La presunzione tributaria alla prova della crisi economica: proporzionalità, contesto e limiti dell’accertamento induttivo alla luce della sentenza CGT Emilia-Romagna n. 259/10/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’accertamento tributario fondato su presunzioni ha da sempre rappresentato un ambito delicato di intersezione tra l’esigenza dell’Amministrazione finanziaria di contrastare fenomeni evasivi e la necessità di garantire al contribuente la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, che non possono essere obliterate da una meccanica applicazione di logiche induttive. In questo quadro si inserisce con rilevanza sistematica la sentenza n. 259/10/2025 della Corte di giustizia tributaria (CGT) di secondo grado dell’Emilia-Romagna, la quale affronta in termini innovativi e costituzionalmente orientati il problema del coordinamento tra l’applicazione dell’articolo 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. 600/1973 e la necessaria considerazione del contesto macroeconomico in cui si inserisce la condotta economica del contribuente.

Il caso oggetto di scrutinio concerne l’attività accertativa esercitata nei confronti di un operatore nel settore del commercio di metalli preziosi (oro, argento e pietre rare), ritenuta dall’Amministrazione finanziaria antieconomica in quanto caratterizzata da perdite reiterate e da un’incongruenza strutturale tra costi sostenuti e ricavi dichiarati. L’ufficio ha ritenuto tale anomalia idonea a integrare un elemento presuntivo “grave, preciso e concordante”, legittimando la rideterminazione del reddito in via induttiva, in conformità all’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. V, n. 13187/2024).

La peculiarità dell’approccio adottato dalla CGT risiede tuttavia nella valorizzazione del contesto economico generale in cui tali risultati si sono maturati. I giudici tributari hanno rilevato come le perdite gestionali registrate nel periodo oggetto di accertamento fossero espressione di una crisi economica generalizzata, qualificata come “evento imprevisto, imprevedibile e non facilmente gestibile”, e non necessariamente indice di una gestione irrazionale o fraudolenta. Ne discende una critica netta al formalismo dell’argomentazione presuntiva dell’Ufficio, la cui efficacia non può prescindere da un’analisi contestuale del quadro economico di riferimento.

L’elemento centrale della pronuncia è il recupero, in sede tributaria, del principio di proporzionalità, quale canone di interpretazione e di applicazione del potere impositivo. Secondo la CGT, “valutare con numeri matematici e presunzioni periodi di oggettiva difficile gestione economica finisce per snaturare lo strumento della presunzione”. In tal modo, la Corte richiama la necessità di evitare una degenerazione del meccanismo presuntivo in automatismo probatorio, incompatibile con l’articolo 2729 del codice civile, che richiede, oltre alla gravità, anche la precisione e la concordanza della presunzione, parametri logicamente incompatibili con una decontestualizzazione della realtà imprenditoriale.

La pronuncia si inserisce in un filone giurisprudenziale che mira a riequilibrare i rapporti tra fisco e contribuente nel contesto dell’accertamento presuntivo, anche alla luce del rinnovato significato del principio di capacità contributiva ex articolo 53 della Costituzione. In tale prospettiva, la presunzione di antieconomicità non può fungere da strumento sanzionatorio in sé, ma deve sempre fondarsi su una valutazione che tenga conto della plausibilità economica del comportamento in relazione al contesto specifico. La Cassazione, con la sentenza n. 2561/2024, ha ribadito che è onere del contribuente giustificare un andamento gestionale in perdita, ma la CGT sottolinea che tale giustificazione deve essere letta in controluce rispetto all’effettiva possibilità di evitare l’esito negativo, senza presupporre in modo aprioristico una irrazionalità dell’agire imprenditoriale.

La portata innovativa della decisione si ravvisa nella costruzione di una presunzione “contestualizzata”, che riconosce nel fattore macroeconomico un parametro idoneo ad attenuare o persino a neutralizzare il valore indiziario di una gestione antieconomica. Ne discende una rinnovata esigenza di motivazione rafforzata in capo all’Amministrazione, la quale non potrà limitarsi a constatare la mera esistenza di dati anomali, ma sarà tenuta a esplicitare le ragioni per cui, nonostante la crisi, il comportamento del contribuente debba considerarsi inattendibile.

