La responsabilità aggravata per lite temeraria nel contenzioso tributario: profili sistematici e applicazioni giurisprudenziali tra Corte di Giustizia di Pisa e Corte di Cassazione

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’evoluzione della responsabilità aggravata per lite temeraria nel processo tributario, oggetto di un articolato percorso interpretativo, trova un recente punto di snodo nella sentenza n. 142/2025 della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Pisa. Tale decisione si inserisce in un quadro normativo e giurisprudenziale arricchito dalle pronunce della Corte di cassazione nn. 4702/2025 e 13315/2025, le quali ne hanno precisato i presupposti applicativi, ribadendo l’essenzialità dell’elemento soggettivo di mala fede o colpa grave e la natura sanzionatoria della condanna prevista dall’art. 96 del codice di procedura civile. Il coordinamento tra queste fonti consente di delineare una ricostruzione organica dell’istituto nell’ambito del processo tributario, che appare oggi pienamente integrato nella dinamica del giusto processo e della tutela della buona fede processuale.

La sentenza della Corte di Pisa prende le mosse da un contenzioso avente ad oggetto un avviso di accertamento IRAP, successivamente annullato in autotutela dall’amministrazione finanziaria in quanto adottato senza contraddittorio preventivo. La parte contribuente, pur prendendo atto dell’annullamento, ha chiesto il risarcimento del danno per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., lamentando che l’omissione procedimentale avesse impedito la definizione agevolata prevista dalla legge n. 197/2022. Il Collegio, pur riconoscendo l’applicabilità dell’art. 96 c.p.c. al processo tributario per effetto del rinvio operato dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, ha escluso la sussistenza dei presupposti soggettivi dell’illecito processuale, ritenendo non provate né la mala fede né la colpa grave dell’Ufficio.

L’approfondita motivazione della Corte toscana, che richiama l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale in materia, conferma che la responsabilità aggravata costituisce una figura autonoma, distinta tanto dalla responsabilità civile ordinaria ex art. 2043 c.c., quanto dalle sanzioni processuali propriamente dette. Essa rientra, secondo l’impostazione ormai consolidata, nella categoria delle sanzioni civili indirette, ossia misure afflittive patrimoniali che, pur non incidendo direttamente sull’interesse pubblico, mirano a tutelare la parte lesa da un uso distorto dello strumento processuale. Il giudice di Pisa, muovendo da tale qualificazione, ha chiarito che la condanna per lite temeraria postula un quid pluris rispetto alla semplice soccombenza, richiedendo un comportamento antigiuridico che tradisca i principi di lealtà e correttezza processuale sanciti dagli artt. 88 e 92 c.p.c.

La decisione pisana si inserisce in continuità con gli orientamenti espressi dalla Corte di cassazione, che negli ultimi anni hanno progressivamente definito il perimetro applicativo dell’art. 96 c.p.c. e il suo rapporto con il processo tributario. La pronuncia n. 4702/2025, in particolare, affronta la questione nell’ambito di una controversia sull’imposta di registro, riconoscendo la legittimità della condanna per lite temeraria disposta dalla Commissione tributaria regionale nei confronti dell’amministrazione finanziaria. La Suprema Corte ha precisato che la responsabilità aggravata, di cui al terzo comma dell’art. 96, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma implica pur sempre, sotto il profilo soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente. Tali elementi si manifestano nella consapevolezza dell’infondatezza delle proprie tesi o nella mancanza della diligenza minima necessaria per avvedersi della loro evidente inconsistenza.

L’intervento della Cassazione ha così confermato la lettura secondo cui la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. può essere disposta anche d’ufficio, in quanto misura afflittiva volta a sanzionare l’abuso del processo in sé, indipendentemente dalla prova del danno arrecato alla controparte. Tale approccio, già delineato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9912/2018, è stato ripreso e precisato nel caso del 2025, in cui la Corte ha valorizzato la condotta pretestuosa dell’Ufficio, che aveva reiterato censure già dichiarate infondate in giurisprudenza consolidata. In questa prospettiva, la temerarietà non si identifica con la semplice infondatezza della pretesa, ma si concreta nell’uso distorto dello strumento processuale, volto a protrarre indebitamente il giudizio o a contestare principi ormai stabiliti.

