La notificazione postale alle persone giuridiche tra art. 145 c.p.c. e legge n. 890/1982: riflessioni sistematiche a margine dell’ordinanza n. 31857/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’ordinanza n. 31857/2025 della Corte di cassazione offre l’occasione per riesaminare in chiave sistematica il rapporto tra la disciplina codicistica della notificazione alle persone giuridiche, dettata dall’articolo 145 del codice di procedura civile, e le regole speciali previste dalla legge n. 890/1982 per la notificazione a mezzo posta. Il tema si colloca nel più ampio contesto dell’effettività del contraddittorio e delle garanzie procedurali, soprattutto laddove la notificazione costituisce il presupposto di validità della vocatio in ius e condiziona, di conseguenza, la stabilità delle decisioni giudiziali. La vicenda decisa dalla Corte, riguardante l’impugnazione di una sentenza sulla base della presunta nullità della notificazione dell’atto introduttivo a una società di capitali, consente di chiarire i confini applicativi delle norme menzionate e di affrontare la questione della qualificazione del soggetto legittimato a ricevere il plico postale presso la sede dell’ente.

La pronuncia muove dalla constatazione che l’avviso di ricevimento della raccomandata costituisce il documento unico e decisivo per verificare la ritualità della notificazione postale, poiché solo tale atto consente di accertare la data, il luogo e la qualità del consegnatario. Pur essendo pacifico che la notifica fosse stata eseguita presso la sede legale della società, risultava nondimeno che la consegna era avvenuta nelle mani di un familiare convivente del rappresentante dell’ente. Il dato formale così emergente imponeva di confrontarsi con il disposto dell’articolo 7 della legge n. 890/1982 e con la sua possibile estensione alle persone giuridiche, soprattutto alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale precedente.

Nell’interpretare tale disposizione, la Corte richiama l’orientamento delle Sezioni Unite, le quali avevano riconosciuto che, con riguardo alla notificazione presso la sede di un ente, la consegna del plico può essere validamente effettuata non solo al legale rappresentante, ma anche a una persona all’uopo addetta. Tale estensione, tuttavia, non può spingersi sino a ricomprendere il familiare convivente del rappresentante, poiché il criterio della convivenza, valorizzato nella disciplina delle notificazioni alle persone fisiche, non trova corrispondenza nel sistema della notificazione alle persone giuridiche. In quest’ultimo ambito, la ratio legis mira a garantire che l’atto sia consegnato a soggetti che abbiano un collegamento funzionale con l’organizzazione dell’ente, e non semplicemente un rapporto personale con il suo organo rappresentativo.

È significativo che la Corte ribadisca la necessaria lettura coordinata dell’articolo 145 c.p.c. con la legge n. 890/1982. In particolare, la notifica alle persone giuridiche deve avvenire presso la sede dell’ente e la consegna può essere effettuata esclusivamente nelle mani del rappresentante, della persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, di altra persona addetta alla sede. L’agente postale può ritenersi esonerato dagli accertamenti ulteriori solo quando il consegnatario dichiari espressamente di essere addetto alla ricezione della corrispondenza, con ciò attivando una presunzione relativa di legittimazione fondata sul principio dell’affidamento. La stessa esenzione non opera quando la persona che riceve il plico si qualifica semplicemente come familiare convivente del rappresentante, difettando qualsivoglia collegamento funzionale con la struttura dell’ente.

La conseguenza di tale ricostruzione è la conferma del principio per cui il familiare convivente non può essere ritenuto soggetto idoneo alla ricezione della notificazione indirizzata a una persona giuridica. L’atto consegnato a un soggetto privo di legame organizzativo con l’ente deve ritenersi affetto da nullità, la quale, come nel caso oggetto dell’ordinanza, comporta la rinnovazione della notificazione e la rimessione della causa al giudice di primo grado. Tale esito non dipende da un formalismo eccessivo, bensì dalla necessità di assicurare che l’ente destinatario sia effettivamente posto in condizione di conoscere tempestivamente l’atto. È, infatti, nell’interesse stesso della certezza dei rapporti processuali evitare forme di notificazione che, pur formalmente completate, non offrano adeguate garanzie sulla conoscibilità dell’atto.

Il documento di approfondimento di taglio divulgativo conferma la centralità del principio di diritto espresso: la notificazione alle persone giuridiche postula un collegamento funzionale tra consegnatario e sede dell’ente. Da ciò discende l’esclusione della figura del familiare convivente, mentre è riconosciuta la legittimità della consegna al soggetto che si qualifichi come addetto, anche sulla base di un incarico verbale e temporaneo. Tali elementi concorrono a delineare un sistema volto a bilanciare l’esigenza di efficienza delle notificazioni e quella di tutela del destinatario, evitando che la funzione garantistica dell’atto venga compromessa da modalità di consegna troppo elastiche.