In definitiva, la pronuncia della CGT Emilia-Romagna delinea un approccio maturo e costituzionalmente orientato all’accertamento tributario, che si fonda sulla distinzione tra irrazionalità gestionale e difficoltà sistemica, tra evasione e crisi d’impresa. Essa promuove un utilizzo delle presunzioni fondato su criteri di coerenza sostanziale, legalità effettiva e rispetto del contesto, ridimensionando il rischio di abusi nell’utilizzo dello strumento induttivo da parte dell’Amministrazione. Tale orientamento, se fatto proprio in via stabile dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, potrebbe costituire il fondamento di una nuova stagione di equità tributaria, capace di tenere insieme l’interesse pubblico alla tutela dell’erario e i diritti fondamentali dei contribuenti, specialmente in periodi di congiuntura avversa.

23 agosto 2023

Esonero dal visto di conformità e soggetti trasparenti: l’inestensibilità soggettiva del beneficio al socio nel regime del concordato preventivo biennale

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

Il sistema tributario italiano, nell’ambito del controllo sull’utilizzo dei crediti fiscali in compensazione, si caratterizza da tempo per l’introduzione di presidi formali a garanzia della correttezza delle dichiarazioni e dell’effettività delle posizioni creditorie vantate dal contribuente. Tra questi, assume rilievo centrale l’istituto del visto di conformità, disciplinato in via generale dall’articolo 1, comma 574, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e successivamente integrato dall’articolo 3 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50. Esso costituisce condizione per l’utilizzo, in compensazione “orizzontale”, di crediti d’imposta eccedenti la soglia di 5.000 euro annui, ex articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241.

L’obbligo si inserisce in un contesto più ampio di rafforzamento del controllo formale ex ante, in funzione antielusiva e antifrode, mediante l’intervento di un soggetto abilitato (professionista o CAF) che, previo esame documentale, attesta la corrispondenza dei dati dichiarati con la contabilità e con i riscontri fiscali del contribuente. Tale strumento è stato ritenuto non solo compatibile, ma coerente con i principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità, in quanto volto a tutelare l’interesse erariale attraverso una verifica indipendente.

Nel tempo, tuttavia, sono stati introdotti meccanismi premiali che attenuano l’obbligo dell’apposizione del visto nei confronti di contribuenti ritenuti affidabili. In particolare, l’articolo 9-bis del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, ha introdotto il regime premiale connesso agli indici sintetici di affidabilità fiscale (ISA), che prevede l’esonero dal visto per i contribuenti che conseguano specifici livelli di scoring. Tali agevolazioni sono state poi estese, in via sistematica, anche ai soggetti che aderiscono al concordato preventivo biennale (CPB), istituto disciplinato dal D.Lgs. 12 febbraio 2024, n. 13, il quale consente l’accesso a un regime concordato di determinazione dell’imponibile, fondato su parametri presuntivi e impegni dichiarativi vincolanti per il contribuente.

Ai sensi dell’articolo 19, comma 3, del citato decreto, i benefici del regime premiale, ivi incluso l’esonero dal visto di conformità, si estendono ai soggetti ISA che accettino la proposta dell’Agenzia delle Entrate relativa al CPB, indipendentemente dal punteggio di affidabilità fiscale ottenuto. Ciò comporta, in termini pratici, che l’esonero spetta per la compensazione dei crediti emergenti dai modelli REDDITI e IRAP per i periodi d’imposta 2024 e 2025, entro il limite di 50.000 euro annui per le imposte dirette e l’IRAP.

