Assegno divorzile e funzione riequilibratrice: verso una nuova ermeneutica costituzionalmente orientata

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La disciplina dell’assegno divorzile ha attraversato, negli ultimi anni, un’evoluzione concettuale di significativa rilevanza sistematica, che ha profondamente inciso sulla sua funzione giuridica e sul suo inquadramento teorico all’interno dell’ordinamento italiano. Tale trasformazione si è concretizzata nel definitivo superamento del criterio del tenore di vita endoconiugale quale parametro unico ed esclusivo per la determinazione dell’assegno, a favore di un modello valutativo complesso e costituzionalmente orientato. Il momento di svolta è stato segnato dalla nota pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 18287 dell’11 luglio 2018, la quale ha segnato l’abbandono di un impianto assistenzialistico meramente riparatorio, introducendo una lettura multifunzionale dell’istituto, in linea con i principi di solidarietà e pari dignità sanciti dagli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione.
La recente sentenza del Tribunale di Crotone del 17 luglio 2025 si colloca in modo emblematico nel solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, costituendo un esempio virtuoso di recepimento e applicazione dei canoni ermeneutici delineati dalle Sezioni Unite. Il giudice calabrese ha adottato un approccio argomentativo sofisticato, fondato su un’analisi integrata e comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, ponendo in rilievo il contributo non meramente patrimoniale fornito dal coniuge istante nella costruzione del progetto familiare. In tal senso, si afferma un criterio composito, che postula la necessità di una valutazione globale delle circostanze fattuali, con particolare attenzione alla durata del matrimonio, all’età dell’avente diritto, alle scelte condivise nella vita coniugale e agli eventuali sacrifici professionali sostenuti.
L’assegno divorzile assume così una triplice funzione: assistenziale, compensativa e perequativa. La prima, in senso stretto, è finalizzata a garantire un sostegno al coniuge privo di mezzi adeguati e incapace, per ragioni oggettive, di procurarseli autonomamente. La seconda ha lo scopo di riconoscere il contributo apportato alla formazione del patrimonio comune e alla conduzione della vita familiare, valorizzando le rinunce e i sacrifici compiuti in funzione della coesione coniugale. La terza funzione, infine, mira a riequilibrare le disparità economiche scaturite dalla cessazione del vincolo matrimoniale, attraverso una redistribuzione equa e giustificata dalle dinamiche pregresse del rapporto coniugale.
Tale nuova impostazione comporta, sul piano applicativo, una profonda revisione della prassi giudiziaria. Non è più sufficiente accertare l’autosufficienza economica dell’ex coniuge richiedente secondo parametri astratti e statici; è invece necessario svolgere un’indagine approfondita sulle concrete prospettive reddituali, sulle potenzialità lavorative residuali, nonché sul pregresso apporto al ménage familiare. L’autosufficienza economica, intesa come capacità di generare reddito sufficiente a garantire una vita dignitosa, non può prescindere dalla considerazione delle aspettative professionali sacrificate e dal ruolo svolto all’interno della famiglia, anche ove privo di diretta rilevanza economica.
La funzione compensativa dell’assegno divorzile, pertanto, assume un rilievo centrale nella ricostruzione sistematica dell’istituto. Essa implica un riconoscimento giuridico del lavoro non retribuito svolto in ambito domestico e familiare, che ha consentito all’altro coniuge di realizzare una carriera professionale più proficua. Questo approccio consente di superare la tradizionale dicotomia tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo, conferendo dignità giuridica alle attività di cura e alla gestione della quotidianità familiare, spesso sottovalutate in sede di determinazione dell’assegno.
La sentenza del Tribunale di Crotone si distingue, altresì, per l’adozione di una metodologia valutativa improntata a equità sostanziale, in cui il giudice si è fatto interprete di una visione costituzionalmente conforme della crisi familiare. La decisione non si è limitata a quantificare l’assegno sulla base di parametri quantitativi, ma ha svolto un’attenta analisi qualitativa delle dinamiche relazionali pregresse e delle implicazioni economiche ad esse connesse. Si tratta di un’applicazione esemplare del principio di personalizzazione della tutela, che consente di cogliere la specificità del singolo rapporto coniugale e di offrire una risposta giuridica adeguata alle peculiarità del caso concreto.
L’approccio adottato dal Tribunale di Crotone rappresenta un’applicazione avanzata del nuovo paradigma ermeneutico dell’assegno divorzile, orientato a garantire un’effettiva e sostanziale uguaglianza tra gli ex coniugi anche nella fase patologica della relazione. Si configura così una lettura moderna e costituzionalmente orientata dell’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, in cui l’assegno divorzile assume la funzione di strumento di giustizia redistributiva, capace di colmare le diseguaglianze generate all’interno del vincolo matrimoniale e di valorizzare gli apporti non patrimoniali che ne hanno contraddistinto la durata. La decisione in esame si pone, dunque, come tappa significativa nel processo evolutivo della giurisprudenza di merito in materia, offrendo un contributo rilevante all’elaborazione teorica e applicativa della disciplina dell’assegno divorzile nel contesto contemporaneo.