La successiva ordinanza n. 13315/2025, anch’essa della Sezione tributaria, rafforza il medesimo indirizzo. In quel caso, la Corte ha ritenuto legittima la condanna per lite temeraria irrogata nei confronti dell’amministrazione per la pervicace reiterazione di argomentazioni identiche a quelle già rigettate in numerosi giudizi analoghi. La Suprema Corte ha così ribadito che l’accertamento della mala fede o della colpa grave costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità, purché sorretto da motivazione congrua e coerente. Tale orientamento rafforza il principio per cui la valutazione della temerarietà della lite è strettamente connessa al comportamento processuale complessivo della parte e alla sua conformità ai doveri di correttezza e diligenza.

Il collegamento tra le due ordinanze della Cassazione e la sentenza pisana risulta di particolare interesse sistematico. Quest’ultima, pur giungendo a escludere la condanna per lite temeraria, applica coerentemente i principi delineati dalla giurisprudenza di legittimità, richiamandone espressamente i precedenti e riconoscendo la natura composita dell’art. 96 c.p.c., articolato in tre livelli di responsabilità: quella per dolo o colpa grave (comma 1), quella per mancanza di normale prudenza (comma 2) e quella sanzionatoria di ufficio (comma 3). In tal senso, la Corte di Pisa dimostra come il giudice tributario sia oggi pienamente inserito nella logica del diritto processuale civile, potendo applicare in via diretta gli strumenti di tutela volti a reprimere l’abuso del processo, pur nel rispetto delle peculiarità del rito tributario.

L’articolata motivazione pisana offre inoltre un utile spunto per riflettere sul rapporto tra autotutela amministrativa e responsabilità processuale. L’annullamento in autotutela dell’atto impugnato, infatti, determina la cessazione della materia del contendere ma non estingue automaticamente le questioni accessorie, quali le spese e l’eventuale risarcimento ex art. 96 c.p.c. La Corte sottolinea che la cessazione del contendere non esclude la possibilità di valutare la condotta processuale della parte resistente, la quale, sebbene abbia rimosso l’atto illegittimo, può aver arrecato un danno ingiusto per comportamento negligente o intempestivo. Tuttavia, nel caso concreto, l’annullamento tempestivo e motivato dell’avviso di accertamento, disposto prima della scadenza del termine di decadenza, ha escluso la configurabilità della mala fede o della colpa grave, trattandosi di un esercizio legittimo del potere di autotutela.

La prospettiva che emerge è quella di una funzione equitativa e correttiva del giudizio tributario, orientata a garantire un equilibrio tra l’effettività della tutela del contribuente e la legittima difesa dell’interesse erariale. L’istituto della responsabilità aggravata, in questa chiave, assume un ruolo di garanzia sistemica, volto a sanzionare comportamenti processuali distorti senza comprimere il diritto di azione dell’amministrazione. Si tratta di un approccio che riflette l’evoluzione del diritto processuale tributario verso una piena assimilazione ai principi del giusto processo, come delineato dall’art. 111 della Costituzione e dalle riforme più recenti, in particolare la c.d. Riforma Cartabia, che ha introdotto il quarto comma dell’art. 96 c.p.c. prevedendo una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende per l’abuso del processo.

L’analisi congiunta delle tre pronunce e del quadro normativo consente di formulare alcune considerazioni conclusive di ordine sistematico. Anzitutto, la giurisprudenza di merito e di legittimità converge nell’affermare che la condanna per lite temeraria costituisce misura eccezionale e di stretta interpretazione, in quanto incide su un diritto costituzionalmente garantito quale l’accesso alla giustizia. Ne consegue che la mala fede o la colpa grave non possono essere desunte dalla semplice infondatezza della pretesa, ma devono risultare da un complessivo atteggiamento di abuso o di negligenza grave. In secondo luogo, la funzione sanzionatoria dell’art. 96 c.p.c. deve essere letta in connessione con i principi di proporzionalità e di ragionevole durata del processo, al fine di evitare che il rimedio divenga esso stesso strumento di dissuasione eccessiva o di compressione del contraddittorio.

La sentenza della Corte di Pisa rappresenta un momento di consolidamento di un orientamento che, pur improntato a rigore, tende a valorizzare la funzione di equilibrio del giudizio tributario tra efficienza, lealtà e tutela dei diritti. Il dialogo tra giudici di merito e Corte di cassazione ha contribuito a delineare un modello di responsabilità processuale coerente con i principi costituzionali e con la necessità di preservare l’integrità della funzione giurisdizionale. Ne emerge una visione unitaria della lite temeraria come fattispecie di abuso del processo, la cui repressione, pur doverosa, deve essere esercitata con prudenza e secondo criteri di effettiva colpevolezza soggettiva.

