazione come atto prodromico all’attività di controllo, la cui legittimità sostanziale condiziona la validità degli atti conseguenti. In tal senso, il giudice tributario è tenuto ad accertare non solo la presenza formale dell’autorizzazione, ma anche la sua effettiva consistenza giuridica, dovendo riscontrare l’esistenza e la rilevanza degli elementi indiziari su cui si fonda il provvedimento. L’apprezzamento di tali elementi non può ridursi a un controllo meramente formale, ma deve estendersi alla verifica della coerenza logico-giuridica della motivazione, anche se espressa in forma sintetica o indiretta.
La pronuncia si distingue anche per aver riaffermato l’obbligo, a carico dell’amministrazione finanziaria, di rispettare il contraddittorio procedimentale, ai sensi dell’art. 12, comma 7, della Legge 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), con particolare riferimento alle ipotesi di accertamento “misto”, ossia fondato anche su documentazione acquisita mediante accesso, ispezione o verifica presso i locali del contribuente. La norma citata prevede un termine dilatorio di sessanta giorni tra la consegna del processo verbale di chiusura delle operazioni di verifica e l’emissione dell’avviso di accertamento, salvo i casi eccezionali di urgenza motivata. La violazione di tale disposizione determina la nullità dell’atto impositivo, a tutela del diritto del contribuente ad interloquire con l’amministrazione prima della formalizzazione della pretesa fiscale.
Di particolare rilievo appare anche l’affermazione secondo cui la natura invasiva dell’accesso domiciliare impone un rigoroso scrutinio ex ante dei presupposti giustificativi da parte del pubblico ministero e, successivamente, del giudice tributario. L’inidoneità della motivazione ovvero la mancata allegazione degli atti su cui essa si fonda comportano l’inutilizzabilità delle prove così acquisite, secondo un principio immanente all’intero sistema giuridico, e non limitato al solo ambito penale. L’inutilizzabilità, infatti, discende dalla violazione di un presupposto procedurale essenziale, la cui mancanza vizia radicalmente l’intera sequenza procedimentale.
L’ordinanza si colloca dunque in una prospettiva sistematica volta a rafforzare le garanzie del contribuente nei confronti del potere accertativo dell’amministrazione, sancendo che la legittimità dell’accesso domiciliare non può prescindere dalla verifica giudiziale della sussistenza di gravi indizi di violazione fiscale e della correttezza dell’apprezzamento operato dal pubblico ministero. L’onere di allegazione della documentazione a fondamento dell’autorizzazione ricade sull’amministrazione che intenda avvalersene in giudizio, e la sua omissione produce effetti caducatori non solo sull’autorizzazione stessa, ma anche su tutti gli atti che da essa traggono origine.
Tale orientamento assume portata sistemica, ponendosi quale riferimento imprescindibile per l’interprete chiamato ad operare un bilanciamento tra le esigenze di tutela dell’interesse erariale e i diritti fondamentali del contribuente. Si consolida, in tal modo, un modello di processo tributario improntato ai principi di proporzionalità, legalità e trasparenza, nel quale l’attività di controllo deve svolgersi in un contesto di piena garanzia per il soggetto sottoposto a verifica.

24 settembre 2025

Riconduzione a congruità e validità dei contratti di locazione non registrati: profili sistematici e applicazioni giurisprudenziali

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La recente ordinanza n. 15891/2025 della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione affronta, con rigore ermeneutico e coerenza sistematica, una tematica di particolare delicatezza in materia di contratti di locazione ad uso abitativo: la sorte giuridica dei contratti stipulati in forma scritta ma privi di registrazione, antecedentemente all’introduzione dell’art. 1, comma 346, della legge n. 311 del 2004. Tale ordinanza si inserisce nel quadro di una progressiva e significativa evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha condotto, con la legge n. 208 del 2015, ad un ripensamento sostanziale della disciplina applicabile, culminando nella riformulazione dell’art. 13 della legge n. 431 del 1998.