29 agosto 2025

Documentazione delle spese straordinarie per i figli: natura dell’onere probatorio ed efficacia del titolo esecutivo nei rapporti post-separativi

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

Nel contesto delle obbligazioni economiche derivanti dalla cessazione del vincolo matrimoniale o dalla disgregazione della convivenza genitoriale, la recente pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza n. 22522 del 4 agosto 2025) assume un rilievo ermeneutico di primaria importanza, contribuendo a consolidare l’orientamento giurisprudenziale in materia di ripartizione delle spese straordinarie sostenute per la prole.
La Suprema Corte, prendendo atto di un quadro giurisprudenziale non pienamente uniforme, ha optato per un’interpretazione rigorosa dell’onere probatorio che grava sul genitore che agisca per ottenere dal genitore non collocatario il rimborso pro-quota delle spese affrontate. Si sancisce, con nettezza argomentativa, che il semplice elenco degli esborsi non è sufficiente a fondare la legittimità dell’azione esecutiva: è invece imprescindibile la produzione di adeguata documentazione giustificativa, atta a comprovare la natura, l’entità e la riferibilità delle spese al contenuto obbligatorio del titolo esecutivo.
Appare evidente che tale impostazione si fonda sull’esigenza di garantire la certezza e la trasparenza nei rapporti obbligatori tra gli ex coniugi o ex conviventi, scongiurando derive arbitrarie e pretese economiche prive di riscontri oggettivi. L’effettività del titolo esecutivo, costituito dal provvedimento giudiziale o dall’accordo di separazione omologato, richiede pertanto, secondo l’insegnamento della Corte, che l’obbligazione di contribuzione sia assistita da un corredo documentale che attesti la sopravvenienza concreta degli esborsi, nonché la loro riconducibilità alle tipologie già qualificate come obbligatorie ex lege o ex titolo.
Particolarmente pregnante è la disamina della Corte in ordine alle spese scolastiche e sanitarie, le quali, sebbene rientranti tra quelle comunemente considerate necessarie e ricorrenti nel percorso evolutivo del minore, sono caratterizzate da una fisiologica indeterminatezza temporale e quantitativa. Di qui la necessità di una verifica postuma che sia fondata su elementi oggettivamente valutabili. Tale approccio riflette, sul piano sistematico, l’esigenza di salvaguardare l’equilibrio tra l’interesse del minore a ricevere prestazioni adeguate alle sue esigenze evolutive e quello del genitore obbligato a non essere gravato da richieste di pagamento non previamente validate.
La Cassazione valorizza, in tal senso, il principio della diligenza professionale qualificata, che deve informare la condotta del genitore creditore nell’esercizio delle prerogative che gli derivano dal titolo. La buona fede oggettiva e la correttezza, quali criteri ermeneutici dell’agire contrattuale e post-contrattuale, assumono qui una valenza sostanziale, imponendo al genitore richiedente un comportamento improntato a trasparenza, collaborazione e lealtà nei confronti del soggetto obbligato.
Non meno significativa è la motivazione addotta dalla Corte in relazione al profilo deflattivo del contenzioso. L’adozione di un criterio probatorio rigoroso costituisce, infatti, un potente strumento di prevenzione dell’instaurazione di controversie giudiziarie, le quali spesso traggono origine da situazioni di opacità informativa o da pretese sorrette da elementi documentali inadeguati o assenti. L’univocità del principio espresso nella pronuncia in esame offre quindi un parametro di chiarezza che può favorire la composizione preventiva dei conflitti e la responsabilizzazione delle parti nella gestione degli obblighi economici connessi alla genitorialità.
Va inoltre considerato che, frequentemente, il titolo esecutivo si configura in forma stragiudiziale attraverso l’accordo di separazione omologato dal giudice: in tale ipotesi, l’esigenza di tutelare il genitore debitore assume un ruolo ancor più centrale, giacché l’assenza di una preventiva verifica giurisdizionale rende imprescindibile la messa a disposizione della documentazione idonea a permettere una piena cognizione della pretesa economica.
La Corte di Cassazione contribuisce a rafforzare un assetto normativo-interpretativo coerente con i principi di effettività, certezza e correttezza, stabilendo che la validità dell’azione esecutiva fondata su spese straordinarie è condizionata alla rigorosa prova documentale della spesa sostenuta. Tale principio di diritto, lungi dall’essere una mera puntualizzazione procedurale, si pone quale presidio sostanziale di tutela della legalità delle obbligazioni familiari e della loro corretta attuazione nella fase post-separativa.

