L’amministratore e la responsabilità penale per dichiarazioni fraudolente: il rilievo decisivo della titolarità attuale della funzione dichiarativa

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’ordinanza n. 25455 del 2025, recentemente pronunciata dalla Corte di Cassazione, offre una significativa occasione di riflessione sul perimetro soggettivo e temporale della responsabilità penale in materia di dichiarazioni fraudolente fondate sull’utilizzo di documentazione fiscalmente artefatta, in particolare le c.d. false fatture. L’intervento del Supremo Collegio si colloca nel solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale, riaffermando principi cardine del diritto penale tributario, e apporta ulteriori chiarimenti di ordine sistematico sulla corretta identificazione del soggetto attivo del reato in questione.

La questione centrale affrontata attiene alla qualificazione soggettiva dell’autore del delitto previsto dall’art. 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, nella specifica ipotesi in cui vi sia un avvicendamento nella compagine amministrativa della società contribuente. In particolare, viene esclusa qualsiasi forma di responsabilità penale in capo al soggetto che abbia cessato dalle funzioni di amministratore anteriormente al deposito della dichiarazione fiscale fraudolenta, anche qualora questi abbia partecipato, in epoca antecedente, alla gestione documentale e contabile prodromica all’illecito dichiarativo. Di converso, si afferma la piena responsabilità in capo all’amministratore in carica al momento della sottoscrizione della dichiarazione mendace, individuato quale unico soggetto legittimamente destinatario dell’obbligo giuridico di dichiarazione.

La ricostruzione dogmatica accolta dalla Corte si fonda sull’individuazione del reato di cui all’art. 2 del D.lgs. n. 74/2000 come reato proprio, la cui realizzazione presuppone che l’agente rivesta una particolare qualifica soggettiva, non meramente formale, ma sostanziale, consistente nell’effettiva titolarità dell’obbligo dichiarativo. In tale prospettiva, si ribadisce che non rileva la semplice predisposizione o registrazione contabile delle fatture oggettivamente inesistenti, bensì esclusivamente la presentazione della dichiarazione fiscale contenente tali elementi fittizi. La consumazione del reato si verifica, infatti, con la trasmissione della dichiarazione infedele, la quale rappresenta il momento topico di esternazione della volontà fraudolenta e consente l’integrazione dell’elemento oggettivo del reato.

Ne consegue che l’imputabilità penale non può che gravare sul soggetto che, al momento del deposito della dichiarazione, risulta formalmente investito della funzione amministrativa, ovvero la esercita de facto in modo continuativo, sistematico e non meramente occasionale. La Corte esclude, altresì, ogni rilevanza penale per la posizione di chi, pur avendo esercitato precedentemente un ruolo gestionale, abbia cessato dalla funzione senza essere intervenuto nella fase di presentazione della dichiarazione fraudolenta.

La pronuncia in esame valorizza, con particolare rigore, la distinzione tra le condotte preparatorie interne all’organizzazione aziendale, che restano irrilevanti ove non sfocino nell’atto dichiarativo, e l’effettivo compimento dell’illecito penalmente rilevante, individuato nella dichiarazione mendace resa all’Amministrazione finanziaria. In tal senso, si rafforza l’idea secondo cui l’elemento temporale della titolarità della carica costituisce requisito strutturale della responsabilità penale, e non mera connotazione accidentale.

Questa impostazione si colloca in piena coerenza con i principi di legalità e personalità della responsabilità penale sanciti, rispettivamente, dagli artt. 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione, nonché con il principio di offensività, in quanto l’effettivo disvalore giuridico del fatto si manifesta solo con la presentazione della dichiarazione falsa, e non con le fasi preparatorie che, in assenza di tale atto, resterebbero penalmente inerti.

La Corte, peraltro, compie una rilettura evolutiva della disciplina già delineata dalla giurisprudenza antecedente, a partire dalla sentenza n. 516 del 1989, ampliando e precisando l’ambito di applicazione dell’art. 2 in relazione al momento consumativo e al profilo soggettivo dell’agente. Tale prospettiva interpretativa si mostra idonea a evitare indebite sovrapposizioni tra responsabilità penale e responsabilità gestionale interna, circoscrivendo l’ambito dell’imputazione penale ai soli casi in cui sussista un effettivo collegamento tra il soggetto attivo e l’adempimento dichiarativo fraudolento.

