Affidamento e diritto di visita degli animali da compagnia nei contesti di crisi familiare: profili critici e prospettive di riforma

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

Nel progressivo mutamento delle dinamiche familiari e nell’ampliamento della nozione stessa di relazione affettiva, l’affidamento degli animali da compagnia in occasione della cessazione della convivenza rappresenta un terreno giuridicamente problematico, collocato all’incrocio fra la tutela del legame affettivo e la rigida dogmatica della proprietà mobiliare. Nonostante l’ordinamento europeo e, in parte, anche quello nazionale abbiano formalmente riconosciuto la senzienza dell’animale – concetto che si discosta radicalmente dalla tradizionale qualificazione civilistica del medesimo come res –, permane nel sistema italiano un evidente scarto fra l’evoluzione del sentire sociale e il dato normativo, tuttora ancorato a una concezione patrimoniale e strumentale dell’animale d’affezione.

L’assenza, nell’ambito del diritto di famiglia, di una disciplina positiva che regolamenti espressamente la sorte degli animali domestici all’atto della cessazione del rapporto coniugale o di convivenza, determina un vuoto normativo che la giurisprudenza ha tentato di colmare mediante l’applicazione analogica di principi desunti da altri settori dell’ordinamento o mediante il ricorso a istituti tipici del diritto delle cose, quale la tutela possessoria. Tuttavia, tali soluzioni appaiono, sul piano sistematico, inadeguate a cogliere la complessità del fenomeno relazionale e a offrire una protezione effettiva al vincolo affettivo che lega l’essere umano all’animale da compagnia.

In sede di separazione consensuale, la giurisprudenza di merito ha manifestato una certa disponibilità ad accogliere patti tra i coniugi che, mutuando le categorie previste per l’affidamento dei figli minori, disciplinano la permanenza dell’animale presso l’uno o l’altro partner, nonché i tempi e le modalità di visita. Tali accordi, fondati sull’autonomia privata, sono stati sovente considerati meritevoli di tutela in quanto coerenti con il principio di autoresponsabilità e con la valorizzazione del rapporto affettivo quale bene giuridicamente rilevante.

Di segno opposto è l’approccio nei procedimenti giudiziali, nei quali la mancanza di una previsione normativa specifica ha condotto la giurisprudenza ad escludere la possibilità per il giudice di statuire autonomamente sull’affidamento dell’animale o sul diritto di visita in assenza di un’intesa tra le parti. Il Tribunale di Rovigo, con ordinanza del 15 maggio 2025, ha emblematicamente riaffermato tale orientamento, negando la tutela cautelare ex art. 700 c.p.c. invocata da un coniuge separato, che lamentava un grave turbamento emotivo conseguente all’interruzione della frequentazione con il cane condiviso durante il matrimonio. Il giudice, nel rigettare il ricorso, ha ribadito l’inapplicabilità della disciplina familiare al caso di specie, richiamando la natura mobiliare dell’animale e la conseguente necessità, per il ricorrente, di adire l’autorità giudiziaria ordinaria mediante azione possessoria.

Il rimedio possessori, sebbene teoricamente ammissibile, presuppone la dimostrazione dell’esistenza di un rapporto significativo tra l’animale e la persona che agisce in giudizio, nonché l’interruzione arbitraria del relativo godimento da parte del detentore esclusivo. Si tratta di una tutela indiretta e insufficiente, poiché si fonda su presupposti estranei alla natura relazionale del legame affettivo. Tale impostazione è stata ripresa anche dal Tribunale di Pescara, che con ordinanza del 15 febbraio 2025 ha ritenuto inammissibile la domanda cautelare avanzata da una ex compagna, rilevando tuttavia la possibilità di agire in via possessoria, a condizione di fornire prova della continuità e stabilità del rapporto con l’animale.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8459 del 2023, ha a sua volta stabilito che il diritto all’affidamento o alla comproprietà dell’animale può essere riconosciuto solo in presenza di indici oggettivi attestanti l’esistenza di un legame affettivo durevole e qualificato, come la convivenza, l’assistenza sanitaria e la cura quotidiana. La breve durata della relazione non può di per sé fondare una posizione giuridicamente tutelabile in capo al richiedente. Tali pronunce convergono nel delineare un quadro in cui l’animale continua a essere trattato come oggetto di un rapporto dominicale, nonostante le dichiarazioni normative che ne riconoscono la personalità senziente.

La dottrina più attenta ha rilevato come tale impostazione configuri una forma di disallineamento tra la dimensione fattuale e quella giuridica della relazione uomo-animale. Ne deriva la necessità di un intervento legislativo che riconosca specificamente la rilevanza del vincolo affettivo instauratosi con l’animale da compagnia, anche in chiave relazionale, e che consenta al giudice di valutare, caso per caso, l’interesse prevalente dell’animale e delle persone coinvolte, sulla base di criteri analoghi a quelli adottati in materia di affidamento dei minori, pur tenendo conto della diversità ontologica e giuridica dei soggetti.

