L’autonomia organizzativa come elemento dirimente nella qualificazione del contratto di appalto: riflessioni sulla sentenza n. 137/2/2025 della Commissione Tributaria di Reggio Emilia

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

Nel panorama giurisprudenziale in materia di contrattualistica d’impresa, il confine tra appalto genuino e somministrazione illecita di manodopera continua a costituire una delle principali aree di frizione interpretativa, in particolare con riguardo alle conseguenze fiscali e previdenziali che ne derivano. La sentenza n. 137/2/2025 della Commissione Tributaria di primo grado di Reggio Emilia si colloca in tale alveo e ribadisce, con argomentazioni particolarmente puntuali, la centralità dell’autonomia organizzativa dell’appaltatore quale presupposto indefettibile per escludere la riqualificazione del contratto in termini di illecita interposizione lavorativa.

La vicenda trae origine da un contratto stipulato nel 2016 tra una società a responsabilità limitata e un consorzio, avente ad oggetto l’affidamento di attività lavorative su prodotti semilavorati. Tali attività, inizialmente eseguite da una consorziata (X), erano successivamente affidate ad altra consorziata (Y). Nel corso di un accesso ispettivo eseguito nel 2022, la Guardia di Finanza riscontrava la presenza di personale della consorziata “Y” all’interno dello stabilimento della committente, inducendo l’amministrazione finanziaria a riqualificare il contratto come somministrazione di manodopera e a disconoscere, per l’anno d’imposta 2020, la detraibilità dell’Imposta sul Valore Aggiunto (IVA) e la deducibilità dei costi ai fini dell’Imposta Regionale sulle Attività Produttive (IRAP).

La difesa articolata dalla società si fondava su due direttrici principali: da un lato, la discrasia temporale tra l’anno oggetto di accertamento e l’epoca dell’accesso ispettivo; dall’altro, la prova documentale e testimoniale circa l’effettiva autonomia organizzativa esercitata dalla consorziata “X” nel 2020, anno di competenza fiscale oggetto di contestazione.

La Commissione Tributaria, nel pronunciarsi in senso favorevole alla contribuente, si è richiamata espressamente all’articolo 29, comma 1, del Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276, evidenziando come la genuinità del contratto d’appalto richieda la simultanea sussistenza di elementi sostanziali tra cui l’assunzione del rischio d’impresa, l’organizzazione autonoma dei mezzi e del lavoro, nonché l’assenza di eterodirezione da parte del committente. In particolare, la sentenza valorizza l’autonomia gestionale dell’appaltatore, anche nell’ambito di cosiddetti “appalti leggeri”, ove la prestazione risulti eminentemente laboriosa e poco capitalizzata.

Degno di nota è il passaggio in cui i giudici tributari affermano che l’utilizzo di strumenti propri, seppur modesti, e l’effettiva capacità decisionale esercitata dall’appaltatore nella gestione del personale costituiscono indici sufficienti per ritenere sussistente l’autonomia organizzativa. In tale ottica, l’assenza di un articolato apparato materiale non costituisce ex se indice di interposizione fittizia, qualora risulti provato che l’appaltatore si assuma il rischio economico connesso all’esecuzione della prestazione e gestisca direttamente, e in piena autonomia, il personale impiegato.

La pronuncia si allinea all’orientamento consolidato della Corte di Cassazione, secondo cui la qualificazione del contratto di appalto non può prescindere da un’indagine di natura sostanziale e casistica, volta ad accertare se all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato economicamente rilevante e giuridicamente autonomo, da raggiungersi mediante una propria organizzazione dei mezzi e con assunzione del rischio d’impresa.

Sotto il profilo tributario, l’effetto della sentenza si traduce nel pieno riconoscimento del diritto alla detrazione dell’IVA e alla deducibilità del costo ai fini IRAP, venendo meno il presupposto della riqualificazione negoziale in termini di illecita somministrazione. Tale impostazione si dimostra coerente con i principi dell’imposizione fiscale e del giusto procedimento, ponendosi altresì a garanzia della libertà contrattuale dell’impresa e del principio di certezza del diritto.

La decisione in commento rappresenta un importante momento di chiarificazione in una materia che, per la sua intrinseca complessità e per la rilevanza economica che riveste, necessita di un approccio rigorosamente fondato sulla coerenza sistematica tra diritto del lavoro, diritto civile e normativa tributaria. L’enfasi posta sull’autonomia organizzativa quale criterio dirimente conferma l’esigenza di valorizzare l’effettività delle dinamiche imprenditoriali, contrastando approcci formalistici e favorendo un’interpretazione sostanzialista orientata alla tutela della leale concorrenza e della corretta imposizione.