La responsabilità penale per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti si radica esclusivamente nella figura dell’amministratore in carica — formale o di fatto — al momento della sottoscrizione della dichiarazione, nella sua qualità di titolare del relativo obbligo legale. Ogni altra condotta, anche se idonea a integrare una forma di concorso materiale nella predisposizione dei mezzi fraudolenti, resta penalmente irrilevante qualora non si traduca in una partecipazione diretta all’atto dichiarativo.

8 settembre 2025

Accollo interno tra coniugi e valore probatorio delle comunicazioni informali: una lettura evolutiva dei confini dell’autonomia negoziale familiare

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La sentenza n. 1620 del 17 luglio 2025, emessa dal Tribunale di Catanzaro (Sezione II Civile, giudice dott.ssa Song Damiani), costituisce un’importante occasione di riflessione sull’estensione della libertà negoziale nel diritto delle relazioni familiari e sull’impiego degli strumenti comunicativi informali – in primis le conversazioni telematiche – quale fonte di prova dell’esistenza di obbligazioni assunte inter partes, anche al di fuori dei canoni formali tradizionali.

Il nucleo problematico della decisione attiene alla validità e opponibilità di un accordo extragiudiziale tra ex coniugi, relativo all’accollo integrale del mutuo contratto in costanza di matrimonio, stipulato con finalità di acquisto della casa familiare, e pagato interamente da uno solo degli ex coniugi, a fronte della rinuncia dell’altro all’assegno di mantenimento. La questione è stata sollevata in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, proposto dalla parte obbligatasi nel patto non formalizzato, che pretendeva il rimborso del 50% delle rate versate in via esclusiva, in quanto cointestatario del debito ipotecario.

Il Tribunale, ritenendo provata l’esistenza dell’accordo negoziale in via informale e successiva alla separazione, ha disposto la revoca del decreto ingiuntivo, ponendo in luce aspetti fondamentali della disciplina civilistica: da un lato, il riconoscimento della validità degli accordi privatistici extragiudiziali conclusi tra coniugi in pendenza o all’esito della crisi matrimoniale; dall’altro, l’ammissibilità della prova atipica documentale e testimoniale – ivi incluse le chat via WhatsApp – idonea a fondare un principio di prova per iscritto ai sensi dell’art. 2724 c.c.

L’impianto motivazionale della sentenza si fonda su un’elaborazione giurisprudenziale che ha progressivamente ampliato i confini dell’autonomia contrattuale in ambito familiare. Si assiste, infatti, all’evoluzione di un orientamento consolidato che ammette la possibilità per i coniugi di stipulare accordi patrimoniali al di fuori dell’omologazione giudiziale, purché non interferiscano con i diritti indisponibili ex art. 160 c.c., né pregiudichino gli interessi dei figli o di altri soggetti ritenuti vulnerabili. In tale ottica, si è progressivamente affermato che la regolamentazione degli aspetti economico-patrimoniali della crisi coniugale può avvenire in via stragiudiziale, anche attraverso strumenti negoziali atipici, la cui validità è subordinata alla coerenza sistematica con i principi generali dell’ordinamento e con l’interesse tutelato.

Di particolare rilievo, nella pronuncia in esame, è la valorizzazione della figura dell’accollo interno, configurabile quale accordo inter partes con cui uno dei condebitori solidali assume, per ragioni convenzionali, l’obbligo di sostenere integralmente il peso economico del debito comune, senza modificare la struttura dell’obbligazione nei confronti del creditore. Tale figura, estranea alla codificazione positiva ma ampiamente riconosciuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità, si distingue dall’accollo cumulativo o privativo di cui all’art. 1273 c.c., poiché incide esclusivamente nei rapporti interni tra condebitori e non attribuisce alcun diritto al creditore, che rimane estraneo al patto.

Nella fattispecie, l’elemento cruciale risiede nella ricostruzione del contenuto negoziale dell’accordo, desumibile aliunde sulla base di plurimi indizi concordanti: le dichiarazioni testimoniali rese dai figli, i comportamenti concludenti dell’accollante e, soprattutto, il contenuto di comunicazioni telematiche che, pur in assenza di sottoscrizione formale, rivelano inequivocabilmente la volontà di assumere un obbligo economico. In tal senso, la decisione in commento ha il merito di riconoscere la valenza documentale degli screenshot di chat WhatsApp, qualificandoli come principio di prova scritta ai sensi dell’art. 2724 n. 1 c.c., anche in assenza di riconoscimento esplicito, purché non espressamente disconosciuti dalla parte contro la quale sono prodotti.