L’introduzione di una normativa organica in materia di affidamento degli animali da compagnia nelle crisi familiari si impone dunque come un’esigenza sistematica e di civiltà giuridica, finalizzata a superare la visione proprietaria dell’animale e a ricondurre la relativa disciplina nell’alveo della tutela della persona e dei legami affettivi. Solo in tal modo sarà possibile colmare il divario tra diritto e realtà, conferendo adeguata dignità giuridica al ruolo sociale e relazionale dell’animale d’affezione nella vita familiare contemporanea.

11 agosto 2025

La qualificazione penal-tributaria delle fatture per operazioni inesistenti e il concorso dell’extraneus nella governance societaria: riflessioni a margine della sentenza Cass., sez. V, 12 giugno 2025, n. 28188

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La recente decisione della Suprema Corte offre un rilevante contributo alla sistematica dei delitti tributari, affrontando in modo approfondito la nozione di “operazione inesistente” di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, nonché l’estensione della responsabilità concorsuale in capo a soggetti privi di poteri rappresentativi formali ma funzionalmente inseriti nei meccanismi di controllo documentale interni all’impresa. L’intervento nomofilattico, oltre a confermare l’orientamento volto a circoscrivere l’area del penalmente rilevante, individua criteri ermeneutici utili agli operatori economico-giuridici chiamati quotidianamente a calibrare procedure di compliance fiscale e modelli di corporate governance.

Sotto il profilo fattuale, la vicenda origina da un contratto di subappalto, stipulato nell’ambito di un più ampio appalto pubblico destinato alla manutenzione ordinaria di edifici scolastici, nel corso del quale una ditta individuale fatturava consistenti importi a una cooperativa incaricata dell’esecuzione dei lavori. Le fatture venivano successivamente ribaltate, in termini di costi, nelle dichiarazioni fiscali della committente. Le indagini di polizia economico-finanziaria mettevano in luce criticità strutturali della subappaltatrice – carenza di mezzi, capitale umano ridotto e contingenza operativa limitata – assumendo tali elementi quale indizio di una possibile fittizietà, totale o parziale, delle prestazioni contabilizzate. All’esito del giudizio abbreviato il G.U.P. disponeva condanna del direttore di produzione della cooperativa, ritenendo la sua attività di vidimazione documentale causalmente efficiente rispetto all’indebita detrazione d’imposta; la Corte territoriale confermava il dictum, fondando l’elemento soggettivo su intercettazioni intervenute in fase di indagine.

La Corte di cassazione, annullando la pronuncia e rinviando per nuovo esame, muove da una rigorosa ricostruzione della nozione di “operazione inesistente”. Rammenta che la fattispecie sanziona l’indicazione in dichiarazione di elementi passivi fittizi e che l’interesse tutelato si concreta nella salvaguardia delle entrate erariali. Ne consegue l’esigenza di un accertamento analitico della reale consistenza delle prestazioni dedotte in fattura: ove sia dimostrata l’esecuzione, ancorché a costi sovradimensionati, l’integrazione dell’illecito penale difetta e residua, semmai, una diversa contestazione in termini di operazione soggettivamente inesistente o di fatturazione gonfiata, priva di rilievo penal-tributario. Tale impostazione si colloca in linea di continuità con la giurisprudenza che valorizza il principio di offensività in concreto quale criterio indefettibile di delimitazione della tipicità.

Particolarmente pregnante risulta l’analisi del contributo concorsuale dell’extraneus, figura che tipicamente s’incardina nel reato proprio omissivo ascritto al legale rappresentante. Il Collegio ribadisce che la responsabilità dell’ausiliario presuppone una condotta antigiuridica che, sul versante oggettivo, aumenti in modo apprezzabile la probabilità di verificazione dell’evento, mentre, sul versante soggettivo, postula la consapevole adesione allo scopo di evasione fiscale. Manca detta adesione qualora i riscontri probatori evidenzino mera fiducia riposta nei protocolli aziendali preesistenti o condotte caratterizzate da colpa professionale, per quanto grave, in assenza di dolo specifico. La motivazione valorizza, a tal fine, il distacco temporale fra la vidimazione delle fatture e la successiva decisione, assunta dal board societario dopo l’uscita del tecnico, di inserirle in dichiarazione: tale iato, unitamente al blocco iniziale dei pagamenti, integra causa di interruzione del nesso eziologico, ponendo l’extraneus al di fuori del circuito causale penalmente rilevante.

