L’intestazione fiduciaria di partecipazioni sociali e il regime del pignoramento: spunti ricostruttivi a partire dalla più recente giurisprudenza della Cassazione

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

La riflessione giuridica sull’intestazione fiduciaria delle partecipazioni societarie, in particolare all’interno della compagine delle società a responsabilità limitata (S.r.l.), continua a costituire terreno fertile per l’elaborazione di orientamenti giurisprudenziali e dottrinali destinati a incidere significativamente sulla disciplina dei rapporti patrimoniali e sul bilanciamento tra esigenze di tutela del creditore e prerogative strutturali della fiduciaria. In questo contesto, la pronuncia recentemente resa dalla Corte di Cassazione assume rilievo sistemico, non solo per l’autorevolezza della fonte, ma per l’impatto ricostruttivo che essa determina in merito alla natura della posizione giuridica della fiduciaria e agli effetti dell’intestazione fiduciaria nel quadro delle procedure esecutive.

La Suprema Corte ha statuito che il pignoramento delle partecipazioni in S.r.l. intestate fiduciariamente deve essere eseguito secondo la disciplina propria dell’espropriazione delle quote sociali. Tale affermazione si fonda su una chiara valorizzazione del principio della titolarità sostanziale della partecipazione in capo al fiduciante, il quale, pur privo dell’intestazione formale presso il registro delle imprese, rimane titolare effettivo del diritto partecipativo. L’intestazione fiduciaria non produce alcun effetto traslativo, bensì determina una dissociazione tra la dominium substantiale e la dominium apparens, realizzando un’articolazione funzionale tra titolarità reale e intestazione apparente, tipica delle strutture fiducianti.

La Cassazione ne ricava l’inapplicabilità della disciplina del pignoramento presso terzi alla società fiduciaria, la quale non assume la qualifica di debitor debitoris, in quanto priva di un’obbligazione propria nei confronti del debitore esecutato. La fiduciaria si limita a detenere la legittimazione all’esercizio dei diritti partecipativi connessi alle quote, in nome proprio ma per conto del fiduciante, operando secondo le istruzioni da quest’ultimo impartite nell’ambito del mandato fiduciario. Tale funzione, sebbene comporti un’apparente disponibilità giuridica del bene, non incide sulla titolarità sostanziale, che permane in capo al soggetto fiduciario originario.

Sotto il profilo procedurale, la Corte ha puntualizzato che il pignoramento delle quote deve avvenire “presso il debitore”, con notificazione dell’atto esecutivo al socio-fiduciante e successiva iscrizione del vincolo nel registro delle imprese, condizione necessaria per il perfezionamento dell’efficacia oppositiva erga omnes. L’adempimento pubblicitario risponde a esigenze di certezza e trasparenza dei traffici giuridici e consente l’individuazione del perimetro oggettivo e soggettivo dell’esecuzione. Ne consegue l’inutilità, se non l’improprietà, di qualsiasi dichiarazione da parte della fiduciaria, la cui posizione rimane estranea al rapporto obbligatorio aggredito dall’azione esecutiva.

Sotto il profilo teorico, la ricostruzione accolta dalla Cassazione valorizza l’impianto sistematico dell’intestazione fiduciaria come strumento di segregazione e riservatezza, senza attribuirle una funzione schermante rispetto alle legittime pretese creditorie. La partecipazione fiduciaria, pur essendo un bene immateriale non nella materiale disponibilità del debitore, rimane nella sua sfera di disposizione giuridica, condizione sufficiente ai fini della pignorabilità ai sensi dell’art. 543 cod. proc. civ. e delle norme speciali dettate per le quote sociali.

In tale prospettiva, qualora il creditore pignorante abbia indirizzato l’esecuzione verso un soggetto non coincidente con il fiduciante effettivo, incombe sulla fiduciaria l’obbligo, derivante dal mandato, di informare il reale titolare della partecipazione, il quale potrà attivare i rimedi tipici della tutela del terzo, quali l’opposizione ai sensi dell’art. 619 cod. proc. civ. Tale profilo evidenzia l’ineludibile interazione tra la dimensione formale dell’intestazione e la tutela dei soggetti coinvolti, richiedendo un elevato grado di diligenza professionale da parte della fiduciaria, che deve contemperare il dovere di riservatezza con l’obbligo di tutela degli interessi del fiduciante.

La pronuncia in esame costituisce pertanto un rilevante contributo alla sistematizzazione della materia, riaffermando la centralità della titolarità sostanziale nella determinazione del perimetro soggettivo dell’esecuzione forzata e consolidando l’interpretazione secondo cui la fiduciaria non può essere considerata parte passiva di un’azione esecutiva fondata sulla titolarità effettiva altrui. Essa delinea inoltre un assetto che, pur salvaguardando l’efficienza del processo esecutivo e la tutela del credito, non pregiudica la legittima funzione di riservatezza e protezione patrimoniale sottesa al rapporto fiduciario, coerentemente con la sua natura di mandato ad effetti indiretti.

