La non automatica responsabilità penale dell’amministratore di diritto tra principio di personalità e posizione di garanzia

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La recente pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza n. 35587/2025) offre un’occasione significativa per riflettere sul rapporto tra la posizione formale di amministratore di diritto e la responsabilità penale derivante da condotte illecite commesse nell’ambito societario. La decisione, che conferma l’assoluzione di un amministratore imputato per truffa e falso documentale, ribadisce con forza l’impossibilità di configurare una responsabilità automatica in capo al titolare della carica, in assenza di un concreto contributo causale o psicologico alla realizzazione del reato. Essa si inserisce nel solco di un orientamento ormai consolidato che riafferma la centralità del principio di personalità della responsabilità penale, in contrapposizione a ogni concezione oggettiva fondata sulla mera titolarità della funzione.

Il contesto normativo di riferimento è delineato dagli articoli 2392 e 2476 del codice civile, che disciplinano la responsabilità degli amministratori per violazione dei doveri inerenti alla carica, nonché dagli articoli 40 e 110 del codice penale, in tema di concorso di persone nel reato e di omissione. L’intersezione tra diritto penale e diritto societario evidenzia la duplicità della posizione dell’amministratore: da un lato, egli è investito di una posizione di garanzia che impone l’obbligo di vigilare sul corretto andamento della gestione; dall’altro, tale obbligo non può trasformarsi in una presunzione di colpevolezza per ogni illecito compiuto da soggetti che esercitano di fatto i poteri gestori.

La Cassazione, nella sentenza in esame, respinge la tesi avanzata dalle parti civili secondo cui la mera qualifica formale di amministratore di diritto comporterebbe la responsabilità per le condotte illecite poste in essere dal commercialista o da soggetti che, di fatto, gestivano l’impresa. Il Collegio sottolinea che la responsabilità penale richiede la verifica di un contributo concreto, materiale o morale, alla realizzazione dell’illecito. L’amministratore formale, pur rivestendo una posizione di garanzia, non può essere ritenuto ipso iure responsabile della truffa o del falso documentale commessi da altri, se manca la prova del dolo o della consapevole partecipazione alla condotta criminosa.

La decisione si colloca in linea con precedenti consolidati della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la posizione di garanzia non implica, di per sé, una responsabilità per omesso impedimento dell’evento qualora l’amministratore non abbia avuto conoscenza o possibilità di intervenire in tempo utile. L’accertamento deve dunque fondarsi su una valutazione concreta della partecipazione soggettiva, considerando la complessità organizzativa dell’ente e la ripartizione effettiva delle funzioni. Ciò è particolarmente rilevante nelle ipotesi in cui la gestione dell’impresa sia, di fatto, esercitata da altri soggetti, spesso familiari o consulenti contabili, come accade nei casi di amministratori di diritto testa di legno, figura che la giurisprudenza ha da tempo identificato quale schermo formale di amministrazioni di fatto.

Il ragionamento della Corte si fonda su una duplice distinzione. Da un lato, si ammette che l’amministratore di diritto, in virtù della propria posizione, possa incorrere in una responsabilità civile o amministrativa qualora non adempia ai doveri di vigilanza e controllo imposti dalla legge. Dall’altro, si esclude che tale posizione possa di per sé integrare l’elemento soggettivo del reato di truffa o di falso documentale, i quali presuppongono l’intenzione di ingannare e di conseguire un profitto ingiusto mediante artifici o raggiri. La mancanza di un nesso di causalità psichica tra la condotta dell’amministratore e l’evento illecito impedisce l’imputazione penale, pur potendo residuare un profilo di colpa in vigilando rilevante sul piano civilistico.

Particolarmente significativa appare la valorizzazione del principio di personalità della responsabilità penale, sancito dall’articolo 27 della Costituzione. Tale principio esclude qualsiasi forma di responsabilità oggettiva e impone che l’attribuzione del reato avvenga sulla base di un accertamento individualizzato della condotta e dell’elemento soggettivo. La Corte ricorda come il diritto penale non possa essere utilizzato per supplire a carenze di controllo interno o per punire la mera inerzia gestionale, a meno che non sia dimostrato un dolo specifico o un contributo consapevole all’illecito.

La pronuncia rafforza inoltre l’idea di una netta separazione tra i profili di responsabilità civile e quelli penali dell’amministratore. Se sul piano civilistico l’inosservanza dei doveri di diligenza, vigilanza e correttezza può comportare il risarcimento del danno verso la società o i terzi, sul piano penale è necessario un quid pluris, rappresentato dalla prova dell’intenzionalità o del concorso nella condotta delittuosa. Ne consegue che l’amministratore di diritto può essere chiamato a rispondere penalmente solo quando la sua condotta omissiva sia funzionalmente connessa alla produzione dell’evento illecito e accompagnata da consapevolezza della condotta altrui.