24 ottobre 2025

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L’interesse ad agire nelle impugnazioni dei verbali ispettivi: riflessioni sull’efficacia pregiudizievole del verbale unico dell’Ispettorato nazionale del lavoro

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La recente ordinanza della Corte di cassazione n. 27132 del 2025 offre un rilevante contributo ricostruttivo in materia di tutela giurisdizionale contro i verbali ispettivi dell’Ispettorato nazionale del lavoro, segnando un punto di svolta nel delineare i confini dell’interesse ad agire ex articolo 100 del codice di procedura civile. La pronuncia si inserisce nel più ampio dibattito sulla natura e sugli effetti giuridici del verbale unico di accertamento e notificazione, in particolare quando esso contenga rilievi suscettibili di incidere sulla posizione contributiva dell’impresa, anche in assenza di una formale quantificazione dei contributi dovuti.

In via introduttiva, occorre richiamare la ratio del sistema ispettivo in materia lavoristica e previdenziale, che si fonda su un complesso intreccio di poteri di accertamento e funzioni sanzionatorie esercitate da autorità amministrative diverse, quali l’Ispettorato nazionale del lavoro e l’Istituto nazionale della previdenza sociale. Tale sistema è strutturato in modo da consentire, a seguito dell’attività di vigilanza, l’individuazione di violazioni delle norme sul lavoro e la successiva attivazione del procedimento di recupero dei contributi omessi. Tuttavia, la coesistenza di atti a contenuto plurimo – amministrativo, sanzionatorio e pregiudiziale alla formazione del credito previdenziale – ha generato nel tempo incertezze circa la possibilità per il destinatario di reagire immediatamente contro il verbale ispettivo, prima dell’intervento degli enti previdenziali.

La giurisprudenza di merito aveva, sino a tempi recenti, mostrato un orientamento restrittivo, escludendo la sussistenza di un interesse concreto ed attuale ad agire contro verbali dell’Ispettorato non seguiti da specifici provvedimenti dell’ente previdenziale. In questa prospettiva, l’atto ispettivo sarebbe stato privo di immediata lesività, risolvendosi in una mera segnalazione di illeciti e in un rinvio all’autorità competente per l’adozione dei conseguenti provvedimenti. Tale impostazione, fondata su un approccio formalistico dell’atto amministrativo, finiva tuttavia per comprimere in modo eccessivo la tutela giurisdizionale del soggetto ispezionato, costringendolo ad attendere l’emanazione di ulteriori atti potenzialmente più gravosi.

La Suprema Corte, con l’ordinanza in commento, ha invece operato una significativa revisione di tale indirizzo, valorizzando una concezione sostanziale dell’interesse ad agire. La Corte ha riconosciuto che il verbale unico di accertamento e notificazione può costituire, di per sé, un atto immediatamente lesivo, qualora le violazioni ivi accertate siano idonee a fondare un futuro recupero contributivo. In tal caso, il destinatario è legittimato a promuovere un’azione di accertamento negativo, volta a rimuovere lo stato di incertezza sul rapporto previdenziale e sulle eventuali obbligazioni contributive derivanti dalle risultanze ispettive.

Il ragionamento della Corte si fonda su una duplice considerazione. In primo luogo, gli enti previdenziali possono procedere alla formazione dei propri atti esecutivi di recupero anche sulla sola base del verbale ispettivo, senza ulteriori accertamenti. In secondo luogo, l’esistenza di un verbale che contenga rilievi in materia di rapporti di lavoro irregolari è sufficiente a determinare, per l’impresa, una condizione di potenziale irregolarità contributiva, idonea a incidere sul rilascio del Documento unico di regolarità contributiva (Durc). Tale situazione, a sua volta, può avere conseguenze rilevanti sulla possibilità di partecipare a procedure di appalto pubblico, configurando un pregiudizio concreto e attuale che radica l’interesse ad agire.

La pronuncia in esame segna, dunque, un superamento della tradizionale distinzione rigida tra atti preparatori e atti lesivi, in favore di una visione funzionale dell’interesse processuale, coerente con l’articolo 24 della Costituzione. L’interesse ad agire, in questa prospettiva, non è più ancorato alla sola esistenza di un provvedimento finale, ma alla concreta idoneità dell’atto a determinare effetti giuridici pregiudizievoli. Tale approccio risponde altresì a un principio di effettività della tutela giurisdizionale, impedendo che l’inerzia o la discrezionalità amministrativa possano tradursi in un vuoto di tutela per il privato.

