La responsabilità sanzionatoria nel sistema delle società di capitali: autonomia soggettiva, abuso della personalità giuridica e concorso nella violazione alla luce della sentenza CGT Campania n. 1917/19/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

Il tema della responsabilità per l’irrogazione di sanzioni amministrative tributarie nel contesto delle società di capitali rappresenta una delle questioni più sensibili e complesse dell’ordinamento tributario, ove si intrecciano principi fondamentali del diritto delle società, del diritto amministrativo sanzionatorio e delle garanzie costituzionali del contribuente. La sentenza n. 1917/19/2025 della Corte di giustizia tributaria (CGT) di secondo grado della Campania si pone come significativa riaffermazione del principio di autonomia soggettiva dell’ente societario, chiarendo i confini entro cui può ritenersi giuridicamente fondata una responsabilità personale dell’amministratore in ordine a sanzioni derivanti da violazioni tributarie imputabili alla società.

La vicenda oggetto della pronuncia origina da un accertamento condotto nei confronti di una società a responsabilità limitata, alla quale veniva contestato l’indebito esercizio del diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) sulla base di operazioni soggettivamente inesistenti. L’amministrazione finanziaria, parallelamente alla notifica dell’avviso di accertamento alla società, ha emesso un autonomo atto di irrogazione di sanzioni nei confronti della legale rappresentante, ritenuta personalmente responsabile ai sensi degli articoli 9 e 11 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, in concorso con l’ente.

L’impugnazione proposta ha trovato accoglimento già in primo grado, con la declaratoria di illegittimità dell’atto per carenza assoluta dei presupposti normativi. L’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate è stato rigettato dalla CGT campana, la quale ha ribadito che l’imputazione personale delle sanzioni all’amministratore, in presenza di una società dotata di autonoma personalità giuridica e piena operatività, costituisce un’ipotesi eccezionale e come tale insuscettibile di applicazione presuntiva o analogica.

Il fondamento normativo del principio affermato dalla Corte va rinvenuto nell’articolo 7, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, il quale stabilisce che “le sanzioni amministrative relative al rapporto tributario proprio della società o dell’ente con personalità giuridica non si applicano ai soci, associati, amministratori e componenti degli organi sociali”. Tale previsione assume la natura di norma speciale rispetto alla disciplina generale del concorso di persone nella violazione amministrativa tributaria, dettata dal D.Lgs. n. 472/1997, e in quanto tale deve essere interpretata restrittivamente.

Secondo la giurisprudenza di legittimità – alla quale la pronuncia in commento si conforma – l’unico scenario in cui può derogarsi a tale principio è quello dell’abuso della personalità giuridica, cioè quando la società sia riducibile a mero schermo formale, privo di reale autonomia operativa, utilizzato per fini illeciti o elusivi, tali da giustificare una disapplicazione del principio di separazione soggettiva (cfr. Cass. civ., sez. V, ord. n. 10651/2022; Cass., sent. n. 28332/2018). In tale ipotesi, l’amministratore, anche se di fatto, può essere destinatario dell’irrogazione di sanzioni, ma solo a seguito di un rigoroso accertamento fondato su dati concreti, specifici e dettagliatamente motivati.

Il principio di autonomia soggettiva della persona giuridica – che riflette l’essenza stessa del modello capitalistico a responsabilità limitata – impone che il rapporto tributario e le relative conseguenze sanzionatorie siano circoscritte all’ente, salvo che si accerti, attraverso istruttoria documentata, l’instrumentalità della società rispetto a fini di frode fiscale o l’assoluta inoperatività della stessa.

La sentenza CGT n. 1917/19/2025 assume così rilievo sistematico anche sotto il profilo della tutela del principio di legalità e del principio di personalità della responsabilità, sancito dall’articolo 27 della Costituzione, che si proietta nel diritto tributario attraverso l’esigenza che ogni sanzione trovi fondamento in una precisa e accertata condotta soggettiva colpevole. In assenza di un comportamento attivo, doloso o gravemente colposo, l’amministratore non può essere destinatario di un’obbligazione pecuniaria derivante da illecito tributario dell’ente.