Tuttavia, la questione si complica laddove si intenda verificare se tale esonero possa essere esteso anche ai soci di società di persone (o in generale ai soggetti “trasparenti”), che si trovino a dover indicare nella propria dichiarazione personale crediti derivanti dalla partecipazione in società beneficiaria del CPB. In tal senso, la prassi amministrativa – in particolare la risposta a interpello n. 411/2019 – ha fornito chiarimenti inequivoci: l’esonero dal visto si applica esclusivamente alla dichiarazione del soggetto che integra in sé la posizione fiscale attiva nei confronti dell’erario e non può essere esteso in modo riflesso a soggetti terzi, ancorché fiscalmente collegati.

Tale impostazione si fonda sul principio secondo cui il visto di conformità non è apposto sul singolo credito, bensì sull’intera dichiarazione da cui il credito emerge. Ne deriva che, anche qualora il credito indicato nella dichiarazione del socio tragga origine da ritenute trasferite dalla società partecipata, l’obbligo del visto permane in capo al socio, qualora egli intenda utilizzare tale credito in compensazione per importi superiori a 5.000 euro. L’attribuzione del credito per trasparenza non implica una surrogazione soggettiva nell’esonero riconosciuto alla società: ciò che rileva è il profilo personale del contribuente che effettua la compensazione, non la fonte giuridico-economica del credito stesso.

In tale prospettiva, l’Agenzia delle Entrate, nella risposta a interpello n. 176203/2025, ha confermato che per il periodo d’imposta 2024 l’esonero è subordinato, oltre che all’adesione al CPB, anche a determinate soglie di affidabilità fiscale pregressa (media pari almeno a 9 nei periodi 2023 e 2024, o a 8,5 nella media biennale, o a 8 per l’anno 2024). Al di sotto di tali soglie, il limite per la fruizione dell’esonero si riduce a 20.000 euro. Si tratta di soglie il cui accertamento si compie in relazione alla posizione del contribuente interessato (persona fisica o società), e non si estendono ai soci in forza del regime di trasparenza.

La ricostruzione fornita dall’Amministrazione appare conforme ai principi sistematici di personalità dell’obbligazione tributaria e di autoresponsabilità dichiarativa. Anche nei regimi di trasparenza, infatti, la dichiarazione del socio costituisce un autonomo atto giuridico-fiscale, dal quale discende l’obbligo di conformità formale per eventuali compensazioni. La funzione del visto non è quella di certificare la legittimità della fonte del credito, bensì di attestare la veridicità e la coerenza dell’intero contenuto dichiarativo. Ne deriva che l’apposizione del visto sulla dichiarazione della società non è idonea ad assolvere il medesimo obbligo in capo al socio, la cui dichiarazione resta formalmente distinta e autonomamente rilevante.

Il principio affermato nella prassi e ribadito dalla giurisprudenza amministrativa può così sintetizzarsi: l’esonero dal visto di conformità è beneficio di natura soggettiva e personale, applicabile esclusivamente alla dichiarazione del contribuente direttamente beneficiario della condizione premiale (ISA o CPB), e non estendibile ai soci per effetto della mera partecipazione societaria o del regime di trasparenza. Qualsiasi estensione richiederebbe un’esplicita previsione normativa, in difetto della quale non può che trovare applicazione la disciplina ordinaria.

23 agosto 2025

Segreto professionale e poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria: limiti di legittimità e principio di legalità nell’ordinanza n. 17228/2025 della Corte di Cassazione

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’ordinanza n. 17228 depositata dalla Corte di Cassazione in data 26 giugno 2025 si colloca all’interno di un ambito estremamente delicato del diritto tributario: il bilanciamento tra le esigenze istruttorie dell’Amministrazione finanziaria e la tutela del segreto professionale, quale presidio inderogabile del diritto di difesa e della riservatezza del rapporto fiduciario tra professionista e cliente. La pronuncia affronta una questione paradigmatica, concernente la legittimità dell’acquisizione, da parte della Guardia di Finanza, di documentazione rinvenuta in sede di verifica fiscale presso lo studio di un avvocato, successivamente all’opposizione del segreto professionale da parte di quest’ultimo.