L’ordinanza n. 31857/2025 appare dunque particolarmente rilevante perché conferma un assetto interpretativo stabile e coerente, che valorizza il dato normativo senza sacrificare le esigenze di certezza e affidamento cui la disciplina delle notificazioni è preordinata. L’approdo sistematico risulta equilibrato: da un lato, si riconosce la validità della consegna del plico a soggetti diversi dal rappresentante legale quando tale consegna avvenga in un contesto organizzativo dell’ente; dall’altro, si esclude che rapporti meramente personali possano fungere da criterio idoneo a garantire la conoscenza dell’atto da parte dell’organizzazione destinataria. Ne emerge una ricostruzione della notificazione alle persone giuridiche come procedimento governato da un criterio funzionale e non formale, nel quale la legittimazione a ricevere l’atto è valutata in relazione al ruolo svolto all’interno della struttura.

Si può, infine, osservare che il ragionamento della Corte contribuisce a consolidare un’interpretazione coerente con i principi del giusto processo, nella misura in cui la regolarità della vocatio in ius non può essere subordinata a elementi accidentali quali la presenza di un familiare presso la sede dell’ente. Tale impostazione assicura un elevato livello di tutela per entrambe le parti del giudizio: per il notificante, che conosce i criteri certi cui conformarsi; e per la persona giuridica, che vede garantita una effettiva possibilità di conoscenza dell’atto. L’ordinanza si pone dunque come un ulteriore contributo alla razionalizzazione del sistema delle notificazioni, confermando la centralità della funzione organizzativa dell’ente nella determinazione dei soggetti legittimati a ricevere l’atto.

10 dicembre 2025

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La responsabilità del professionista delegato alla vendita forzata tra funzione ausiliaria e tutela risarcitoria

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’evoluzione normativa e giurisprudenziale della figura del professionista delegato alle operazioni di vendita ex art. 591-bis del codice di procedura civile ha reso necessaria una riflessione sistematica sulla natura dei poteri esercitati, sul regime di responsabilità applicabile e sul rapporto tra attività delegata e funzione giurisdizionale. La sentenza n. 31423/2025 della Corte di cassazione offre un quadro ricostruttivo di particolare rilievo, enunciando principi idonei a definire in modo chiaro la qualificazione dell’operato del delegato e la disciplina della sua responsabilità, collocandosi nel solco del progressivo consolidamento dell’istituto all’interno del procedimento esecutivo immobiliare. La questione si inserisce in un contesto caratterizzato dall’espansione dell’ambito oggettivo della delega, dalla crescente professionalizzazione degli operatori coinvolti e dalla ridefinizione degli equilibri tra giudice dell’esecuzione e ausiliari, specie alla luce delle riforme del 2005, del 2015 e della c.d. riforma Cartabia del 2022.

L’analisi della Corte parte dall’inquadramento della natura del delegato, stabilendo che le operazioni di vendita forzata demandate al professionista non costituiscono esercizio di ius dicere, ma attività meramente esecutive, ancorché strettamente strumentali alla funzione giurisdizionale. Pur essendo ampio il ventaglio delle attribuzioni delegabili, esse restano sottoposte alla supervisione del giudice, il cui intervento è necessario per l’adozione dei provvedimenti decisori che definiscono le diverse fasi del procedimento esecutivo. Tale carattere subordinato consente di qualificare il delegato come ausiliario del giudice, eventualmente sui generis, senza che ciò determini alcuna assimilazione agli “estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria” ai sensi della legge n. 117 del 1988. La sentenza evidenzia che solo questi ultimi esercitano un potere giurisdizionale pieno e autonomo, mentre il professionista delegato opera nell’alveo di poteri conferiti con atto di delega, i cui effetti sono sempre soggetti a conferma o controllo da parte del giudice dell’esecuzione.