Non meno significativa è la valorizzazione dell’impossibilità morale di procurarsi una prova scritta, che, nell’ambito delle relazioni familiari in crisi, si fonda su presupposti di tipo relazionale e psicologico: il timore di incrinare ulteriormente il rapporto, la necessità di evitare ulteriori conflitti in presenza di figli minori, o la fragilità emotiva di uno dei soggetti contraenti. Il Tribunale, mostrando sensibilità giuridica e adesione al dato fattuale, ha ritenuto sufficiente la ricorrenza di una situazione di oggettivo impedimento psicologico, corroborata da elementi documentali e testimoniali, per integrare il presupposto di cui all’art. 2724 n. 2 c.c.

La sentenza si colloca dunque nell’ambito di un rinnovato paradigma interpretativo, che tende ad ampliare l’orizzonte dell’autonomia contrattuale in ambito familiare, in un’ottica di bilanciamento tra libertà negoziale e protezione dei soggetti deboli. Essa contribuisce a consolidare la tesi secondo cui gli accordi stragiudiziali tra coniugi, purché non lesivi dei diritti indisponibili, possono produrre effetti giuridici vincolanti anche in assenza di omologazione giudiziale, ove sorretti da elementi probatori idonei e coerenti con il principio di buona fede oggettiva.

Dal punto di vista sistematico, la pronuncia si distingue altresì per l’inquadramento teorico dell’accollo interno quale strumento di redistribuzione dell’onere obbligatorio tra condebitori solidali, in deroga al principio di presunzione egualitaria ex art. 1298, comma 2, c.c. In tal senso, essa riafferma la legittimità dell’autonomia dispositiva anche in ipotesi di obbligazioni solidali, consentendo alle parti di modulare gli equilibri economici della separazione o del divorzio sulla base di valutazioni soggettive e contingenze personali, nel rispetto della ratio solidaristica che informa il diritto delle persone e della famiglia.

Si può affermare che la sentenza del Tribunale di Catanzaro costituisce un punto di riferimento per tutti gli operatori del diritto – avvocati, magistrati, commercialisti e studiosi – impegnati nella gestione delle dinamiche economico-patrimoniali connesse alla crisi del vincolo coniugale. Essa si segnala non solo per l’adesione a un orientamento giurisprudenziale evolutivo, ma anche per l’approccio pragmatico e coerente con le esigenze di tutela delle situazioni giuridiche soggettive emergenti nell’ambito dei rapporti familiari. La decisione riafferma, infine, il valore del diritto vivente nella ricostruzione dei rapporti obbligatori e nella definizione delle regole probatorie, in un contesto in cui le forme della comunicazione sociale e giuridica risultano sempre più fluide e dematerializzate.

5 settembre 2025

Imputazione fiscale di elementi attivi e passivi in presenza di contenzioso: certezza giuridico-economica e prudenza valutativa nella sentenza n. 24485/2025 della Corte di Cassazione

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La pronuncia n. 24485/2025 della Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, depositata il 4 settembre 2025, si colloca nell’ambito di una riflessione giurisprudenziale di lungo corso sulla delimitazione temporale dell’imponibilità dei componenti reddituali nell’imposizione sul reddito d’impresa. La decisione, resa in un giudizio avente ad oggetto la legittimità di un avviso di accertamento IRES per l’anno 2014, consente di chiarire con rara efficacia applicativa il principio di competenza economica – già enucleato all’art. 109, comma 1, del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR) – inteso come criterio sostanziale, e non meramente cronologico o formale, di imputazione fiscale.

La vicenda trae origine da una controversia tra l’Agenzia delle Entrate e un ente pubblico economico – ABC Acqua Bene Comune Napoli, azienda speciale del Comune di Napoli – in relazione alla corretta contabilizzazione di taluni componenti reddituali, attivi e passivi, originati da un contenzioso civile pluriennale. L’ente, in sede di determinazione del reddito d’impresa relativo all’anno 2014, aveva proceduto a dedurre taluni costi derivanti da una condanna civile di secondo grado intervenuta in quell’anno, ed aveva omesso di iscrivere tra i ricavi la somma a lui riconosciuta a titolo di risarcimento per danni indiretti, ritenendola non ancora definitivamente acquisita, in quanto oggetto di ricorso per cassazione proposto dalla controparte.

