Discrezionalità giudiziale e sistema sanzionatorio dei licenziamenti: una riflessione sulla torsione giurisprudenziale del modello post-Jobs Act

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La più recente evoluzione interpretativa delle disposizioni in materia di licenziamento illegittimo, segnata da una sequenza di pronunce della Corte costituzionale tra il 2018 e il 2025, ha ridisegnato in modo profondo — e sotto molti aspetti problematico — l’assetto normativo delineato dal legislatore con il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, attuativo della delega contenuta nella legge n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act). L’impianto riformatore, orientato a ridurre l’incertezza applicativa e ad assicurare un più razionale bilanciamento tra tutela del lavoratore e esigenze di certezza per l’impresa, appare oggi ampiamente disarticolato. La progressiva erosione dei suoi pilastri — in particolare la predeterminazione tabellare dell’indennità risarcitoria e la marginalizzazione della tutela reintegratoria — ha condotto ad una ri-espansione del potere valutativo del giudice, accompagnata da un’accentuata imprevedibilità delle conseguenze giuridiche del recesso datoriale.

La sentenza n. 194 del 2018 ha costituito il primo, significativo intervento demolitorio, dichiarando l’illegittimità costituzionale del meccanismo di quantificazione dell’indennizzo esclusivamente ancorato all’anzianità di servizio. Secondo la Consulta, un simile criterio si risolveva in una liquidazione forfetizzata del danno, tale da omologare situazioni tra loro disomogenee e precludere una valutazione calibrata sulla gravità del vizio del licenziamento. La rigidità del parametro legale veniva così giudicata incompatibile con i principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui agli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione, in quanto precludeva un apprezzamento giudiziale delle circostanze concrete del caso.

Successivamente, con la sentenza n. 118 del 2025, la Corte ha ulteriormente inciso sulla coerenza del sistema sanzionatorio, ritenendo costituzionalmente illegittimo il tetto massimo di sei mensilità previsto per i lavoratori illegittimamente licenziati da imprese minori. La previsione, contenuta nel Jobs Act e applicabile ai rapporti instaurati successivamente al 7 marzo 2015, impediva ogni modulazione giudiziale dell’indennità in funzione della gravità della condotta datoriale o del pregiudizio subito dal lavoratore. La Consulta ha così imposto l’applicazione, anche in tali ipotesi, di un range più ampio (tra tre e diciotto mensilità), sottraendo definitivamente la quantificazione del risarcimento a ogni vincolo predeterminato e rafforzando la discrezionalità del giudice quale criterio ordinante del sistema.

Non meno incisiva è la linea interpretativa tracciata dalle decisioni relative alla tutela reale. La sentenza n. 22 del 2024 ha riconosciuto l’operatività della reintegra non solo nei casi in cui la nullità del licenziamento sia espressamente prevista dalla legge, ma anche in tutte le ipotesi in cui tale nullità sia desumibile da una violazione di norme imperative. Tale ricostruzione, pur formalmente coerente con il dettato dell’articolo 1418, comma 1, del codice civile, determina un’incertezza strutturale circa l’ambito applicativo della sanzione reintegratoria, poiché apre la porta a interpretazioni estensive e variabili in funzione della sensibilità del singolo giudicante.

La sentenza n. 128 del 2024 ha, dal canto suo, esteso l’applicazione della tutela reale attenuata anche ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, in presenza di comprovata insussistenza del presupposto economico-organizzativo addotto dal datore di lavoro. Tale orientamento ha formalmente equiparato il regime sanzionatorio tra recesso disciplinare e recesso per giustificato motivo oggettivo, superando l’impianto del Jobs Act che riservava alla sola ipotesi disciplinare l’applicabilità della reintegra attenuata.

In materia di licenziamento disciplinare, infine, la pronuncia n. 129 del 2024 ha sancito la spettanza della tutela reintegratoria qualora il fatto contestato, pur esistente, risulti sanzionato dalla contrattazione collettiva con una misura conservativa. Ciò implica, in sostanza, che l’operatore giudiziale debba procedere ad un’interpretazione estensiva del contenuto e del perimetro applicativo del codice disciplinare, anche in presenza di clausole generiche o indeterminate. In tal modo, la valutazione della proporzionalità del licenziamento è nuovamente ricondotta alla discrezionalità del giudice, a discapito della funzione regolativa della contrattazione collettiva.