Nel contesto pre-2016, l’omessa registrazione di un contratto di locazione, stipulato anteriormente all’entrata in vigore della suddetta legge finanziaria del 2004, pur costituendo una violazione di natura fiscale, non determinava ex se l’invalidità del contratto ai fini civilistici. Infatti, in base al principio tempus regit actum, la previsione di nullità introdotta con la legge n. 311/2004 non poteva trovare applicazione retroattiva. Tuttavia, la novella del 2015 ha introdotto un meccanismo sanzionatorio e riequilibratore che prescinde dal profilo della nullità, prevedendo la cd. “riconduzione a congruità” del canone nei casi in cui il contratto, ancorché redatto per iscritto e non simulato, non sia stato registrato.

La Suprema Corte chiarisce, in via definitiva, che tale meccanismo è applicabile anche ai contratti stipulati in epoca antecedente al 1° gennaio 2016, purché ancora pendenti a tale data. La riconduzione a congruità, prevista dall’art. 13, comma 6, della legge n. 431/1998 come modificato, si traduce nella possibilità per il giudice di determinare ex officio il canone dovuto, con l’unico limite dell’importo minimo previsto dagli accordi locali sottoscritti dalle associazioni rappresentative della proprietà edilizia e degli inquilini.

La valenza sistematica di tale ricostruzione è duplice: da un lato, essa consente di superare l’impasse derivante dalla difficoltà di far valere la nullità del contratto per la sola omissione della registrazione in epoca antecedente al 2005; dall’altro, essa riconosce una tutela sostanziale al conduttore, che non si vede integralmente privato dei propri diritti patrimoniali, ma può ottenere la rideterminazione del canone entro parametri legali.

L’orientamento tracciato valorizza in modo deciso la funzione pubblicistica degli accordi territoriali, i quali assumono il ruolo di parametro vincolante non solo per i contratti esplicitamente qualificati come “a canone concordato”, ma anche per quelli stipulati come “a canone libero” ma successivamente rientranti nell’ambito applicativo dell’art. 13, comma 6, per effetto della mancata registrazione. Ne consegue che, in sede giudiziale, la volontà delle parti, pur formalmente manifestata in un contesto negoziale apparentemente libero, viene sottoposta ad un vaglio di congruità sostanziale volto a reprimere condotte elusive e a tutelare l’equilibrio sinallagmatico del rapporto.

Tale evoluzione normativa, pur non essendo esplicitamente qualificata come retroattiva, produce effetti sostanzialmente retroattivi nella misura in cui si applica a contratti stipulati anteriormente, purché ancora in corso al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina. Questa scelta legislativa trova giustificazione nella esigenza di contrastare fenomeni di elusione sistematica dell’obbligo di registrazione, considerata non solo come adempimento fiscale, ma come presupposto indefettibile per l’operatività piena del regime civilistico delle locazioni abitative.

L’ordinanza n. 15891/2025 segna un punto fermo nell’elaborazione giurisprudenziale in tema di contratti di locazione non registrati, conferendo centralità al principio della registrazione come condizione sostanziale di efficacia e non più come mero requisito formale. Il giudice civile assume un ruolo centrale quale garante dell’equilibrio contrattuale e della legalità sostanziale, operando un controllo sul canone in funzione non solo di tutela del conduttore, ma anche di presidio della corretta applicazione della normativa vigente. La decisione impone, pertanto, una revisione critica delle prassi locatizie, sollecitando gli operatori del diritto ad una maggiore attenzione nell’assicurare la conformità dei contratti alle disposizioni imperative poste a presidio dell’ordine pubblico economico.