Da un punto di vista sistematico, la sentenza contribuisce a delimitare il perimetro della responsabilità penale nelle organizzazioni societarie complesse, evitando derive oggettivistiche e garantendo la coerenza con i principi costituzionali. Essa ribadisce la necessità di un accertamento individualizzato, incentrato non sulla qualifica formale, ma sull’effettivo ruolo svolto e sull’incidenza causale della condotta. Tale impostazione appare coerente con l’evoluzione dottrinale che tende a distinguere la responsabilità penale personale da quella da posizione, riaffermando il primato del principio di colpevolezza e la funzione di extrema ratio del diritto penale.

La decisione invita a un ripensamento delle dinamiche di governance societaria, sollecitando una più rigorosa distinzione tra amministrazione di diritto e di fatto e una maggiore attenzione alla trasparenza delle deleghe operative. Laddove la gestione effettiva sia esercitata da terzi, l’amministratore formale dovrà dimostrare di aver predisposto adeguati strumenti di controllo e di aver agito con la diligenza richiesta, onde evitare responsabilità civilistiche. Sul piano penale, tuttavia, l’imputazione continuerà a richiedere un nesso concreto tra condotta e evento, in ossequio al principio di personalità che resta pilastro irrinunciabile dell’ordinamento penale.

31 ottobre 2025

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La responsabilità del professionista nel concorso per violazioni fiscali: evoluzione giurisprudenziale e prospettive sistematiche

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’elaborazione giurisprudenziale più recente in materia di concorso del professionista negli illeciti fiscali del cliente ha segnato un deciso mutamento di paradigma, ponendo in discussione l’assetto tradizionale fondato sull’autonomia soggettiva della responsabilità tributaria. La questione si inserisce nel più ampio dibattito sulla natura e sui limiti del principio di personalità delle sanzioni amministrative tributarie, nonché sul ruolo della culpa professionale quale possibile fonte di corresponsabilità nell’ambito del rapporto d’imposta. Tale mutamento interpretativo ha comportato implicazioni di rilievo non solo per la definizione dei confini della colpa del consulente, ma anche per l’equilibrio sistemico tra esigenze di tutela dell’erario e garanzie del diritto di difesa.

Per lungo tempo la giurisprudenza di legittimità aveva sostenuto l’irresponsabilità del professionista per le violazioni tributarie commesse dal cliente, valorizzando la lettera dell’articolo 7 del decreto-legge 269 del 2003, secondo cui le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti dotati di personalità giuridica gravano esclusivamente sulla persona giuridica stessa. In tale prospettiva, il professionista veniva considerato un soggetto esterno, privo di legame diretto con l’obbligazione tributaria principale. Il principio trovava giustificazione nel nesso funzionale tra soggetto passivo e illecito, escludendo che l’attività di consulenza potesse integrare un apporto idoneo a configurare concorso nell’illecito fiscale.

A partire dal 2024, tuttavia, la Corte di cassazione ha progressivamente superato tale impostazione, ritenendo che lo “scudo” dell’articolo 7 non si estenda ai soggetti estranei alla compagine societaria. Secondo questo rinnovato orientamento, il consulente può essere chiamato a rispondere in concorso qualora la sua condotta — anche solo sotto il profilo psicologico — abbia contribuito alla realizzazione dell’illecito tributario. L’elemento soggettivo richiesto non si esaurisce nella mera consapevolezza del comportamento del cliente, ma implica la coscienza e la volontà di fornire un apporto utile alla condotta illecita. Si assiste, pertanto, a una valorizzazione del concorso morale e del contributo intellettuale del professionista, in linea con la tendenza generale all’ampliamento della responsabilità accessoria in ambito fiscale.

Parallelamente, la stessa giurisprudenza ha tuttavia introdotto un importante temperamento: affinché possa configurarsi la responsabilità del consulente, è necessario che questi persegua un vantaggio proprio, distinto da quello del cliente. Tale beneficio non può essere identificato nel mero compenso per la prestazione professionale, ma deve consistere in un quid pluris, ossia in un’utilità ulteriore derivante dalla partecipazione consapevole all’operazione illecita. In tal modo, il giudice di legittimità ha inteso differenziare la fisiologica attività di consulenza, che può anche orientarsi verso soluzioni fiscalmente aggressive ma legittime, dalle condotte che assumono carattere di collaborazione dolosa o colposa nella frode fiscale.