L’assetto impugnatorio delineato dall’art. 591-ter c.p.c. conferma tale impostazione, prevedendo che gli atti del delegato siano sottoponibili al vaglio del giudice, il quale decide sulle difficoltà insorte e sui reclami mediante provvedimenti suscettibili di ulteriore contestazione tramite l’opposizione agli atti esecutivi. Risulta pertanto evidente che l’agire del professionista non è mai destinato a produrre effetti autonomamente decisori, alimentando una relazione di stretta dipendenza funzionale che impedisce di ricondurre il delegato nel novero dei soggetti potenzialmente assoggettati al regime della responsabilità civile dei magistrati. La Corte afferma, di conseguenza, che solo il risultato dell’attività delegata, una volta oggetto di intervento del giudice, potrebbe essere eventualmente scrutinato ai fini dell’applicazione della legge n. 117 del 1988, restando comunque attribuibile al giudice dell’esecuzione in quanto autore del provvedimento finale. Il professionista delegato rimane, pertanto, estraneo all’ambito applicativo della disciplina speciale, la cui ratio impone un’interpretazione restrittiva e non consente estensioni analogiche.

Sul versante della responsabilità civile del delegato, la Corte riconduce l’eventuale danno cagionato nello svolgimento dell’attività delegata al paradigma dell’art. 2043 del codice civile, configurando una responsabilità extracontrattuale fondata sulla violazione del principio del neminem laedere. La natura pubblicistica della funzione, benché non giurisdizionale, implica l’esistenza di obblighi di diligenza e correttezza nell’espletamento dell’incarico, la cui inosservanza può generare un affidamento incolpevole in capo agli interessati. Il limite alla responsabilità è individuato nell’esclusione della colpa lieve quando l’attività richieda soluzioni tecniche di particolare difficoltà, principio che richiama quello previsto dall’art. 2236 c.c., pur non trovando applicazione diretta. La sentenza valorizza pertanto un modello responsabilistico equilibrato, in grado di tutelare gli interessi delle parti del processo esecutivo senza comprimere oltre misura l’autonomia operativa del professionista incaricato.

Un passaggio di particolare rilievo attiene alla delimitazione degli obblighi informativi del delegato nella predisposizione dell’avviso di vendita. La Corte ribadisce che il delegato non è gravato da un generale dovere di segnalazione delle formalità pregiudizievoli anteriori al pignoramento, trattandosi di informazioni già contenute nella relazione di stima e liberamente consultabili. L’affidamento dell’aggiudicatario trova tutela solo nei limiti in cui l’omissione del delegato si traduca nella violazione delle prescrizioni normative o delle direttive contenute nell’ordinanza di delega. Viene pertanto esclusa una responsabilità basata su criteri meramente presuntivi o su modelli di colpa d’autore, valorizzando invece l’accertamento concreto della condotta e del nesso causale.

La sentenza n. 31423/2025 contribuisce così a chiarire il ruolo sistemico del professionista delegato, delineandone una figura funzionalmente ausiliaria ma non giurisdizionale, priva di autonomia decisoria e inserita in un rapporto di stretta vigilanza da parte del giudice dell’esecuzione. Ne risulta un inquadramento rigoroso, che favorisce la certezza del diritto e preserva l’equilibrio tra esigenze di efficienza della procedura esecutiva e garanzie di responsabilità. Il modello che emerge è coerente con un sistema nel quale la professionalizzazione degli ausiliari non comporta una deresponsabilizzazione del giudice, né un’eccessiva esposizione del delegato, ma consente una distribuzione razionale delle funzioni e dei relativi rischi. L’articolazione interpretativa proposta appare idonea a indirizzare la prassi applicativa verso soluzioni omogenee e rispettose della ripartizione delle competenze, valorizzando al contempo il ruolo del professionista nella realizzazione di una vendita forzata efficiente, trasparente e conforme ai principi dell’ordinamento.

9 dicembre 2025

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La natura non provvedimentale della comunicazione di esito del controllo ex art. 60-bis D.P.R. 633/1972 nella recente giurisprudenza di legittimità

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La questione dell’impugnabilità degli atti adottati dall’Amministrazione finanziaria in sede di controllo ai fini dell’imposta sul valore aggiunto continua a rappresentare un terreno di particolare sensibilità sistematica, soprattutto in relazione agli istituti connessi al regime di solidarietà del cessionario previsto dall’art. 60-bis del D.P.R. 633/1972. La recente pronuncia della Corte di cassazione, n. 31530/2025, costituisce un nuovo e rilevante tassello nell’elaborazione giurisprudenziale volta a distinguere, sul piano funzionale, gli atti dotati di effetto provvedimentale e idonei a incidere sulla sfera giuridica del contribuente, da quelli che, pur inseriti nel procedimento di controllo, risultano privi di autonoma capacità lesiva e sono, pertanto, sottratti al novero degli atti impugnabili.
Dalla decisione emerge un quadro ricostruttivo che, oltre a riaffermare la tassatività tipologica dell’art. 19 del decreto sul processo tributario, ne consolida la lettura estensiva fondata sul criterio sostanzialistico degli effetti giuridici prodotti dall’atto, secondo orientamenti già maturati in altre pronunce. Tale prospettiva consente una selezione più attenta degli atti effettivamente idonei a configurare un’immediata lesione, evitando al contempo un’irragionevole proliferazione contenziosa.