L’Agenzia delle Entrate, in sede accertativa, aveva contestato tali operazioni, assumendo che i costi in questione avrebbero dovuto essere dedotti nell’anno 2009 – in cui era intervenuta una sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva – e che i ricavi da risarcimento, benché oggetto di impugnazione, dovessero essere interamente rilevati nel 2014. L’operazione avrebbe, secondo l’Amministrazione finanziaria, dato luogo a una indebita riduzione del reddito imponibile.

Il giudice di legittimità, ribaltando l’interpretazione delle Commissioni tributarie di merito, ha conferito rilievo determinante al principio di certezza giuridico-economica del componente reddituale, sottolineando come la competenza fiscale non possa prescindere dalla stabile acquisizione della relativa obbligazione attiva o passiva, tanto sotto il profilo dell’an quanto sotto quello del quantum. La Corte ha ritenuto fondato il primo motivo del ricorso incidentale della contribuente, con assorbimento dei restanti, e ha annullato l’avviso di accertamento.

L’argomentazione centrale della sentenza ruota attorno all’interpretazione della seconda parte del primo comma dell’art. 109 TUIR, che impone di considerare i componenti reddituali nell’esercizio in cui si verifica la loro certezza e determinabilità oggettiva, anche qualora l’obbligazione cui si riferiscono sia sorta in precedenza. In tale prospettiva, la Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “quando gli elementi attivi e passivi che concorrono a formare il reddito sono portati da un provvedimento emesso in seguito ad un giudizio di cui sia parte il contribuente, quest’ultimo non è tenuto a contabilizzarli se essi sono messi in discussione mediante la proposizione di mezzi di impugnazione ammissibili e non manifestamente infondati”.

Di particolare importanza risulta l’esplicita distinzione tra l’esecutività processuale di una pronuncia – che implica la possibilità di darvi esecuzione anche se non definitiva – e la certezza fiscale richiesta per l’imputazione del componente reddituale. Quest’ultima si perfeziona solo quando l’elemento attivo o passivo sia stabilmente determinato in base a parametri oggettivi, tali da renderne incontestabile l’esistenza e l’entità. Il fatto che la sentenza di primo grado fosse stata sospesa con ordinanza della Corte d’appello ha rafforzato la conclusione della Corte circa l’assenza di certezza nell’esercizio 2009, rendendo corretta la deduzione dei costi nel 2014, in concomitanza con la sentenza di secondo grado.

Analogo ragionamento è stato esteso alla mancata iscrizione tra i ricavi dell’indennizzo per danni indiretti. La Suprema Corte ha rilevato che, in presenza di un ricorso per cassazione proposto su base non manifestamente infondata, il diritto al risarcimento non poteva dirsi ancora consolidato, giacché mancava un presupposto essenziale ai fini dell’obbligo di rilevazione contabile: la non contestabilità in giudizio del relativo diritto.

La sentenza in esame si inserisce in un filone interpretativo già tracciato da precedenti arresti (v. Cass. nn. 15320/2019 e 19166/2021), che hanno introdotto, nel sistema dell’imputazione temporale dei componenti reddituali, un criterio di prudenza sostanziale ispirato a considerazioni di equilibrio tra il principio di competenza e quello di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. Tali decisioni riconducono la determinazione del reddito imponibile a una logica effettuale, fondata sull’assenza di margini di incertezza giuridica, in luogo di una rigida applicazione cronologica del principio di competenza.

Va altresì segnalato come la Corte, in sede di scrutinio degli ulteriori rilievi dell’Agenzia, abbia negato che l’operazione di scissione parziale compiuta dalla contribuente potesse essere assimilata a un conferimento ordinario, tale da incidere sulla rilevanza fiscale dei fondi in questione (fondo pensioni e fondo contenzioso). In tal senso, la Corte ha ribadito l’impostazione secondo cui l’art. 173 TUIR esclude qualsiasi ipotesi di realizzo di plusvalenze, e che i fondi in oggetto non erano stati già dedotti, risultando dunque fiscalmente rilevanti nel momento della loro effettiva utilizzazione.

La decisione in commento assume una valenza sistematica significativa per la prassi professionale e per la dottrina tributaria, in quanto chiarisce, con elevato grado di definizione, i requisiti necessari affinché un elemento reddituale possa considerarsi fiscalmente rilevante. Essa rafforza l’esigenza di cautela e ragionevolezza nella determinazione del reddito d’impresa in presenza di situazioni contenziose, impedendo all’Amministrazione finanziaria di ricostruire il reddito sulla base di presunzioni temporalmente inadeguate o giuridicamente inconsistenti.

5 settembre 2025