Appare altresì rilevante il profilo motivazionale: la Corte ha censurato l’atto impugnato anche per l’assenza di una motivazione congrua e individualizzata in ordine al presunto ruolo attivo dell’amministratrice nella realizzazione della violazione, ribadendo che la motivazione dell’atto impositivo non può limitarsi alla mera indicazione della carica rivestita, ma deve articolarsi su elementi fattuali concreti, coerenti e documentabili.

La pronuncia in esame conferma la tendenza a rafforzare le garanzie soggettive in ambito tributario, riconoscendo la centralità del principio della separatezza patrimoniale e della personalità giuridica quale limite all’irrogazione di sanzioni personali, salvo che non emerga in modo documentato una situazione di abuso della forma giuridica. Si tratta di un orientamento che, se coerentemente recepito anche in sede amministrativa, potrebbe contribuire a ridurre l’eccessiva esposizione dei rappresentanti legali a responsabilità ex lege, restituendo equilibrio tra le esigenze di tutela dell’interesse fiscale e i diritti fondamentali dei soggetti coinvolti nell’attività societaria.

25 agosto 2025

 

La rilevanza disciplinare delle condotte extralavorative nel rapporto dirigenziale: la fatturazione fittizia quale causa di irrimediabile dissoluzione del vincolo fiduciario

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’ordinanza n. 2815 del 2025 della Corte di Cassazione si colloca nell’alveo di una giurisprudenza che, in materia di responsabilità del dirigente, valorizza in modo crescente il principio di integrità comportamentale come presupposto fondativo della fiducia, indipendentemente dalla connessione diretta tra la condotta contestata e le mansioni oggetto del contratto. La decisione assume rilievo sistematico, poiché affronta il tema della sanzionabilità di comportamenti extralavorativi, risalenti nel tempo e non contestualmente espressi nell’ambito della funzione dirigenziale, ma dotati di autonoma potenzialità disgregativa del vincolo fiduciario.

La vicenda sottoposta al vaglio della Suprema Corte concerne un dirigente licenziato per giusta causa, a seguito dell’accertamento – avvenuto successivamente alla sua nomina – di condotte illecite tenute nella precedente veste di amministratore della medesima società. Le condotte riguardavano la creazione e il mantenimento di un sistema contabile parallelo, la gestione di fatturazioni fittizie riferite a operazioni di sponsorizzazione sportive mai effettivamente realizzate e l’alterazione sistematica delle scritture contabili, con conseguente lesione della trasparenza fiscale e danno all’erario.

Secondo l’argomentazione difensiva, tali fatti, in quanto antecedenti all’instaurazione del rapporto di lavoro dirigenziale e – almeno formalmente – tollerati dalla precedente governance societaria, non avrebbero potuto legittimare un recesso per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del codice civile. Tale prospettazione, tuttavia, è stata radicalmente respinta dalla Corte, la quale ha ribadito che il presupposto di legittimità del licenziamento disciplinare del dirigente non risiede tanto nella collocazione temporale o funzionale della condotta, quanto nella sua attitudine oggettiva a compromettere irreversibilmente il rapporto fiduciario.

Sotto il profilo sistematico, la posizione della giurisprudenza di legittimità appare ancorata alla qualificazione della dirigenza come forma di lavoro subordinato a contenuto fiduciario accentuato, nel quale la lealtà, la correttezza e la trasparenza si pongono non come meri obblighi accessori, bensì come elementi strutturali e indefettibili del sinallagma contrattuale. In tale contesto, ogni condotta che, per la sua gravità oggettiva, si ponga in insanabile frizione con il dovere di affidabilità integrale, è idonea a giustificare il licenziamento in tronco, anche in assenza di una connessione diretta con le attività lavorative in senso stretto.

La rilevanza disciplinare delle condotte extralavorative è stata da tempo riconosciuta dalla giurisprudenza, anche con riferimento ai lavoratori non dirigenti, ogniqualvolta il comportamento abbia inciso sulla reputazione aziendale, sull’immagine del datore di lavoro o sull’idoneità del dipendente a mantenere il ruolo affidatogli. Tuttavia, con riguardo al dirigente, tale valutazione assume contorni più stringenti, in quanto l’affidamento fiduciario è elemento coessenziale e non meramente funzionale all’esecuzione delle prestazioni.