Nel caso di specie, i verificatori avevano acquisito un blocknotes contenente, a loro dire, riferimenti a nominativi di clienti e compensi percepiti. A seguito dell’eccezione di segreto sollevata dal professionista, veniva esibita un’autorizzazione rilasciata dalla competente Procura della Repubblica, ma temporalmente anteriore rispetto all’opposizione formale e redatta in termini generici. L’Amministrazione ha poi fondato anche su tale documento l’avviso di accertamento, determinando un contenzioso che si è protratto sino al giudizio di legittimità.

La Corte di Cassazione ha confermato la nullità dell’acquisizione documentale, ribadendo principi consolidati in materia di limiti all’operatività dei poteri accertativi in presenza del segreto professionale. In particolare, il Collegio ha affermato che, ai sensi dell’articolo 52, comma 3, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, l’acquisizione di documentazione coperta da segreto può avvenire unicamente in forza di un’autorizzazione ad hoc dell’autorità giudiziaria, rilasciata in forma specifica e successivamente all’eccezione sollevata dal professionista. Non è pertanto sufficiente una preventiva autorizzazione “in bianco”, per definizione incapace di soddisfare il requisito della specificità e della contestualità richiesti dalla norma.

Tale impostazione si pone in linea di continuità non solo con la giurisprudenza delle Sezioni Unite, ma altresì con il principio, di matrice costituzionale e convenzionale, secondo cui ogni deroga a diritti fondamentali deve essere sorretta da un presupposto normativo chiaro, proporzionato e applicato secondo modalità rigorosamente previste dalla legge. Si richiama, in particolare, il disposto dell’articolo 7-quinquies della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), il quale sancisce l’inutilizzabilità, a fini impositivi, degli elementi probatori acquisiti in violazione di legge. La norma, nel recepire una serie di principi consolidati nella giurisprudenza costituzionale e della Corte di Giustizia dell’Unione europea, conferisce rilevanza sostanziale al corretto iter procedurale quale condizione di legittimità dell’accertamento tributario.

Il segreto professionale rappresenta, in tal senso, un limite di natura sostanziale e procedurale all’esercizio dei poteri coercitivi dell’amministrazione. Esso trova fondamento non solo nell’articolo 200 del codice di procedura penale, applicabile in via analogica al procedimento tributario, ma anche nell’articolo 24 della Costituzione, che tutela il diritto alla difesa in ogni stato e grado del procedimento. Ogni intervento ablativo in tal senso deve pertanto risultare strettamente funzionale e proporzionato, non potendosi ritenere sufficiente una legittimazione preventiva e generica, inidonea a bilanciare i diritti in conflitto.

La sentenza si distingue, inoltre, per l’esplicita valorizzazione della prassi amministrativa interna alla Guardia di Finanza, che, nelle proprie direttive operative, ha più volte ribadito l’obbligo di richiesta di autorizzazione specifica per l’acquisizione di documentazione professionale in caso di opposizione. L’inosservanza di tali linee guida, come accaduto nel caso di specie, non solo inficia la legittimità dell’operato dei verificatori, ma espone l’Amministrazione a conseguenze contenziose rilevanti, sino all’annullamento dell’atto impositivo e alla condanna alle spese processuali.

L’ordinanza n. 17228/2025 si inserisce autorevolmente in un filone giurisprudenziale volto a riaffermare il primato del principio di legalità sostanziale e il carattere garantistico dell’ordinamento tributario. Essa ribadisce che i poteri istruttori dell’Amministrazione, pur funzionali al corretto esercizio dell’azione accertativa, non possono travalicare i limiti imposti dal rispetto delle garanzie fondamentali del contribuente e dei professionisti. La deroga al segreto professionale, in quanto eccezione ad un principio di ordine pubblico, deve essere interpretata in senso restrittivo e applicata nel rispetto di stringenti condizioni procedurali, onde evitare derive autoritarie incompatibili con lo Stato di diritto e la tutela effettiva dei diritti fondamentali.

23 agosto 2023