L’interpretazione restrittiva dell’articolo 7, combinata con la valorizzazione del concorso morale, apre una riflessione più ampia sul principio di legalità delle sanzioni tributarie e sulla certezza del diritto in ambito professionale. Il professionista, infatti, si trova esposto a un rischio sanzionatorio potenzialmente elevato, in assenza di criteri chiari per distinguere la consulenza spinta entro i limiti dell’elusione lecita dalla partecipazione a condotte fraudolente. Tale incertezza interpretativa incide sulla funzione di garanzia che il diritto tributario dovrebbe assicurare, esigendo una più netta delimitazione dell’elemento soggettivo del concorso.

Sul piano sistematico, l’evoluzione in atto può essere letta come espressione di una tendenza verso la responsabilizzazione dei professionisti, chiamati a un controllo più rigoroso delle finalità e delle modalità operative dei propri clienti. Tuttavia, tale ampliamento della sfera di responsabilità rischia di confliggere con il principio di proporzionalità, nella misura in cui estende la punibilità anche a condotte prive di un concreto intento fraudolento. La figura del consulente, per sua natura, si colloca in una zona intermedia tra autonomia professionale e collaborazione funzionale con il contribuente; una disciplina eccessivamente rigida finirebbe per scoraggiare l’assistenza tecnica qualificata, con effetti distorsivi sull’efficienza del sistema fiscale.

In assenza di un intervento legislativo chiarificatore, il quadro rimane affidato all’interpretazione giurisprudenziale, che dovrà conciliare la tutela dell’interesse erariale con la necessaria prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie per i professionisti. Appare auspicabile, in questa prospettiva, un approccio equilibrato che distingua la cooperazione fraudolenta — fondata su dolo o colpa grave — dalla mera adesione tecnica a scelte di pianificazione fiscale. L’adozione di criteri interpretativi improntati alla mens rea e alla concreta incidenza dell’apporto professionale potrebbe costituire il punto di equilibrio tra esigenze punitive e tutela della buona fede.

Il nuovo orientamento sulla responsabilità del professionista per concorso in illeciti fiscali segna un passaggio rilevante nella definizione dei rapporti tra consulenza e illecito tributario. Esso impone una riflessione sistematica sull’equilibrio tra garanzie soggettive e repressione dell’abuso, ponendo le basi per una possibile riformulazione del principio di imputazione soggettiva nel diritto tributario sanzionatorio. La sfida che si apre è quella di preservare la funzione collaborativa del professionista senza trasformarla in fonte di rischio penale o amministrativo, nel rispetto dei principi di certezza e proporzionalità che fondano l’ordinamento giuridico.

30 ottobre 2025

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Limiti oggettivi della responsabilità del notaio nella riscossione dell’imposta di registro: natura complementare del tributo e configurazione della solidarietà passiva

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La recente sentenza della Corte di cassazione, Sezione tributaria civile, n. 24475 del 3 settembre 2025, offre un importante chiarimento sistematico in materia di responsabilità del notaio rogante ai fini del pagamento dell’imposta di registro, con particolare riferimento ai casi di disconoscimento dell’agevolazione prima casa. Il principio affermato, in continuità con precedenti pronunce (Cass., n. 12257/2017), delimita la portata dell’obbligazione solidale del pubblico ufficiale rogante, escludendone la corresponsabilità per le imposte complementari derivanti da accertamenti successivi alla registrazione dell’atto. Tale impostazione, oltre a ribadire la distinzione tra soggetto passivo d’imposta e responsabile d’imposta, rafforza la coerenza del sistema in un’ottica di garanzia e di proporzionalità nell’esercizio della funzione notarile.

Nel caso concreto, l’amministrazione finanziaria aveva notificato al notaio un avviso di liquidazione per l’imposta di registro e relative sanzioni, a seguito del disconoscimento dell’agevolazione prima casa applicata in sede di stipula. L’Ufficio aveva accertato che l’acquirente possedeva un altro immobile nello stesso Comune, condizione ostativa al beneficio di cui al comma 4-bis della nota II-bis, Tariffa, parte I, allegata al d.P.R. 131/1986. La Cassazione ha escluso che il notaio potesse essere chiamato a rispondere di tale maggiore imposta, qualificandola come “complementare”, poiché derivante da una successiva attività di verifica e non immediatamente connessa alla registrazione dell’atto.