Nello specifico, la Corte ha ritenuto che l’occultamento dei fatti, la reiterazione delle condotte fraudolente, e la loro natura fraudolenta, costituissero elementi sintomatici di un disvalore tale da escludere la possibilità di prosecuzione del rapporto, anche solo in via provvisoria. Né può valere, in senso scriminante, l’asserita tolleranza dell’organo di amministrazione dell’epoca: la tolleranza interna non è idonea ad annullare l’illiceità oggettiva della condotta, né a sanarne ex post la portata lesiva rispetto al nuovo assetto fiduciario insorto con la nomina dirigenziale.

Inoltre, l’accertamento della falsità delle fatture, dell’esistenza di una contabilità parallela e della violazione degli obblighi informativi nei confronti dell’amministrazione subentrata, integra un insieme di condotte che travalicano il mero inadempimento contrattuale e si radicano in un piano penal-tributario, conferendo alla vicenda un’intensità sanzionatoria ancor più marcata. L’incompatibilità tra tali condotte e l’affidamento insito nel ruolo dirigenziale è, dunque, strutturale.

In questo quadro, l’ordinanza n. 2815/2025 contribuisce a consolidare un principio di diritto ormai largamente accolto in sede giurisprudenziale: nel rapporto dirigenziale, la giusta causa può fondarsi anche su fatti anteriori o estranei all’esecuzione della prestazione, ove essi risultino inconciliabili con la posizione fiduciaria e con l’affidabilità integrale che la funzione richiede. Non è dunque necessario che il fatto contestato costituisca inadempimento contrattuale in senso stretto, ma è sufficiente che ne discenda un irrimediabile pregiudizio alla fiducia del datore.

La portata sistemica della pronuncia si traduce in un rafforzamento della responsabilità personale del dirigente anche ultra partes rispetto al perimetro funzionale delle mansioni, con un’estensione del potere disciplinare del datore che trova fondamento nella natura speciale del rapporto e nella posizione di garanzia assunta dal lavoratore apicale. Tale impostazione, seppur rigorosa, appare coerente con l’evoluzione dell’ordinamento lavoristico, orientato a garantire la tutela dell’affidabilità e della correttezza anche in chiave extracontrattuale, specie in ambiti – come quello dirigenziale – in cui il danno da disvalore può essere reputazionale, sistemico e irreversibile.

25 agosto 2025

La struttura giuridica del contratto di lavoro intermittente tra condizioni oggettive, requisiti soggettivi e vincoli sanzionatori: la funzione integrativa della prassi amministrativa nell’interpretazione del D.Lgs. 81/2015

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’istituto del contratto di lavoro intermittente – disciplinato dagli articoli 13 ss. del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 – rappresenta uno strumento contrattuale ad alta intensità derogatoria rispetto alla disciplina generale del rapporto di lavoro subordinato, concepito per soddisfare esigenze produttive episodiche o discontinue, tipiche di settori a domanda irregolare. Proprio in virtù della sua configurazione flessibile e potenzialmente distorsiva dell’assetto ordinamentale, esso è assoggettato a una serie di condizioni di legittimità, la cui violazione implica non solo l’irregolarità del rapporto, ma anche l’automatica conversione del medesimo in rapporto a tempo pieno e indeterminato, con conseguente insorgenza di responsabilità retributiva, contributiva e sanzionatoria in capo al datore di lavoro.

La ricostruzione della disciplina di riferimento impone una lettura sistematica della normativa primaria, integrata dalle numerose interpretazioni rese dalla prassi amministrativa – in particolare dall’Ispettorato nazionale del lavoro (INL) – e da un corpus giurisprudenziale che, pur non ampio, si è dimostrato rilevante nell’arginare fenomeni di elusione del diritto del lavoro attraverso un uso improprio dello schema contrattuale in esame.

Ai sensi dell’articolo 13 del D.Lgs. 81/2015, la legittimità del contratto intermittente presuppone la ricorrenza alternativa di una delle seguenti condizioni: a) lo svolgimento di attività discontinua o intermittente, espressamente individuata dalla contrattazione collettiva ovvero, in mancanza, dalla tabella allegata al Regio decreto 6 dicembre 1923, n. 2657; b) il possesso da parte del lavoratore di determinati requisiti anagrafici, consistenti nell’età inferiore a 25 anni (con prestazione da concludersi prima del compimento del 25° anno) o superiore a 55 anni, inclusa la condizione di pensionamento.