29 luglio 2025

Il patto di prova tra formalismo giuridico e sostanza funzionale: il rilievo della specificità delle mansioni nell’evoluzione giurisprudenziale recente

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e dell’Avv. Francesca Coppola

Nel panorama giuslavoristico italiano, il patto di prova rappresenta un istituto di rilevante interesse teorico e pratico, posto al crocevia tra libertà negoziale e tutela del contraente debole. La sua causa giuridica si concreta nella possibilità, riconosciuta a entrambe le parti del rapporto di lavoro, di verificare ex ante la reciproca convenienza dell’instaurazione di un vincolo continuativo. Tale funzione sperimentale, per assumere validità sul piano formale e sostanziale, presuppone la determinazione inequivoca dell’ambito oggettivo dell’esperimento, ossia delle mansioni specifiche che il lavoratore è chiamato a svolgere durante il periodo di prova.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 15326 del 9 giugno 2025, ha offerto un’ulteriore e significativa precisazione circa i presupposti di validità del patto, rigettando il ricorso di una lavoratrice che lamentava l’indeterminatezza delle mansioni indicate nel contratto individuale, ritenute non conformi al profilo previsto dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) delle cooperative sociali. La Suprema Corte ha ribadito che la clausola di prova è legittima qualora contenga una specifica indicazione delle mansioni, anche mediante richiamo per relationem alle declaratorie del contratto collettivo, purché tale richiamo sia sufficientemente dettagliato da consentire la precisa identificazione del profilo professionale. Si esige, dunque, un riferimento puntuale non alla sola categoria o livello, bensì al profilo concreto, poiché soltanto così può essere soddisfatta l’esigenza di certezza che permea l’istituto in esame.

Tale orientamento si inscrive nella più ampia cornice interpretativa fondata sull’art. 2096 del Codice civile, norma cardine del regime del patto di prova, la quale impone la forma scritta ad substantiam. Ne consegue che la carenza di forma sin dall’inizio del rapporto determina la nullità radicale della clausola, non emendabile né mediante equipollenti né attraverso successiva sottoscrizione tardiva, come ribadito nell’ordinanza n. 8849 del 3 aprile 2025. In tale prospettiva, la forma scritta si configura non solo quale presidio di certezza ma anche quale strumento di garanzia della libertà e consapevolezza del consenso manifestato dalle parti.

Una dimensione ulteriore del dibattito concerne il contenuto della clausola di prova: secondo quanto affermato nella sentenza n. 5264 del 20 febbraio 2023, la mera indicazione del titolo professionale o della qualifica – ad esempio, “meat buyer” – si rivela insufficiente, ove non accompagnata dalla specificazione delle relative mansioni operative. In difetto, si compromette la possibilità per il giudice di esercitare un controllo, ancorché limitato, sull’esercizio del potere di recesso da parte del datore di lavoro durante la prova, il quale deve fondarsi su compiti predeterminati e non elusivamente generici.

È altresì pacifico in giurisprudenza che l’assegnazione a mansioni differenti da quelle previste nel patto non determina la nullità automatica della clausola, bensì integra un vizio funzionale, legittimando il lavoratore a esigere l’adempimento dell’esperimento pattuito o, alternativamente, a chiedere il risarcimento del danno. Lo ha statuito la Corte d’Appello di Messina nella sentenza n. 591 del 26 febbraio 2025, elaborando un modello di responsabilità contrattuale fondato sulla violazione del sinallagma funzionale proprio della clausola.

Un ulteriore elemento interpretativo emerge dalla pronuncia del Tribunale di Arezzo (sentenza n. 445 del 9 ottobre 2024), la quale ha escluso l’illegittimità del recesso anticipato entro un periodo di prova inferiore a quello previsto dal contratto, purché siano state effettivamente assegnate al lavoratore le mansioni che consentono di valutarne le competenze, valorizzando così il criterio della “ragionevolezza e sufficienza” del tempo concesso, da parametrarsi alle peculiarità del caso concreto. Analoga attenzione alla tempestiva e chiara comunicazione delle mansioni si rinviene nella sentenza del Tribunale di Bari n. 2904 del 25 giugno 2024, secondo cui la specificazione deve precedere l’inizio dell’attività lavorativa, pena la perdita della funzione causale del patto.

Infine, si osserva come la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 6230 del 2025, abbia escluso la validità del patto di prova concluso successivamente alla cessazione di un precedente rapporto tra le stesse parti, laddove il contenuto professionale delle prestazioni sia rimasto immutato. In tale ipotesi, la reiterazione del patto si configura quale abuso dello strumento probatorio, non sorretto da alcuna esigenza esplorativa genuina.