Il quadro normativo che emerge da tale stratificazione giurisprudenziale risulta dunque caratterizzato da una progressiva decostruzione dell’apparato sanzionatorio delineato nel 2015 e da un ritorno, per molti versi disordinato, a una configurazione giurisprudenziale di tipo casistico. Ciò determina una frammentazione delle tutele, una riduzione della prevedibilità giuridica e una compressione del principio di legalità sostanziale, con effetti distorsivi tanto per i lavoratori quanto per le imprese. Né si può trascurare il rischio, già segnalato in dottrina, di una perdita di certezza del diritto che mina la fiducia nell’ordinamento e ostacola l’attrattività del sistema produttivo nazionale.

Alla luce di tali considerazioni, si impone un rinnovato intervento del legislatore che, pur tenendo conto dei vincoli derivanti dal giudicato costituzionale, persegua l’obiettivo di una ristrutturazione coerente ed efficace del sistema delle sanzioni in caso di licenziamento illegittimo. In tale prospettiva, la valorizzazione del rimedio indennitario, accompagnata da una tipizzazione delle fattispecie di reintegra e da una codificazione rigorosa dei criteri di quantificazione del danno, rappresenta una via d’uscita necessaria per ripristinare un quadro normativo ispirato ai principi di certezza, prevedibilità e proporzionalità, in linea con gli standard dello Stato di diritto e con le esigenze dell’economia contemporanea.

23 agosto 2025

 

Accessi fiscali e obbligo di motivazione: verso un rinnovato equilibrio tra potere investigativo e garanzie del contribuente nella disciplina nazionale ed europea

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’introduzione dell’articolo 13-bis nel corpo dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212), ad opera dell’articolato normativo di cui al decreto-legge 29 giugno 2025, n. 84, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2025, n. 108, segna una rilevante cesura nella disciplina degli accessi fiscali. La novella interviene non solo in chiave di razionalizzazione del procedimento ispettivo, ma soprattutto come misura di potenziamento delle garanzie informative riconosciute ai soggetti sottoposti a verifica, imponendo, quale condizione indefettibile di legittimità, la motivazione espressa, analitica e congruente sia dell’atto autorizzativo sia del verbale redatto in sede di accesso.

La riforma si colloca all’intersezione di due piani: da un lato, quello interno, relativo alla tutela del contribuente nell’ambito del rapporto tributario e del procedimento di accertamento; dall’altro, quello sovranazionale, determinato dalle pressioni derivanti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Emblematica, in tal senso, risulta la sentenza resa nel caso di un contribuente italiano, nella quale è stato censurato l’ordinamento nazionale per la genericità delle autorizzazioni rilasciate in occasione degli accessi, ritenute non conformi agli standard richiesti dagli articoli 6 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), con particolare riguardo al diritto alla riservatezza e alla tutela del domicilio.

L’articolo 12 dello Statuto già sanciva, sin dalla sua originaria formulazione, la necessità che gli accessi presso i luoghi destinati all’esercizio di attività imprenditoriali, commerciali, agricole, artistiche o professionali fossero effettuati sulla base di concrete esigenze di indagine e controllo. Tuttavia, tale previsione, sebbene sostanziale, non imponeva una formalizzazione dettagliata delle motivazioni a supporto dell’intervento. La nuova disciplina, al contrario, eleva a requisito di validità la giustificazione formale e sostanziale dell’accesso, imponendo un obbligo motivazionale articolato, coerente con i criteri di proporzionalità e necessità, pilastri del diritto amministrativo europeo.