L’arresto riveste altresì portata sistemica in quanto riconnette l’obbligo di diligenza professionale qualificata all’esigenza di predisporre efficaci procedure di controllo interno, coerenti con le Linee guida di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231. La Corte richiama implicitamente l’onere di implementare un assetto organizzativo idoneo a prevenire condotte elusive, rimarcando però che solo la violazione sostanziale, sostenuta da dolo, consente di trasmigrare la responsabilità dall’ordine amministrativo o disciplinare a quello penale. La decisione offre, pertanto, un ancoraggio dogmatico alla prassi di revisione dei modelli di governance, ponendo in capo all’impresa l’obbligo di definire procedure di verifica documentale proporzionate alla complessità operativa, con puntuali presidi di segmentazione e tracciabilità dei flussi informativi.

Sul versante probatorio, il Collegio fa applicazione del canone del “di là da ogni ragionevole dubbio” sancito dall’articolo 533, comma 1, del codice di procedura penale, censurando la tendenza delle corti di merito a fondare l’accertamento su argomentazioni meramente induttive. Benché la carenza di mezzi dell’appaltatore costituisca un indizio di possibile fittizietà, è necessario correlare detta carenza a evidenze specifiche in ordine alla mancata esecuzione dei lavori, evitando che si trasformi in un’impropria presunzione di colpevolezza. In tale prospettiva, la sentenza conferma l’affermazione per cui la prova dell’elemento oggettivo deve muovere da una ricognizione in concreto dei lavori, avvalendosi di perizie tecniche e riscontri contabili tali da dimostrare l’inesistenza totale o quantomeno la sproporzione assoluta fra costo dichiarato e valore di mercato.

Non meno significativa è la riflessione sull’interazione tra diritto interno e obblighi sovranazionali in materia di tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea. La Corte, pur non evocando espressamente la direttiva (UE) 2017/1371 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (cd. direttiva PIF), ne recepisce lo spirito, sottolineando la necessità di un equilibrio fra esigenze di perseguibilità effettiva e garanzie dell’imputato, in ossequio al principio di proporzionalità sancito dall’articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Il provvedimento in esame si colloca nel solco di una giurisprudenza volta a evitare estensioni analogiche del diritto penale tributario, riaffermando il primato del principio di legalità e di offensività. Esso impone ai giudici del rinvio un supplemento istruttorio, finalizzato a dissodare il terreno probatorio in ordine sia alla qualificazione delle operazioni fatturate, sia all’effettiva compartecipazione psicologica dell’extraneus, orientando gli operatori a una rigorosa separazione fra responsabilità amministrative e penali e a un rafforzamento dei sistemi di controllo interno aziendale, senza tuttavia ricorrere a elencazioni normative meramente decorative. L’opera interpretativa della Corte appare dunque funzionale a quel bilanciamento fra esigenze repressive e garanzie individuali che costituisce il fulcro del sistema penale dell’economia.

4 agosto 2025

La validità della notifica degli avvisi di accertamento alle società di fatto e le conseguenze sui successivi atti riscossivi: riflessioni a margine dell’Ordinanza della Corte di Cassazione del 14 febbraio 2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

Nel contesto dell’accertamento tributario, la fase della notificazione dell’avviso riveste un ruolo centrale tanto sul piano della legittimità dell’atto impositivo quanto su quello, parimenti decisivo, della successiva riscossione. L’ordinanza della Corte di Cassazione (Sezione Tributaria) 14 febbraio 2025, R.G.N. 15355/2022, si colloca lungo tale tracciato ricostruttivo e offre l’occasione per delineare, con rinnovata chiarezza esegetica, i limiti entro cui il rito dell’irreperibilità disciplinato dall’art. 60, comma 1, lettera e), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, può dirsi utilmente esperibile quando destinatario dell’avviso di accertamento sia una società di fatto (S.d.f.).

In via preliminare, conviene ricordare che, in assenza di personalità giuridica, la S.d.f. opera quale centro d’imputazione di rapporti giuridici in capo ai soci che l’hanno costituita, sì che il legislatore fiscale, ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir), imputa per trasparenza i relativi proventi ai singoli partecipanti. Proprio per tale ragione, l’Agenzia delle Entrate (AdE) procede sovente alla notifica dell’avviso direttamente alla formazione sociale, attribuendole un autonomo numero di codice fiscale e di partita IVA; nondimeno, l’atto di imposizione deve – per pacifico orientamento ermeneutico – pervenire all’indirizzo effettivo della sede dell’attività collettiva, pena l’invalidità dell’intero procedimento accertativo.