L’art. 57 del d.P.R. 131/1986 circoscrive la responsabilità del notaio al pagamento della sola imposta principale, escludendo ogni obbligazione per quella complementare o suppletiva. La ratio di tale limitazione risiede nell’esigenza di evitare che il pubblico ufficiale sia esposto a richieste impositive non prevedibili, né quantificabili al momento della stipula, e dunque prive della necessaria provvista presso le parti. Il notaio, infatti, è soggetto obbligato alla registrazione dell’atto (art. 10, lett. b, d.P.R. 131/1986), ma resta estraneo al presupposto impositivo, che attiene esclusivamente alle parti contraenti. Egli opera quale responsabile d’imposta ai sensi dell’art. 64, comma 3, d.P.R. 600/1973, assumendo una responsabilità di garanzia funzionale al corretto assolvimento dell’obbligo tributario, non una responsabilità paritetica da co-realizzazione del presupposto fiscale.

La sentenza valorizza la distinzione tra solidarietà “dipendente” e “paritetica”: nel primo caso, il responsabile d’imposta è tenuto in via sussidiaria, potendo esercitare la rivalsa integrale nei confronti dei veri contribuenti; nel secondo, invece, la solidarietà sorge da una comune partecipazione all’evento impositivo, con diritto di regresso limitato pro quota. Applicando questa logica, la Corte ha ritenuto che l’imposta emersa a seguito del disconoscimento dell’agevolazione non potesse gravare sul notaio, poiché generata da un accertamento extratestuale, successivo e autonomo rispetto al momento della registrazione. La pretesa fiscale, pertanto, non era più cartolare né immediata, ma fondata su una verifica di fatto, con conseguente natura complementare del tributo.

Da un punto di vista sistematico, la decisione evidenzia come la figura del notaio, pur investita di un ruolo di ausilio alla funzione fiscale, non possa essere equiparata ai soggetti passivi sostanziali. Il suo obbligo di pagamento sorge ex lege in funzione di garanzia procedimentale, limitandosi alle imposte dovute in sede di registrazione. Ogni estensione di tale responsabilità alle imposte successive comporterebbe un’alterazione del principio di legalità tributaria e della tassatività delle obbligazioni solidali, nonché una sproporzione rispetto alla funzione pubblica esercitata dal notaio, che non dispone né dei poteri né delle informazioni per accertare la veridicità delle dichiarazioni delle parti.

La pronuncia si colloca, inoltre, in un contesto di riforma del sistema di imposizione indiretta delineato dal D.Lgs. 139/2024, che, pur non incidendo sul regime del d.P.R. 131/1986, conferma la tendenza alla razionalizzazione delle fattispecie di responsabilità solidale in chiave di efficienza amministrativa e di tutela del principio di buona fede. La Corte, in questo senso, ribadisce che l’amministrazione, quando la pretesa impositiva richieda verifiche extratestuali, non può procedere mediante avviso di liquidazione nei confronti del notaio entro il termine di sessanta giorni dalla registrazione, ma deve attivare un ordinario procedimento di accertamento nei confronti delle parti, in quanto un’imposta così accertata non è principale, bensì complementare.

Sotto il profilo operativo, la decisione rafforza la certezza giuridica nell’attività notarile, delimitando chiaramente il confine tra adempimento formale e responsabilità sostanziale. L’intervento della Cassazione consolida la funzione del notaio quale garante della regolarità del procedimento, ma non quale soggetto tenuto alla verifica sostanziale delle condizioni di legge per l’applicazione delle agevolazioni fiscali. Tale distinzione risponde anche al principio di proporzionalità, evitando che il notaio sia gravato da oneri informativi e probatori eccedenti le sue competenze istituzionali.

La sentenza n. 24475/2025 potrà incidere sulla prassi amministrativa, inducendo l’amministrazione finanziaria a un uso più selettivo dell’avviso di liquidazione nei confronti dei notai e a una più rigorosa qualificazione delle imposte complementari. Essa riafferma, in ultima analisi, il principio per cui la responsabilità del notaio si esaurisce nell’ambito della fase cartolare e immediata della registrazione, restando esclusa per ogni imposizione che derivi da successivi accertamenti, anche se connessi all’atto rogato. Il confine tracciato tra obbligo di registrazione e obbligazione tributaria diretta segna un equilibrio coerente con la struttura dell’imposta di registro, in cui la funzione pubblica del notaio si integra ma non si confonde con quella contributiva delle parti

29 ottobre 2025

Lo stesso elaborato anche su taxlegaljob.net