Accertamento al socio di SRL a ristretta base societaria

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La recente ordinanza n. 13937/2025 della Corte di Cassazione si inserisce nel solco giurisprudenziale che ridefinisce il rapporto tra l’accertamento fiscale operato nei confronti di società a ristretta base partecipativa e quello, conseguente, effettuato in capo ai soci. La questione affrontata concerne la possibilità per il socio di una società a responsabilità limitata (S.r.l.) a ristretta base di impugnare l’avviso di accertamento a lui notificato, ancorché fondato su un atto divenuto definitivo nei confronti della società.

Il principio affermato è di rilevante portata sistematica: la definitività dell’accertamento nei confronti della società non produce, per ciò solo, effetti vincolanti e predeterminanti rispetto alla posizione del socio. In altre parole, non si configura un vincolo di giudicato esterno capace di precludere al socio la possibilità di articolare una propria difesa autonoma nel procedimento tributario a lui riferibile. La Corte, infatti, ha accolto le ragioni del contribuente, evidenziando come quest’ultimo abbia fornito prova documentale dell’effettiva esistenza di costi sostenuti dalla società e indicati nelle relative scritture contabili, così da neutralizzare l’effetto reddituale dell’accertamento presuntivo basato su utili extra bilancio.

Ne consegue che il reddito da partecipazione imputato al socio, secondo il criterio proporzionale ex art. 5 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), non può essere automaticamente quantificato sulla base dell’accertamento societario, laddove il socio fornisca elementi probatori idonei a disconoscerne la fondatezza sostanziale. Tale impostazione appare coerente con i principi di autonomia soggettiva e di personalità dell’obbligazione tributaria, nonché con l’esigenza di rispetto del diritto di difesa del contribuente sancito dall’art. 24 della Costituzione.

La pronuncia in esame assume particolare rilievo alla luce di un precedente orientamento, manifestatosi con l’ordinanza n. 30568/2024, in cui la stessa Corte aveva escluso la possibilità per il socio di contestare l’accertamento societario ormai divenuto definitivo. Il nuovo arresto, tuttavia, consente di distinguere tra l’impossibilità di impugnazione diretta dell’atto societario e la legittimità dell’impugnazione dell’accertamento individuale, pur fondato su presupposti derivanti da quello societario.

Appare dunque evidente come la Cassazione riconosca, nel perimetro dell’accertamento tributario, un margine significativo di autonomia difensiva al socio, anche quando lo stesso sia destinatario di un avviso fondato su utili extracontabili accertati nei confronti della società partecipata. Ciò implica, per l’Amministrazione finanziaria, l’onere di considerare con attenzione gli elementi probatori eventualmente forniti dal socio e di non ritenere scontata l’efficacia automatica e riflessa degli accertamenti societari.

Tale evoluzione interpretativa introduce un’importante cesura rispetto ad una visione rigidamente meccanicistica del sistema impositivo, che troppo spesso ha ricondotto l’imputazione reddituale del socio ad un automatismo derivato dalla mera partecipazione al capitale sociale. Il giudice di legittimità, al contrario, riafferma con forza la necessità di un accertamento fondato su dati oggettivi, documentati e riscontrabili, superando ogni presunzione assoluta di distribuzione di utili non dichiarati. In questo contesto, si valorizza la funzione della prova contraria offerta dal socio, che assurge a strumento essenziale di riequilibrio del rapporto fisco-contribuente, imponendo all’Amministrazione un rinnovato onere motivazionale e istruttorio.

Si osserva, altresì, come l’orientamento in parola contribuisca a rafforzare le garanzie processuali del contribuente nell’ambito del contenzioso tributario, ponendo un argine alla tendenza, talvolta riscontrata in sede amministrativa, di traslare automaticamente sul socio le contestazioni rivolte alla società, specie in ipotesi di ristretta base partecipativa, dove la commistione tra persona giuridica e persona fisica tende a rendere meno netti i confini soggettivi dell’obbligazione fiscale.

Si conferma l’esigenza di una ricostruzione del sistema impositivo fondata non su presunzioni assolute, ma sull’effettiva capacità contributiva del singolo soggetto, valorizzando, anche in ambito tributario, la funzione garantista del processo e la centralità del contraddittorio come strumento di tutela sostanziale dell’interesse del contribuente. La direzione tracciata dalla Corte di Cassazione apre pertanto a un nuovo paradigma ermeneutico, improntato a una più elevata aderenza al principio di legalità e a una più marcata sensibilità verso i principi costituzionali che informano il giusto processo tributario.

10 giugno 2025

La prova del danno da demansionamento nel diritto del lavoro: verso il superamento del risarcimento in re ipsa

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 11586 del 2 maggio 2025 costituisce una significativa tappa evolutiva nella giurisprudenza in materia di tutela del lavoratore subordinato, specificamente con riferimento all’istituto del demansionamento. Con tale provvedimento, la Suprema Corte ha ribadito, con ulteriore fermezza rispetto ai precedenti orientamenti, il principio secondo cui l’assegnazione a mansioni inferiori non determina automaticamente un danno risarcibile in re ipsa, bensì necessita di specifica allegazione e dimostrazione delle conseguenze pregiudizievoli subite, sia sul piano patrimoniale sia su quello non patrimoniale.