14 agosto 2025

L’accertamento induttivo nelle Srl a ristretta base: il limite dell’antieconomicità apparente

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’esame della sentenza n. 3026/5/2025 della Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania consente di riflettere su un tema cruciale in materia di accertamento tributario delle società a responsabilità limitata a ristretta base partecipativa, ovverosia quelle configurazioni societarie in cui la compagine sociale si riduce a pochi soci, spesso legati da vincoli familiari o comunque personali. In tali ipotesi, l’Amministrazione finanziaria tende sovente a sospettare una distribuzione occulta di utili in presenza di sproporzioni ritenute ingiustificate tra costi e ricavi, ricorrendo all’accertamento analitico-induttivo.

Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva fondato l’accertamento su una pretesa antieconomicità rilevata in sede di analisi delle dichiarazioni fiscali per il triennio 2015-2017. A fronte di una redditività apparente pari al 2,76%, giudicata incongrua rispetto ai costi del personale sostenuti (oltre 130mila euro nel solo 2016), l’Ufficio aveva ritenuto configurabile una distribuzione di dividendi non dichiarati, parametrando tali utili occulti al compenso medio unitario dei dipendenti. Ne erano scaturiti tre distinti avvisi di accertamento: uno nei confronti della società e due a carico delle socie, in quanto ritenute beneficiarie dei proventi occulti.

La difesa delle contribuenti ha articolato la propria linea argomentativa, da un lato, attraverso una corretta ricostruzione degli indici di redditività (Return on Equity – ROE e Return on Sales – ROS), i quali risultavano perfettamente coerenti con i parametri medi di settore; dall’altro, producendo idonea documentazione attestante l’esistenza di redditi da lavoro dipendente percepiti all’esterno dalle socie, a dimostrazione della liceità della gestione societaria e dell’assenza di qualsiasi forma di distribuzione dissimulata di utili.

La Corte tributaria di primo grado aveva disatteso tali argomentazioni, aderendo alla prospettazione dell’Amministrazione finanziaria. Tuttavia, in sede di gravame, i giudici di secondo grado hanno accolto l’appello, ritenendo fondate le censure difensive. Il Collegio ha valorizzato due profili: in primo luogo, l’assenza di contestazioni puntuali alla documentazione prodotta dalle contribuenti; in secondo luogo, la carenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, così come richiesto dalla consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cass., sent. n. 9722/2015, n. 6978/2015, n. 14068/2014).

Appare evidente come l’onere probatorio in tema di antieconomicità gravi in capo all’Amministrazione, la quale è chiamata a dimostrare l’irragionevolezza della condotta imprenditoriale del contribuente, anche alla luce delle più recenti pronunce di legittimità (Cass., ord. n. 21531/2024). In difetto di tale dimostrazione, non può ritenersi legittimo l’accertamento induttivo, pena una lesione del principio di libera iniziativa economica, costituzionalmente garantito.

Nel caso de quo, la Corte ha ritenuto che la presenza di redditi esterni in capo alle socie, regolarmente documentati, fosse elemento sufficiente a escludere l’esistenza di una distribuzione occulta di utili, facendo venir meno la presunzione di antieconomicità che sorreggeva l’accertamento. Ciò implica un importante principio di diritto: la gestione societaria non può dirsi aprioristicamente antieconomica per il solo fatto di presentare margini ridotti, ove sia fornita dal contribuente una plausibile spiegazione del disequilibrio economico rilevato.

Il contributo giurisprudenziale in esame si colloca nel solco di un orientamento volto a temperare l’utilizzo dell’accertamento induttivo in presenza di società a ristretta base, evitando che la ridotta compagine sociale si trasformi in un mero criterio presuntivo di evasione, in assenza di riscontri fattuali concreti e oggettivi.