Il caso esaminato trae origine da una comunicazione ex art. 60-bis con cui l’Amministrazione informava il contribuente dell’imminente iscrizione a ruolo quale obbligato solidale per l’Iva non versata dal cedente, a seguito di operazioni concluse a prezzi inferiori al valore normale. La società destinataria impugnava tale comunicazione ritenendola espressiva di una pretesa tributaria definita nell’an e nel quantum. Dopo alterne valutazioni nei gradi di merito, la controversia approdava innanzi alla Suprema Corte, chiamata a chiarire se la comunicazione dell’esito del controllo costituisse un atto dotato di autonoma efficacia provvedimentale, idoneo cioè a determinare una modificazione della posizione soggettiva del contribuente e, pertanto, ricorribile autonomamente.

Il Collegio, ricostruendo dettagliatamente la sequenza procedimentale emergente dagli atti, rileva anzitutto come la comunicazione impugnata fosse stata preceduta da un formale invito ad adempiere, atto che la stessa giurisprudenza di legittimità riconosce come potenzialmente impugnabile in via facoltativa. A differenza dell’invito, che esteriorizza compiutamente una pretesa impositiva, la successiva comunicazione di esito del controllo non introduce alcun elemento nuovo sul piano sostanziale, limitandosi a informare il contribuente delle conseguenze già prefigurate e collegate all’inottemperanza al precedente invito. Essa non costituisce, dunque, né il primo atto lesivo né un atto con contenuto provvedimentale autonomo, ma svolge una mera funzione partecipativa e comunicativa nell’ambito del procedimento.

Il ragionamento della Corte si articola attorno al principio secondo cui la natura impugnabile dell’atto va individuata non già nel nomen iuris, ma nella sua effettiva idoneità a incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del destinatario, producendo effetti immediati e definitivi. Da questa impostazione si ricava che un atto privo di autonomo contenuto prescrittivo e non costituente la prima manifestazione della pretesa tributaria non può essere equiparato a un avviso di accertamento o liquidazione, né può fungere da veicolo processuale per contestare gli esiti del controllo. La Corte sottolinea inoltre come la successiva emissione della cartella di pagamento, separatamente impugnata dal contribuente, confermi la natura meramente informativa della comunicazione oggetto di giudizio.

La decisione si colloca nel solco di precedenti orientamenti volti a definire una fisiologica scansione tra atti endoprocedimentali e atti autoritativi dotati di autonoma lesività. In tal senso, essa richiama indirettamente quel filone interpretativo secondo cui l’elenco di cui all’art. 19, pur non costituendo un numero chiuso in senso assoluto, resta pur sempre limitato agli atti che, per struttura ed effetti, presentano un contenuto provvedimentale immediatamente lesivo. L’ampliamento operato dalla giurisprudenza, infatti, si muove lungo direttrici funzionali e non incontrollate, mirando a garantire un equilibrio razionale tra tutela giurisdizionale effettiva ed esigenze di certezza e stabilità del procedimento tributario.

La sentenza assume particolare rilievo anche sotto il profilo della ripartizione degli oneri difensivi all’interno del procedimento ex art. 60-bis. Da un lato, chiarisce che l’eventuale contestazione da parte del contribuente deve essere indirizzata verso l’invito ad adempiere, ove ritenuto illegittimo; dall’altro lato, evita che la comunicazione di esito del controllo possa divenire uno strumento di duplicazione processuale, con inevitabili ricadute negative in termini di efficienza e proporzionalità.

In prospettiva sistematica, la pronuncia contribuisce a rafforzare la distinzione tra fase procedimentale e fase provvedimentale, riaffermando che solo quest’ultima costituisce il momento normativamente rilevante ai fini dell’esercizio del diritto di difesa. Al contempo, appare evidente come l’impostazione adottata sia volta a non indebolire il principio generale secondo cui deve essere assicurata piena possibilità di sindacato sugli atti realmente idonei a definire un’obbligazione tributaria.

La conclusione della Corte, nel rigettare il ricorso, si inserisce così in un quadro interpretativo coerente e ormai consolidato, ma nel contempo evidenzia l’esigenza di una costante attenzione alla qualificazione degli atti amministrativi tributari, alla loro funzione e ai loro effetti, affinché la tutela giurisdizionale risulti proporzionata e calibrata rispetto alle reali esigenze di protezione del contribuente.

5 dicembre 2025

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