Sul piano sistematico, l’ordinanza della Cassazione si allinea al disposto dell’articolo 24, comma 3, del decreto legislativo n. 46 del 1999, che ammette l’azione di accertamento negativo in materia contributiva contro i verbali contenenti pretese al pagamento di crediti previdenziali. Tale norma, tradizionalmente interpretata in modo restrittivo, viene ora valorizzata nella sua funzione garantistica, conferendo rilievo autonomo all’atto ispettivo quale elemento costitutivo del potere di riscossione dell’ente previdenziale.

La decisione ha inoltre un importante risvolto pratico per le imprese. Essa consente di anticipare il momento della tutela giudiziaria, evitando che l’efficacia pregiudizievole del verbale si traduca in effetti economici immediati, come la sospensione del Durc o l’impossibilità di accedere a commesse pubbliche. In tal senso, l’orientamento della Suprema Corte contribuisce a ristabilire un equilibrio tra le esigenze di controllo dell’amministrazione e la salvaguardia delle garanzie difensive dei soggetti ispezionati.

L’ordinanza n. 27132 del 2025 rappresenta un significativo avanzamento nella definizione dei limiti e delle condizioni dell’interesse ad agire in materia previdenziale. Essa afferma, in termini chiari, che l’interesse processuale non può essere valutato in astratto, ma deve essere commisurato agli effetti concreti che l’atto amministrativo è idoneo a produrre nella sfera giuridica del destinatario. La pronuncia si colloca, pertanto, nel solco di una giurisprudenza orientata alla piena effettività del diritto di difesa, riconoscendo al giudice del lavoro un ruolo centrale nella composizione del conflitto tra poteri ispettivi e garanzie costituzionali. Tale impostazione, oltre a rafforzare la tutela delle imprese, offre una chiave di lettura coerente con i principi di proporzionalità e ragionevolezza che informano l’ordinamento processuale contemporaneo.

23 ottobre 2025

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La clausola visto e piaciuto tra autonomia contrattuale e garanzia per vizi: profili sistematici e giurisprudenziali

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La recente ordinanza della Corte di cassazione n. 27968 del 21 ottobre 2025 offre un’occasione rilevante per riflettere sulla funzione e sui limiti della clausola comunemente nota come visto e piaciuto, istituto che, pur trovando fondamento nell’autonomia contrattuale, si confronta con i principi inderogabili di buona fede e tutela dell’affidamento nella compravendita. La vicenda decisa dalla Suprema Corte riguardava la vendita di un autocarro usato che, a seguito dell’acquisto, si rivelava affetto da gravi difetti strutturali occultati da un’operazione di riverniciatura. Il compratore, nonostante la presenza della clausola in parola, otteneva in appello la risoluzione del contratto e la restituzione del prezzo, con condanna della venditrice anche per mala fede nell’occultamento del vizio.

La Corte, nel rigettare il ricorso del venditore, ha riaffermato un principio di carattere generale: la clausola visto e piaciuto non può essere invocata per escludere la garanzia ex art. 1490 del Codice civile qualora il venditore abbia scientemente taciuto i vizi della cosa. Tale principio, pur non innovativo, assume particolare rilievo perché ribadisce l’esigenza di contemperare la libertà negoziale con la tutela della buona fede contrattuale, conferendo coerenza sistematica all’istituto.

L’art. 1490 c.c. impone al venditore l’obbligo di garantire che la cosa sia immune da vizi che ne riducano il valore o ne pregiudichino l’uso. La ratio della norma è chiaramente protettiva, mirando a evitare che l’acquirente sopporti il rischio di difformità occulte non imputabili alla propria diligenza. Tuttavia, la disciplina non è inderogabile: le parti possono pattuire un’esclusione o limitazione della garanzia, purché nel rispetto dei limiti imposti dalla legge e, in particolare, del divieto di mala fede. La clausola visto e piaciuto rappresenta una delle espressioni tipiche di tale autonomia derogatoria, utilizzata soprattutto nella prassi delle vendite di beni usati, per ribaltare l’allocazione del rischio in capo al compratore.

La giurisprudenza, consolidando un orientamento risalente, ha più volte chiarito che l’efficacia di tale clausola non è assoluta, ma condizionata alla trasparenza e correttezza del comportamento del venditore. L’esonero di responsabilità trova dunque il suo limite invalicabile nell’art. 1229 c.c., che sancisce la nullità delle pattuizioni volte ad escludere la responsabilità per dolo o colpa grave. La Corte, in linea con questo approccio, ha confermato che la clausola non può essere interpretata come licenza di occultamento, neppure quando il compratore abbia accettato la cosa senza riserve apparenti.