Tale impostazione si innesta nel solco già tracciato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la storica sentenza n. 6572 del 2006, la quale aveva sancito l’abbandono della concezione meramente oggettiva del danno da dequalificazione. La ratio decidendi sottesa a tale orientamento consiste nella necessità di coniugare la tutela della persona del lavoratore con i principi fondamentali dell’ordinamento civilistico, in particolare quelli relativi all’onere della prova (art. 2697 c.c.) e alla funzione del risarcimento del danno quale strumento compensativo e non punitivo.

L’illegittima modificazione in peius dell’oggetto della prestazione lavorativa, ancorché suscettibile di produrre effetti lesivi rilevanti, non comporta, dunque, ex se il sorgere del diritto al risarcimento. È richiesto, invece, che il lavoratore dimostri, anche mediante presunzioni gravi, precise e concordanti, la concreta lesione della propria sfera giuridica soggettiva. L’onere probatorio si declina, pertanto, nell’allegazione di fatti storici specifici idonei a fondare un giudizio di verosimiglianza circa la sussistenza del pregiudizio.

Sotto il profilo patrimoniale, il danno può consistere nell’impoverimento della capacità professionale, intesa come perdita di competenze tecniche e conoscenze operative, oppure nella perdita di chance, ovvero nella frustrazione di potenzialità evolutive di carriera e occasioni di miglioramento reddituale. Sul versante non patrimoniale, si configura un vulnus alla dignità e alla identità professionale del prestatore d’opera, integrando una violazione dei diritti inviolabili della persona tutelati dagli artt. 2 e 41 Cost. e dall’art. 2087 c.c., i quali impongono al datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

L’accertamento giudiziale del danno, pertanto, non può fondarsi su presunzioni generiche o su automatismi risarcitori, bensì deve essere ancorato all’analisi concreta delle circostanze del caso specifico. In tal senso, risulta censurabile la pronuncia della Corte d’appello successivamente cassata dalla Suprema Corte, per aver omesso ogni valutazione delle peculiarità fattuali del rapporto lavorativo e per aver desunto la sussistenza del danno esclusivamente sulla base di un precedente giurisprudenziale astratto.

Viceversa, la sentenza del Tribunale di Milano del 7 maggio 2025 si distingue per aver riconosciuto, con adeguata motivazione, l’esistenza di un danno risarcibile nella misura del 30% della retribuzione mensile globale, sulla scorta del carattere reiterato della condotta datoriale, della rilevanza qualitativa delle mansioni disattese e della durata significativa del periodo di dequalificazione. Tale decisione si fonda su un corretto utilizzo del criterio equitativo ex art. 1226 c.c., applicato in presenza di una comprovata difficoltà di quantificazione del danno.

Ne consegue che non ogni mutamento mansione integra ipso iure un demansionamento illegittimo, essendo necessario accertare una effettiva e sostanziale dequalificazione professionale, caratterizzata da una sottoutilizzazione stabile delle competenze acquisite, nonché da una regressione nella crescita professionale e nella valorizzazione del capitale umano.

La prova del danno deve articolarsi su un compendio sistematico di elementi presuntivi e documentali, tra cui rilevano: la durata del demansionamento; la distanza gerarchico-funzionale tra le mansioni originarie e quelle nuove; la perdita di occasioni formative; la lesione del decoro e della reputazione professionale interna ed esterna; la compromissione dell’immagine professionale del lavoratore nel contesto aziendale e nel mercato del lavoro.

La giurisprudenza più recente rafforza un approccio interpretativo rigoroso e coerente con i principi del diritto del lavoro e del diritto civile, nella prospettiva di una tutela effettiva ma non automatica della professionalità del lavoratore subordinato. In tale ottica, il danno da demansionamento si configura come una fattispecie complessa, che richiede una puntuale allegazione dei fatti, una solida base probatoria e una valutazione giudiziale improntata a criteri di ragionevolezza, proporzionalità ed equità sostanziale.

9 giugno 2025

La disciplina dell’assorbimento del superminimo tra autonomia contrattuale e giurisprudenza: una riflessione a margine dell’ordinanza n. 11771/2025 della Corte di cassazione.

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’ordinanza n. 11771 del 2025 della Corte di cassazione riporta all’attenzione della dottrina e della prassi giuslavoristica la complessa questione dell’assorbimento del superminimo individuale, collocandosi in un solco interpretativo che interseca il rapporto fra autonomia individuale, regolazione collettiva e poteri dispositivi delle parti nel contratto di lavoro subordinato.