14 agosto 2025

La rappresentanza sostanziale del minore nel nuovo processo di famiglia: il ruolo strategico del curatore speciale

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’articolo 473-bis.8 del Codice di procedura civile, introdotto dal decreto legislativo n. 149 del 2022 nell’ambito della riforma Cartabia, ha rappresentato una svolta sistemica nella disciplina della rappresentanza legale del minore nei procedimenti giudiziari, attribuendo al curatore speciale un ruolo centrale di garante dei diritti soggettivi, anche sotto il profilo patrimoniale. La portata innovativa della norma si manifesta non soltanto nella previsione della nomina obbligatoria del curatore in caso di inadeguata rappresentanza genitoriale o su richiesta del minore ultraquattordicenne, ma soprattutto nella possibilità di conferirgli specifici poteri di rappresentanza sostanziale.

Tale configurazione si traduce in un significativo rafforzamento della funzione protettiva del minore, il quale, lungi dall’essere un mero oggetto del processo, acquisisce, per il tramite del curatore, una presenza attiva e sostanziale nella dinamica processuale e nella tutela dei propri interessi economici. In tal senso, il curatore speciale agisce non solo in sostituzione dei genitori nelle ipotesi di conflitto di interessi, ma anche quale soggetto capace di far valere con autonomia i diritti del minore, sviluppando un’attività che si estende ben oltre i limiti della rappresentanza processuale.

La recente ordinanza del Tribunale di Roma del 4 giugno 2025 costituisce un esemplare sviluppo giurisprudenziale dell’articolato assetto normativo introdotto dalla riforma Cartabia. In tale contesto, il giudice ha conferito al curatore speciale del minore un mandato di ampia portata, volto a quantificare il debito del genitore inadempiente all’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento, a verificarne le azioni giudiziarie eventualmente intraprese dal genitore affidatario e a relazionare su tale attività mediante una dettagliata memoria istruttoria. L’intervento del curatore è così finalizzato alla ricostruzione oggettiva, non filtrata dagli interessi contrapposti delle parti, della situazione debitoria gravante sul genitore e del corrispondente credito spettante al minore.

Particolare rilievo assume la previsione di una serie di poteri accessori, autorizzati espressamente dal giudice, quali la possibilità di interloquire con i servizi sociali, di acquisire atti giudiziari presso uffici competenti e di ottenere informazioni direttamente dalle parti processuali. Si tratta di prerogative che, sebbene accessorie, assumono valenza strategica nell’attuazione della funzione sostanziale attribuita al curatore speciale, giacché gli consentono di costruire una rappresentazione fattuale accurata e giuridicamente rilevante della condotta economica e patrimoniale dei genitori.

Si evidenzia altresì l’integrazione di tale dispositivo con ulteriori strumenti di indagine quali gli accertamenti di polizia tributaria a mezzo della Guardia di Finanza, diretti a far luce sul tenore di vita, sulla consistenza patrimoniale e reddituale, sulla partecipazione a compagini societarie e sull’esistenza di rapporti finanziari dei genitori. In questo scenario, l’intervento del curatore assume un carattere sinergico rispetto all’attività istruttoria disposta dal giudice, concorrendo a formare un quadro probatorio ampio, trasparente e non viziato da reticenze o opacità dichiarative.

Inoltre, la finalità del giudice di valutare anche l’effettività dell’esercizio della responsabilità genitoriale da parte del genitore affidatario, con particolare riferimento alla diligenza nella tutela del credito del minore, conferma la tendenza della giurisprudenza ad un approccio sostanzialistico nella valutazione dei comportamenti genitoriali, che devono dimostrarsi coerenti con l’obbligo di protezione e promozione dell’interesse superiore del figlio minore.

È in tale cornice che si consolida la figura del curatore speciale come soggetto titolare di un incarico ad alta intensità tecnica e deontologica, il cui corretto esercizio impone una professionalità elevata, una preparazione giuridica solida e una capacità di interazione interistituzionale funzionale alla tutela sostanziale dei diritti del minore. La diligenza professionale qualificata che deve caratterizzare l’operato del curatore si traduce, dunque, in un’attività orientata non solo all’efficacia giuridica, ma anche alla concretezza sociale dell’intervento protettivo.

Appare evidente, pertanto, che il principio del superiore interesse del minore, cui ogni intervento giudiziale deve essere conformato, trova nella valorizzazione del curatore speciale e nella sua capacità operativa un punto di snodo cruciale. La giurisprudenza di merito, come dimostrato dal Tribunale di Roma, mostra una crescente sensibilità nel considerare il minore quale soggetto di diritto autonomo, la cui voce e le cui esigenze trovano espressione e tutela non più solo formale ma pienamente sostanziale, anche in ambito patrimoniale, grazie alla mediazione qualificata del curatore speciale.

12 agosto 2025