28 agosto 2025

Inerenza e deducibilità fiscale dell’abbigliamento professionale: profili giurisprudenziali e limiti applicativi

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La questione della deducibilità delle spese per l’abbigliamento nel contesto del reddito d’impresa e di lavoro autonomo si configura come una delle tematiche più controverse nell’ambito dell’interpretazione dell’articolo 109, comma 5, del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), laddove si rinvia implicitamente al principio dell’inerenza. Tale principio, pur non trovando una codificazione esplicita nella norma, è stato oggetto di elaborazione giurisprudenziale progressiva, assumendo nel tempo una dimensione di tipo qualitativo, fondata sull’utilità e funzionalità del costo rispetto all’attività economica esercitata, anche in prospettiva futura.

La Corte di cassazione, con costanza ermeneutica, ha definito l’inerenza come il nesso eziologico tra il costo sostenuto e l’attività imprenditoriale o professionale, inteso non necessariamente in termini diretti e immediati con i ricavi, ma in senso più ampio e strutturale. Tale orientamento, ribadito nelle più recenti decisioni nn. 9568, 9132, 8922 e 8700 del 2025, si traduce in un’interpretazione restrittiva per le spese aventi natura potenzialmente promiscua, come quelle relative all’acquisto di abiti civili o di rappresentanza. Tali spese, sebbene utilizzate esclusivamente in ambito lavorativo, vengono di regola escluse dalla deduzione in quanto prive del carattere di esclusività funzionale all’attività esercitata.

La giurisprudenza distingue pertanto in modo netto tra abbigliamento generico, che può essere indifferentemente adoperato in contesti lavorativi e privati, e abbigliamento tecnico o funzionale, la cui natura specifica e obbligatorietà normativa (si pensi ai dispositivi di protezione individuale o alle divise sanitarie) legittima senz’altro la deducibilità del relativo costo. In tale contesto, l’onere della prova circa la sussistenza dell’inerenza grava sul contribuente, in applicazione del principio di vicinanza della prova, il quale, in deroga alla regola generale dell’art. 2697 cod. civ., pone a carico della parte più prossima alla fonte probatoria la dimostrazione dell’assunto dedotto, specie in presenza di elementi di dubbio sull’effettiva destinazione della spesa.

Occorre evidenziare che, sebbene l’Amministrazione finanziaria debba motivare le riprese fiscali in sede di accertamento, l’onere documentale a carico del contribuente impone la predisposizione di un impianto probatorio idoneo a dimostrare, caso per caso, il vincolo funzionale tra il bene acquisito e l’attività svolta. In tale ottica, appare imprescindibile una valutazione sostanziale e concreta delle circostanze fattuali, onde evitare applicazioni automatiche e generalizzate dei criteri di inerenza.

Nonostante l’approccio restrittivo della giurisprudenza di legittimità, alcune pronunce di merito hanno aperto margini interpretativi più flessibili, riconoscendo, in taluni casi, una deducibilità parziale delle spese per abbigliamento laddove sussistano vincoli contrattuali specifici o esigenze di scena che impongano l’adozione di un determinato outfit. È il caso, ad esempio, di artisti, personaggi dello spettacolo o operatori del settore della moda e della comunicazione, la cui immagine pubblica costituisce parte integrante della prestazione professionale resa. In tali ipotesi, la giurisprudenza ha talvolta ritenuto applicabile una deducibilità forfettaria, sovente fissata nella misura del 50%, in assenza di criteri oggettivi di ripartizione dell’utilizzo promiscuo.

Un’ulteriore evoluzione interpretativa si rinviene nella recente sentenza n. 959/2/24 della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Torino, che ha accolto l’istanza di un commercialista affermato, riconoscendo la deducibilità dei costi sostenuti per l’acquisto di capi d’abbigliamento di pregio, in ragione delle funzioni pubbliche ricoperte e della conseguente esigenza di mantenere un elevato standard di decoro professionale. In tale pronuncia, il giudice ha valorizzato l’immagine pubblica del contribuente quale elemento costitutivo della sua attività e ha ritenuto che l’abbigliamento formale potesse essere qualificato come spesa funzionalmente inerente alla prestazione resa, in quanto strumentale alla tutela della reputazione e credibilità professionale.

Alla luce delle considerazioni esposte, si impone una riflessione critica sull’attuale quadro interpretativo, caratterizzato da una tensione costante tra esigenze di rigore fiscale e tutela della peculiarità delle singole attività economiche. L’approccio giurisprudenziale più recente suggerisce la necessità di adottare un criterio di valutazione elastico, fondato su parametri oggettivi e coerenti con la realtà economica sottostante, in grado di garantire un equo bilanciamento tra le esigenze dell’erario e i diritti del contribuente. La costruzione di un sistema di deducibilità improntato su criteri di effettiva strumentalità e non su mere presunzioni formali rappresenta una prospettiva evolutiva coerente con i principi di proporzionalità e ragionevolezza che dovrebbero improntare ogni intervento ermeneutico in materia tributaria.

27 agosto 2025