Particolarmente pregnante appare l’impatto della disposizione sui diversi livelli di autorizzazione: per gli accessi presso locali nei quali si esercita attività economica, la legittimazione è demandata al responsabile dell’articolazione competente della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate, il quale dovrà articolare una motivazione non più fondata su formule cristallizzate o meramente assertive, ma sulla rappresentazione di un quadro indiziario concreto e circostanziato. Analoga esigenza sussiste per l’autorizzazione della Procura della Repubblica in relazione ai locali a uso promiscuo, ove coesistano attività professionale e funzione abitativa: in tali casi, si supera l’orientamento sinora prevalente, secondo cui la mera presa d’atto dell’uso promiscuo era sufficiente a giustificare l’intervento.

Non può non evidenziarsi, tuttavia, una lacuna ermeneutica che affiora con particolare evidenza in relazione agli accessi presso immobili destinati a uso esclusivamente abitativo, disciplinati dall’articolo 52 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633. Tali interventi, già sottoposti alla condizione della sussistenza di gravi indizi di violazioni tributarie e subordinati all’autorizzazione del Procuratore della Repubblica, parrebbero, in virtù del tenore letterale della nuova norma, esclusi dal perimetro applicativo dell’obbligo motivazionale. Ne deriverebbe, in maniera paradossale, una maggiore intensità di tutela nei confronti degli accessi meno invasivi rispetto a quelli aventi ad oggetto l’ambiente più intimo e tutelato della persona, la dimora privata. Tale discrasia appare incompatibile con i principi di proporzionalità e coerenza sistematica, e pone l’interprete dinanzi alla necessità di operare una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma, estendendone l’ambito anche a queste ipotesi.

Del resto, la prassi operativa evidenzia come, anche in presenza dei requisiti sostanziali richiesti dal D.P.R. n. 633/1972, le motivazioni addotte nei provvedimenti autorizzativi relativi agli accessi domiciliari risultino sovente generiche, se non lacunose. È pertanto auspicabile che l’obbligo di motivazione venga ritenuto applicabile, in via interpretativa, anche a tali casi, al fine di preservare l’unitarietà dell’ordinamento e l’effettività della tutela dei diritti fondamentali.

In prospettiva, si pone altresì il problema della determinazione del contenuto minimo essenziale della motivazione, nonché della soglia oltre la quale la stessa possa ritenersi adeguata. La consuetudine a redigere verbali di verifica secondo moduli standardizzati, sovente privi di una reale individualizzazione del caso concreto, dovrà essere superata in favore di una motivazione effettiva, strutturata e pertinente, capace di conferire trasparenza e tracciabilità all’operato delle autorità accertatrici.

In ultima analisi, la novella del 2025 si inserisce in un contesto evolutivo del diritto tributario sostanziale e procedimentale, segnando un punto di svolta nell’equilibrio tra potere ispettivo dell’amministrazione finanziaria e diritto alla riservatezza e alla difesa del contribuente. Se ben attuata, essa potrà rappresentare un presidio avanzato contro gli abusi e una garanzia concreta di legalità sostanziale. Resta il nodo, tutto operativo e interpretativo, di definire modalità, criteri e contenuti della nuova motivazione obbligatoria, con l’auspicio che sia la prassi amministrativa, più ancora che la giurisprudenza, a fornire i primi orientamenti chiarificatori, prevenendo le incertezze applicative che sovente accompagnano le riforme in materia fiscale.

23 agosto 2025

L’irregolarità nella procedura di rimborso spese e la sua rilevanza ai fini del licenziamento per giusta causa nell’ambito dei sistemi aziendali informatizzati: spunti ricostruttivi a partire dall’ordinanza n. 23189/2025 della Corte di Cassazione

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’ordinanza n. 23189/2025 della Corte di Cassazione offre un’importante occasione per riflettere sul delicato rapporto tra l’irregolarità formale nella gestione delle procedure aziendali informatizzate e la configurabilità di una condotta idonea a fondare un licenziamento per giusta causa. La vicenda sottesa alla pronuncia riguarda una lavoratrice che, avvalendosi del portale automatizzato messo a disposizione dal datore di lavoro per la gestione delle spese di trasferta, ha richiesto il rimborso di un importo superiore a novecento euro, comprensivo di oltre duecentocinquanta euro successivamente esclusi dal computo rimborsabile in quanto ritenuti estranei alla prestazione lavorativa e carenti di giustificazione documentale idonea.