Il superminimo, emolumento retributivo riconosciuto in misura eccedente rispetto ai minimi tabellari fissati dalla contrattazione collettiva nazionale (CCNL), costituisce una componente retributiva non eterodeterminata, il cui fondamento risiede nella libera negoziazione tra datore di lavoro e lavoratore. Esso può rispondere a finalità eterogenee: valorizzazione della professionalità, compensazione di condizioni particolarmente gravose, fidelizzazione del lavoratore o meri scopi incentivanti.

Tradizionalmente, la giurisprudenza ha accolto il principio secondo cui il superminimo, in assenza di specifiche pattuizioni contrarie, è soggetto al c.d. meccanismo dell’assorbimento. In virtù di tale principio, gli incrementi retributivi futuri, derivanti da innovazioni contrattuali collettive o da progressioni di carriera, possono “assorbire” in tutto o in parte il superminimo, riducendone l’incidenza sul trattamento economico complessivo. Tale meccanismo si fonda su una logica perequativa e sull’esigenza di evitare duplicazioni retributive non giustificate da un effettivo mutamento delle mansioni o del valore della prestazione lavorativa.

Tuttavia, questo principio generale non ha natura imperativa, bensì dispositiva. È pacificamente ammesso, tanto dalla giurisprudenza quanto dalla dottrina prevalente, che l’assorbimento del superminimo possa essere derogato dalle parti mediante specifica clausola contrattuale, la quale ne limiti l’operatività oppure lo escluda in toto. La Corte di cassazione, già in precedenti pronunce (v., ad esempio, Cass. n. 20919/2019), ha ribadito che tale deroga deve risultare da un’espressa manifestazione di volontà, inequivoca e specifica, non potendo desumersi per implicito o mediante interpretazioni estensive di clausole ambigue.

È in questo contesto che si inserisce l’ordinanza in commento, la quale assume rilevanza non solo per la soluzione adottata, ma anche per la metodologia interpretativa seguita. Il caso riguardava un lavoratore che, già beneficiario di un superminimo individuale, aveva ottenuto un avanzamento di livello nell’ambito del sistema classificatorio previsto dal CCNL applicabile. Il datore di lavoro aveva proceduto a ridurre l’importo del superminimo, assumendo che il nuovo trattamento economico – superiore in ragione del nuovo livello – comportasse l’assorbimento dell’emolumento eccedentario. A fondamento della propria posizione, il datore invocava il principio generale di assorbimento, non contestato in sé.

Tuttavia, la clausola pattuita all’atto della corresponsione del superminimo prevedeva espressamente l’assorbibilità esclusivamente in correlazione ad aumenti retributivi derivanti da futuri rinnovi del CCNL, senza menzionare l’ipotesi del mutamento di livello. La Corte, valorizzando il tenore letterale e restrittivo della pattuizione, ha ritenuto che l’assorbimento non potesse operare in assenza di un’espressa previsione. Ciò ha comportato il riconoscimento del diritto del lavoratore a mantenere integralmente il superminimo, anche dopo la promozione.

Tale decisione si pone in linea con l’orientamento che riconosce centralità all’autonomia individuale nella regolazione degli assetti retributivi, pur nel rispetto del sistema gerarchico delle fonti. Si osserva, infatti, che la clausola in oggetto non violava alcuna disposizione imperativa o norma di ordine pubblico, ma si limitava a circoscrivere l’ambito applicativo di un istituto (l’assorbimento) di per sé derogabile.

Dal punto di vista sistematico, la pronuncia offre lo spunto per una riflessione più ampia sul ruolo dell’autonomia individuale nella dinamica delle fonti in materia retributiva. In un contesto in cui la contrattazione collettiva continua a rappresentare il principale parametro regolativo, l’intervento del patto individuale si configura come uno spazio di flessibilità negoziale, purché esercitato in modo consapevole e formalmente corretto.

Ne discende una precisa raccomandazione operativa per gli operatori del diritto del lavoro: la redazione delle clausole retributive, specie quelle relative a istituti variabili come il superminimo, deve essere effettuata con particolare attenzione alla formulazione linguistica e alla chiarezza dell’intento negoziale. È opportuno che ogni clausola di assorbibilità precisi con esattezza le fattispecie in cui l’assorbimento potrà operare, evitando genericità o formule standardizzate che, in sede contenziosa, potrebbero non reggere a un vaglio ermeneutico rigoroso.

In conclusione, l’ordinanza n. 11771/2025 non solo conferma un principio consolidato della giurisprudenza di legittimità, ma contribuisce a delineare un modello interpretativo fondato sulla tutela dell’affidamento legittimo delle parti e sulla centralità del tenore letterale dei patti. In un sistema giuslavoristico sempre più complesso e stratificato, la certezza del diritto e la prevedibilità degli effetti delle clausole contrattuali restano valori imprescindibili per garantire l’equilibrio tra esigenze di flessibilità organizzativa e tutela della posizione soggettiva del lavoratore.

29 maggio 2025