24 settembre 2025

La Corte costituzionale e la tutela risarcitoria nei licenziamenti illegittimi nelle imprese sotto soglia: la declaratoria di illegittimità del limite massimo delle sei mensilità (sentenza n. 118/2025)

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La sentenza n. 118 del 2025 della Corte costituzionale costituisce un intervento di portata sistematica e di particolare rilievo nell’ambito della disciplina delle conseguenze giuridiche del licenziamento illegittimo nel contesto dei contratti di lavoro a tempo indeterminato soggetti al regime delle cosiddette «tutele crescenti», introdotto dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23. Con tale pronuncia, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 9, comma 1, del menzionato decreto, limitatamente alla previsione secondo cui l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore illegittimamente licenziato da un datore di lavoro che non raggiunga i requisiti dimensionali ex art. 18, commi ottavo e nono, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori) «non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità».
Il dictum della Corte si inserisce nel solco di un percorso giurisprudenziale che si è venuto progressivamente consolidando e che pone al centro dell’analisi la coerenza costituzionale delle norme che disciplinano le tutele sanzionatorie avverso i licenziamenti nulli o comunque viziati da illegittimità sostanziale o procedimentale. Già con la sentenza n. 183 del 2022, la Corte aveva evidenziato la problematicità sistemica dell’art. 9 del d.lgs. n. 23/2015, in quanto espressione di un modello normativo ancorato a criteri rigidi e stereotipati, inidonei a garantire una tutela effettiva, adeguata e proporzionata, conforme al principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 Cost.
Il legislatore, nel prevedere un tetto massimo inderogabile di sei mensilità di retribuzione utile ai fini del trattamento di fine rapporto, ha delineato una forma di risarcimento connotata da automatismo e rigidità, insuscettibile di adattarsi alle specificità della fattispecie concreta, con l’effetto di vanificare ogni tentativo di personalizzazione del danno subito dal prestatore di lavoro illegittimamente estromesso. Siffatto meccanismo risarcitorio standardizzato si è rivelato, nella prassi applicativa, non solo inadeguato sotto il profilo compensativo, ma anche privo di qualsivoglia efficacia deterrente nei confronti del datore di lavoro, riducendo l’illecito espulsivo a una mera opzione economica.
La Consulta, pur ribadendo l’ampia discrezionalità normativa del legislatore nella scelta delle misure sanzionatorie in materia di licenziamenti, ha tuttavia precisato che tale discrezionalità incontra limiti invalicabili nei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e nelle obbligazioni internazionali assunte dallo Stato italiano. In particolare, la pronuncia ha individuato una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea (CSE), che riconosce al lavoratore licenziato senza giusta causa il diritto a un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione. Tale parametro, ormai consolidato nella giurisprudenza costituzionale come criterio interposto, impone un livello minimo di tutela effettiva, che non può essere disatteso neppure in nome della libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.).
Di particolare interesse risulta l’affermazione della Corte secondo cui il criterio dimensionale (ossia il numero dei dipendenti impiegati) non può rappresentare l’unico e determinante indicatore della capacità economica del datore di lavoro, soprattutto in un contesto produttivo fortemente caratterizzato da trasformazioni tecnologiche e da una crescente eterogeneità dei modelli organizzativi. Tale impostazione risulta coerente con i criteri europei in materia di classificazione delle imprese (cfr. raccomandazione 2003/361/CE e direttiva delegata 2023/2775/UE), che affiancano al parametro occupazionale quelli relativi al volume d’affari e al totale di bilancio.
La decisione della Corte si segnala, altresì, per la sua funzione sistematica di stimolo all’attività legislativa. Nel rinnovare l’invito a un intervento normativo di riordino, la Consulta richiama la necessità di un bilanciamento non meramente formale, bensì sostanziale, tra la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato e la sostenibilità economica per il datore di lavoro, anche attraverso l’adozione di criteri flessibili e multifattoriali, capaci di riflettere la reale consistenza economico-organizzativa dell’impresa.
La sentenza n. 118/2025 si configura come una pronuncia dal forte impatto ordinamentale, che riafferma l’inderogabilità dei principi di effettività, proporzionalità e adeguatezza delle tutele giuridiche nei confronti del licenziamento illegittimo, anche nei confronti di datori di lavoro di minori dimensioni. Essa segna una tappa decisiva nel processo di progressiva costituzionalizzazione del diritto del lavoro, imponendo un modello sanzionatorio che, pur nel rispetto della libertà economica, non trascuri la centralità della persona del lavoratore quale soggetto portatore di diritti fondamentali inviolabili.

22 settembre 2025