Sotto il profilo oggettivo, l’elenco delle attività legittimanti – benché formalmente abrogato in via normativa dall’articolo 10 della legge 13 maggio 2025, n. 56 – continua a essere utilizzato dall’amministrazione come parametro interpretativo materiale, in assenza di criteri sostitutivi adottati dal legislatore delegato. Tale richiamo, sebbene privo di valore vincolante, costituisce un punto di riferimento operativo nella prassi ispettiva, come confermato dalla nota dell’INL n. 1180 del 10 luglio 2025, la quale ammette espressamente l’utilizzo del riferimento tabellare in funzione ricognitiva e integrativa.

Sotto il profilo soggettivo, la clausola anagrafica assume una funzione esonerativa rispetto al requisito oggettivo, consentendo il ricorso al contratto intermittente anche per attività non formalmente discontinue, purché il lavoratore rientri nei parametri di età sopra richiamati. In tali casi, non è necessario che l’attività svolta sia inclusa tra quelle indicate nella tabella ministeriale o nei contratti collettivi. Il presupposto soggettivo, in quanto previsto ex lege, ha natura tassativa e insuscettibile di estensione analogica.

Elemento di particolare rilevanza pratica è la comunicazione obbligatoria preventiva della chiamata, ex articolo 15, comma 3, del medesimo decreto legislativo. L’adempimento, da effettuarsi mediante modello “Uni-Intermittente”, riveste natura costitutiva della regolarità della prestazione. Il mancato invio comporta non solo l’irregolarità del rapporto, ma, secondo consolidato orientamento ispettivo, la riqualificazione della prestazione in lavoro subordinato ordinario, con potenziale applicazione delle sanzioni di cui all’articolo 18, comma 3, D.Lgs. n. 81/2015.

Ulteriore limite strutturale è rappresentato dal tetto massimo delle 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari con il medesimo datore, oltre le quali il rapporto si trasforma automaticamente, ex lege, in contratto a tempo pieno e indeterminato. Tale soglia, tuttavia, non trova applicazione nei settori turistico-alberghiero, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, nei quali la struttura della domanda giustifica una maggiore elasticità del vincolo temporale.

La prassi applicativa, oggetto di interpretazione da parte dell’INL, ha ulteriormente chiarito che l’uso del contratto a chiamata in concomitanza con trattamenti di integrazione salariale (CIG ordinaria o straordinaria) è ammesso esclusivamente per attività distinte rispetto a quelle interessate dal provvedimento di sospensione o riduzione dell’orario. Ciò in quanto, in presenza di mansioni coincidenti, si configurerebbe una violazione dell’obbligo di rotazione e del principio di effettività dell’intervento di sostegno al reddito.

Altro profilo emerso in sede di approfondimento riguarda l’impiego del contratto intermittente nelle imprese alimentari. La possibilità di accesso a tale tipologia contrattuale risulta subordinata all’inquadramento del datore di lavoro tra i pubblici esercizi, in conformità al codice attività ATECO. Sono dunque escluse dall’ambito applicativo le realtà aziendali che, seppur operanti nel medesimo comparto merceologico, non rientrano nella nozione giuridica di esercizio pubblico ai sensi delle disposizioni settoriali.

Il contratto di lavoro intermittente si presenta come uno strumento ad alta specializzazione giuridica, la cui legittimità è subordinata alla coerenza strutturale tra forma contrattuale e contesto operativo. La complessità applicativa, ulteriormente accresciuta dalla funzione integrativa della prassi amministrativa e dall’assenza di un quadro normativo compiutamente coordinato, impone un approccio cautelativo e altamente professionalizzato da parte dei consulenti del lavoro e dei datori. L’omessa verifica preliminare dei requisiti e degli adempimenti può dar luogo a rilevanti conseguenze sanzionatorie e giurisprudenziali, rendendo essenziale il ricorso a valutazioni ex ante e, ove necessario, a strumenti preventivi di chiarimento quali l’interpello amministrativo o la consulenza giuridica qualificata.

23 agosto 2023