Alla luce di tali sviluppi giurisprudenziali, si può affermare che l’istituto del patto di prova richiede oggi una elevata coerenza tra forma e contenuto, nella prospettiva di garantire l’equilibrio contrattuale e la protezione della parte più debole del rapporto. La sua validità dipende da un delicato bilanciamento tra l’autonomia privata e le garanzie sostanziali, che si realizza solo laddove siano rispettati requisiti rigorosi di forma, determinatezza e trasparenza. L’attenzione del legislatore e della giurisprudenza al rispetto della causa concreta del patto appare dunque imprescindibile per evitare che l’istituto venga distorto in funzione elusiva delle tutele ordinarie del rapporto di lavoro subordinato.

28 luglio 2025

Grave insubordinazione e giusta causa di licenziamento: la centralità del vincolo fiduciario nella più recente giurisprudenza di legittimità

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’ordinanza n. 3162/2025 della Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, assume una valenza paradigmatica nell’ambito della riflessione giuridica concernente la legittimità del licenziamento disciplinare per giusta causa, con particolare riferimento all’interpretazione dell’art. 2119 del codice civile e alle previsioni del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) applicabile. L’analisi condotta dalla Suprema Corte si caratterizza per una rigorosa applicazione dei criteri ermeneutici propri della clausola generale della giusta causa, valorizzando la funzione dell’ordinamento collettivo e la coerenza con i principi giuslavoristici consolidati.

La vicenda giudiziaria si sviluppa a seguito dell’impugnazione di un licenziamento disciplinare irrogato per giusta causa, fondato su un episodio in cui la dipendente, in un contesto di dissenso rispetto a una direttiva impartita, aveva rivolto un’espressione oggettivamente ingiuriosa nei confronti del proprio superiore gerarchico, alla presenza di un’altra lavoratrice, manifestando contestualmente un rifiuto di adempiere alla disposizione ricevuta. La Corte d’Appello, sovvertendo le precedenti pronunce di merito, ha ritenuto tale condotta riconducibile alla fattispecie di grave insubordinazione delineata dall’art. 32, lett. v), del CCNL AIAS, escludendo altresì che le circostanze soggettive potessero elidere il disvalore della condotta.

La Corte di Cassazione, confermando la decisione della Corte territoriale, ha ribadito l’autonomia del giudizio di merito nella valutazione della lesione del vincolo fiduciario, purché sorretto da una motivazione congrua e immune da vizi logico-giuridici. In particolare, ha sottolineato come l’insulto rivolto al superiore, accompagnato dal rifiuto all’adempimento, si configuri quale condotta idonea a compromettere radicalmente la struttura fiduciaria del rapporto, integrando pertanto un’ipotesi di giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c.

Di rilievo è la precisazione della Corte in ordine al valore normativo delle clausole generali, che impone una loro specificazione alla luce dei principi costituzionali, della coscienza sociale e delle previsioni della contrattazione collettiva. L’attività di qualificazione giuridica della condotta rilevante, in quanto sussunzione sotto la fattispecie normativa, appartiene alla dimensione giuridica e, in quanto tale, è suscettibile di controllo in sede di legittimità solo laddove siano rinvenibili errori nella identificazione dei parametri normativi integrativi. Di contro, l’accertamento dei fatti storici e la loro valutazione concreta rimangono prerogativa esclusiva del giudice di merito.

In tale contesto, la Corte ha ritenuto irrilevante la dedotta insussistenza di una recidiva in senso tecnico, evidenziando come la menzione di un precedente disciplinare, pur risalente, non costituisse fondamento autonomo della decisione bensì un elemento utile a qualificare la personalità professionale della dipendente. La giurisprudenza, d’altronde, è costante nel riconoscere al giudice di merito la facoltà di considerare episodi pregressi, ancorché non rilevanti ai fini della recidiva in senso stretto, ove funzionali alla ricostruzione della condotta complessiva e dell’idoneità della stessa a incidere sulla tenuta del vincolo fiduciario.

Quanto alla censura relativa alla regolamentazione delle spese processuali, il Collegio ha osservato che la statuizione della Corte territoriale è perfettamente coerente con il principio di soccombenza sancito dall’art. 91 c.p.c., e non suscettibile di revisione in difetto di un radicale sovvertimento dell’esito del giudizio di merito, che nel caso di specie non sussiste.

La pronuncia in esame assume pertanto rilevanza sistematica, non solo per la conferma della centralità del vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro subordinato, ma anche per il rigore metodologico con cui vengono delimitati i confini del sindacato di legittimità in presenza di clausole generali. Essa si inserisce in un solco interpretativo che riafferma l’autonomia del giudizio di fatto e la non sindacabilità delle valutazioni del giudice di merito in assenza di vizi strutturali della motivazione o di erronea interpretazione delle norme giuridiche applicabili. In definitiva, si tratta di una decisione che valorizza la funzione regolativa della giurisprudenza di legittimità nell’ambito del diritto del lavoro, riaffermando con nettezza i principi di proporzionalità, correttezza e rispetto dell’ordine organizzativo aziendale come parametri fondamentali della legittimità del recesso datoriale per giusta causa.

25 luglio 2025