La questione dirimente che il Supremo Collegio è stato chiamato a scrutinare concerne la qualificazione della condotta della dipendente quale mera irregolarità formale oppure quale violazione sostanziale degli obblighi contrattuali, idonea a integrare una causa di licenziamento per giusta causa ex articolo 2119 del codice civile. La Corte ha ritenuto che, nel contesto di una procedura aziendale automatizzata con controllo ex post da parte del datore di lavoro, la condotta in esame non possa essere elevata al rango di comportamento fraudolento, mancando l’elemento soggettivo del dolo specifico.

In questa prospettiva, la Corte ha valorizzato la struttura funzionale del sistema informatico predisposto dal datore di lavoro, il quale, prevedendo l’inserimento unilaterale da parte del dipendente dei dati relativi alla spesa sostenuta, seguita da una fase di validazione e controllo a cura dell’azienda, non consente di ritenere che la mera presentazione di spese non coerenti con la policy aziendale integri, di per sé, una volontà elusiva o fraudolenta. La produzione di documentazione non conforme o lacunosa, infatti, si colloca nell’ambito di una violazione procedurale suscettibile di essere qualificata come inadempimento non grave, e pertanto inidoneo a giustificare la misura espulsiva, salvo la prova di ulteriori elementi che attestino la volontarietà e la consapevolezza dell’abuso.

Sotto il profilo sistematico, la pronuncia si inserisce nel solco di una giurisprudenza che, pur non escludendo in astratto la configurabilità del dolo nel contesto di sistemi automatizzati, richiede che tale elemento soggettivo emerga in maniera inequivoca e sia sorretto da riscontri oggettivi, in ossequio ai principi di proporzionalità, gradualità e tipicità delle sanzioni disciplinari. Il principio di affidamento reciproco che governa il rapporto di lavoro subordinato – fondato sull’adempimento degli obblighi di diligenza, correttezza e buona fede ex articoli 1175, 1375 e 2104 del codice civile – non può ritenersi irrimediabilmente compromesso da una condotta che, pur censurabile sotto il profilo organizzativo, non presenti connotazioni di fraudolenza.

Merita rilievo anche il profilo connesso alla responsabilità organizzativa del datore di lavoro, il quale, nell’adozione di strumenti digitali per la gestione delle spese, assume un obbligo di predisposizione di controlli interni effettivi e tempestivi. La diligenza professionale qualificata cui è tenuto l’imprenditore nella regolamentazione dei processi aziendali esclude che l’assenza di un sistema di validazione in tempo reale possa essere surrettiziamente addotta per aggravare la posizione del lavoratore in sede disciplinare. In tale contesto, l’irregolarità documentale, ancorché reiterata, non può essere assunta come presunzione assoluta di dolo, se non è integrata da una prova rigorosa della consapevole volontà elusiva.

Il contrasto tra le decisioni di merito e quella della Cassazione evidenzia la necessità di una lettura coerente e sistematica dei principi che regolano il licenziamento disciplinare nell’era della digitalizzazione delle procedure aziendali. In particolare, la configurabilità dell’abusività della clausola disciplinare, ove applicata automaticamente a comportamenti non fraudolenti, sollecita una riflessione sul bilanciamento tra potere direttivo e sanzionatorio del datore e le garanzie del lavoratore in ordine alla tutela dell’affidamento e alla tipicità delle condotte sanzionabili.

In definitiva, l’ordinanza in commento contribuisce a rafforzare l’orientamento volto a circoscrivere l’ambito di operatività del licenziamento per giusta causa in ipotesi di irregolarità procedurali prive di dolo, affermando il principio per cui la natura automatizzata della procedura di rimborso e il controllo differito ad opera dell’azienda costituiscono elementi ostativi alla configurazione di una condotta fraudolenta. Tale approccio si pone in linea con i più avanzati criteri ermeneutici in materia di giustizia contrattuale e tutela del contraente debole nel rapporto di lavoro subordinato, riaffermando il primato dei principi di proporzionalità e ragionevolezza nell’applicazione delle sanzioni disciplinari.

22 agosto 2025