Particolarmente significativo è l’approfondimento dedicato dalla Corte all’interazione tra l’efficacia probatoria degli atti pubblici e la prova dei vizi occulti. Nella fattispecie, la venditrice sosteneva che l’esito positivo della revisione ministeriale, avvenuta il giorno precedente la vendita, dovesse escludere ogni responsabilità, trattandosi di prova legale ex artt. 2699 e 2700 c.c. La Corte ha correttamente distinto i piani oggettivi della prova, rilevando che il certificato di revisione attesta esclusivamente la conformità del veicolo ai requisiti tecnici di legge, ma non può garantire l’assenza di difetti strutturali non rilevabili in sede di controllo. Tale chiarimento contribuisce a precisare il perimetro della prova legale e conferma la centralità del giudizio di merito nella valutazione dei comportamenti contrattuali.

La decisione si inserisce in una linea interpretativa che valorizza l’elemento soggettivo della mala fede quale discrimine decisivo per la validità della clausola visto e piaciuto. L’occultamento volontario di vizi, come nel caso della riverniciatura, integra un comportamento contrario ai doveri di lealtà e correttezza che permeano l’intera fase negoziale. In tal senso, la Cassazione consolida una nozione sostanziale di mala fede, intesa non solo come dolo positivo, ma come omissione consapevole idonea a indurre l’altra parte in errore.

Il contributo interpretativo della pronuncia va oltre la singola fattispecie, toccando questioni di ordine sistematico. In primo luogo, si riafferma che l’autonomia contrattuale trova un limite strutturale nella funzione sociale del contratto e nei principi di buona fede oggettiva. La clausola visto e piaciuto, pur consentendo una diversa allocazione del rischio, non può essere trasformata in strumento di abuso contrattuale. In secondo luogo, si rafforza la distinzione tra vizi riconoscibili e occulti: i primi rimangono a carico dell’acquirente, mentre per i secondi la responsabilità del venditore persiste, salvo prova della propria ignoranza incolpevole.

La riflessione si estende anche al profilo formale della clausola, poiché, quando inserita in condizioni generali di contratto, essa necessita di approvazione specifica ai sensi dell’art. 1341, comma 2, c.c., trattandosi di clausola limitativa della responsabilità. Inoltre, nei contratti con consumatori, tale previsione risulta nulla nella misura in cui riduca i diritti di conformità riconosciuti dalla disciplina consumeristica o determini un significativo squilibrio a loro danno. Ne deriva che l’efficacia della clausola non può prescindere dal contesto contrattuale e dalla qualifica soggettiva delle parti.

In prospettiva, la decisione si presta a essere letta come riaffermazione di un equilibrio dinamico tra autonomia negoziale e tutela dell’affidamento. La Cassazione, pur rispettando la libertà contrattuale, riafferma il principio secondo cui la buona fede costituisce limite sostanziale a qualsiasi pattuizione derogatoria. La clausola visto e piaciuto sopravvive dunque come strumento legittimo di regolazione del rischio, ma solo se applicata in un contesto di lealtà e trasparenza.

Da un punto di vista pratico, l’orientamento rafforza la posizione dell’acquirente nelle transazioni di beni usati, imponendo al venditore un dovere di disclosure proporzionato alla conoscibilità del vizio. Ciò comporta un innalzamento dello standard di diligenza nella fase precontrattuale e una maggiore attenzione alla tracciabilità delle verifiche tecniche. La clausola non può più fungere da scudo per l’inadempimento, ma da elemento di equilibrio informato tra le parti, coerente con i principi di correttezza e buona fede che permeano l’intero sistema delle obbligazioni.

L’ordinanza n. 27968/2025 conferma la tendenza della giurisprudenza di legittimità a interpretare in senso restrittivo le clausole di esonero da responsabilità, in nome della prevalenza dei principi di lealtà contrattuale e tutela dell’affidamento. Essa contribuisce a rafforzare la coerenza sistematica della disciplina della garanzia per vizi, delineando un modello di equilibrio tra autonomia privata e ordine pubblico economico, nel quale la clausola visto e piaciuto può operare legittimamente solo entro il perimetro della buona fede e della correttezza negoziale.

23 ottobre 2025

Lo stesso elaborato anche su taxlegaljob.net