La pronuncia in commento trae origine da un’ipotesi paradigmatica: la Guardia di Finanza (G.d.F.), in esito ad attività ispettiva, rilevava l’esistenza di una S.d.f. impegnata nel commercio illecito di tabacchi lavorati esteri e formalmente insediata in un Comune non identificato; l’AdE emetteva, quindi, avviso di accertamento per un determinato periodo d’imposta, successivamente notificato, giusta dichiarata irreperibilità della società, con le forme contemplate dall’art. 60, comma 1, lettera e) (c.d. rito degli irreperibili). L’atto riscossivo susseguente – l’avviso di presa in carico di cui all’art. 29 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 – veniva invece recapitato personalmente a uno dei soci, ritenuto legale rappresentante di fatto e, in tale veste, illimitatamente responsabile.

Già i giudici di merito, con articolata motivazione, avevano ravvisato la nullità della notifica dell’avviso prodromico, sul presupposto che il messo comunale si fosse limitato ad attestare l’irreperibilità della società senza dar conto delle ricerche effettivamente compiute per accertarne l’«irreperibilità assoluta» nell’ambito territoriale comunale – accertamento viceversa richiesto dalla norma speciale. L’ordinanza di legittimità conferma integralmente tale esito, ribadendo come la relazione di notificazione debba contenere l’esplicitazione dell’attività indagatoria volta a verificare la cessazione di ogni collegamento tra il destinatario e il suo domicilio fiscale; solo in tal caso, la fictio iuris dell’avvenuta notificazione per irreperibilità può esplicare i propri effetti.

L’arresto impone dunque di rileggere la ratio degli artt. 60 del d.P.R. 600/1973 e 140 del codice di procedura civile (c.p.c.) in chiave complementare. Difatti, se il primo presidia il domicilio fiscale del contribuente e condiziona la validità del rito degli irreperibili al positivo svolgimento di ricerche idonee a escludere la presenza del soggetto nel Comune, il secondo – applicabile in via residuale – ammette il deposito dell’atto presso la casa comunale e l’affissione nell’albo pretorio, purché sia preliminarmente provato l’inutile esperimento del recapito presso l’indirizzo conosciuto. L’AdE aveva sostenuto che l’avvenuta spedizione di raccomandata A.R. contenente copia dell’avviso di affissione potesse supplire all’omessa verbalizzazione delle ricerche; la Cassazione, richiamando consolidati precedenti, ha tuttavia ribadito che la prova documentale della ricerca costituisce requisito formale indefettibile, non surrogabile ex post da elementi presuntivi.

Sul piano sistematico, la decisione depone in favore di una concezione che valorizza la natura strumentale della notifica rispetto al diritto di difesa, e che pertanto pretende un rango di «diligenza professionale qualificata» da parte dell’organo notificatore, specie allorché il destinatario sia entità priva di iscrizione nel Registro delle Imprese (R.d.I.) e di conseguenza meno agevolmente rintracciabile. La nullità, osserva la Corte, si propaga agli atti consequenziali secondo il principio della cascata invalidante, sicché ne è derivata l’illegittimità dell’avviso di presa in carico notificato al socio, non potendosi sanare sed posterius la violazione originaria.

L’orientamento in esame appare coerente con la nozione di «abuso del processo», laddove la contraria interpretazione – volta a privilegiare la mera conoscenza di fatto dell’atto da parte del contribuente – rischierebbe di svuotare di contenuto il precetto dell’art. 97 Cost. in tema di buon andamento e di imparzialità della Pubblica Amministrazione. Si potrebbe obiettare che l’attività di ricerca imposta al messo comunale trascende la fisiologica operatività delle S.d.f.; a ben vedere, però, l’onere probatorio così configurato rappresenta l’unico argine alla potenziale violazione del principio di proporzionalità, nella misura in cui impone all’Amministrazione di impiegare tutti gli strumenti disponibili – inclusi quelli meramente informali – prima di ricorrere alla forma di notifica più gravosa.

Più in generale, la pronuncia contribuisce a puntualizzare l’interazione fra giudizio di cassazione e contenzioso tributario, chiarendo che l’impugnazione di un atto riscossivo colpisce non soltanto l’autonomo profilo funzionale di tale provvedimento, ma, ove si deduca la nullità derivata, investe anche la legittimità del presupposto impositivo. Ne consegue che l’accertamento della nullità della notifica originaria, anche per vizi meramente formali, conduce al consolidarsi dell’annullamento del successivo titolo esecutivo, a salvaguardia dell’unitarietà del procedimento.

L’ordinanza in commento si candida a costituire precedente di rilievo nel quadro della giurisprudenza di legittimità, riaffermando l’esigenza di un’applicazione rigorosa delle formalità notificatorie e ponendo in risalto il ruolo garantista della Cassazione nella tutela dei diritti del contribuente. In prospettiva, pare auspicabile un intervento normativo di coordinamento che chiarisca, in modo espresso, l’estensione degli obblighi di ricerca nei confronti dei soggetti non iscritti nei registri pubblici, così da ridurre il contenzioso e favorire una più efficace interazione fra fisco e contribuenti.

4 agosto 2025