La responsabilità omissiva dei sindaci nel concorso in bancarotta: profili sistematici e criteri di imputazione – Cassazione 32560/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La più recente giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente precisato i contorni della responsabilità penale dei componenti del collegio sindacale in relazione ai reati di bancarotta fraudolenta commessi dagli amministratori di società di capitali. L’intervento della Corte di Cassazione ha infatti chiarito che il concorso nel reato può configurarsi anche in presenza di una condotta meramente omissiva del sindaco, purché risulti accertata la presenza, al momento del fatto, di concreti “segnali di allarme” o “indici rivelatori” di operazioni illecite che avrebbero dovuto indurre l’organo di controllo a intervenire. Tale approdo giurisprudenziale impone un riesame del ruolo funzionale del collegio sindacale quale presidio di legalità societaria, con specifico riferimento alla sua posizione di garanzia e alla natura del nesso causale tra omissione di vigilanza e consumazione del delitto fallimentare.

Nel sistema delle società di capitali, i sindaci esercitano un controllo di legalità sull’amministrazione, distinto e complementare rispetto al potere gestorio degli amministratori. L’articolo 2403 del Codice civile, nel delinearne i compiti, esige un’attività di vigilanza non meramente formale ma sostanziale, estesa al contenuto della gestione e non limitata alla regolarità contabile. Tale obbligo trova ulteriore rafforzamento nei commi successivi della medesima disposizione, che attribuiscono ai sindaci poteri informativi e di indagine, nonché la facoltà di convocare l’assemblea o segnalare al tribunale gravi irregolarità gestionali ai sensi dell’articolo 2409 del Codice civile. Si tratta, dunque, di un dovere di controllo attivo e penetrante, il cui inadempimento può assumere rilievo penale quando risulti causalmente connesso al verificarsi di condotte distrattive o dissipative da parte degli amministratori.

La pronuncia in esame valorizza in modo sistematico il principio secondo cui la posizione di garanzia del sindaco implica non solo il dovere di prevenire l’evento lesivo ma anche di attivarsi tempestivamente quando emergano elementi sintomatici di irregolarità. Non è sufficiente, pertanto, una condotta improntata alla mera inerzia, giacché la responsabilità penale può derivare anche da omissioni che abbiano agevolato la prosecuzione di pratiche gestionali illecite. L’elemento soggettivo si concreta nella consapevole accettazione del rischio che, a causa dell’omesso controllo, l’amministratore prosegua nella condotta criminosa: una forma di dolo eventuale che si desume proprio dalla presenza di segnali di allarme oggettivamente percepibili.

L’argomentazione della Corte si fonda su un giudizio controfattuale che mira a verificare se, qualora i sindaci avessero esercitato i poteri-doveri di vigilanza loro spettanti, le condotte di bancarotta avrebbero potuto essere evitate o interrotte. Si tratta di una valutazione che coniuga la causalità materiale con il nesso funzionale derivante dalla posizione di garanzia. L’omissione assume dunque un rilievo non meramente passivo, poiché si traduce in un contributo causale all’evento delittuoso, concorrendo con la condotta attiva dell’amministratore.

L’approccio della Cassazione segna un punto di equilibrio tra due esigenze contrapposte. Da un lato, si evita di estendere eccessivamente la responsabilità dei sindaci sulla sola base del ruolo ricoperto, escludendo ogni automatismo sanzionatorio; dall’altro, si afferma con fermezza che l’inazione non può essere giustificata dall’affidamento acritico negli amministratori. Il parametro dirimente è rappresentato dall’effettiva percepibilità dei segnali di irregolarità. Solo quando tali indici risultino obiettivamente apprezzabili, il mancato intervento dei sindaci può considerarsi causalmente e soggettivamente rilevante.

Sotto il profilo sistematico, tale impostazione si colloca nel solco di una progressiva estensione della responsabilità degli organi di controllo in funzione di tutela non solo degli interessi societari ma anche di quelli dei creditori. La crisi d’impresa, infatti, accentua l’interdipendenza tra la gestione e la vigilanza: la mancata reazione dei sindaci di fronte a operazioni contabili anomale, alla reiterazione di perdite non coperte o alla distrazione di risorse sociali, contribuisce a perpetuare una situazione di dissesto che, una volta sfociata nel fallimento, assume rilievo penale. Ne consegue che la funzione di vigilanza, tradizionalmente collocata nell’ambito del diritto societario, diviene strumento di prevenzione dei reati fallimentari.

La sentenza pone altresì l’accento sulla necessità di superare la visione riduttiva del controllo sindacale quale mera verifica formale dei documenti contabili. Il collegio sindacale deve, al contrario, confrontare la rappresentazione contabile con la realtà operativa dell’impresa, verificando la plausibilità economica delle poste di bilancio e l’effettiva esistenza dei rapporti giuridici sottostanti. La diligenza richiesta ai sindaci è quella professionale qualificata, commisurata alla complessità dell’attività societaria e alle competenze tecniche dell’organo di controllo. Il mancato esercizio di tali prerogative, quando collegato alla consumazione di illeciti gestionali, trasforma l’omissione in cooperazione colposa o dolosa nel reato di bancarotta.

La pronuncia della Corte assume rilievo anche in relazione al nuovo quadro normativo delineato dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, che rafforza i meccanismi di allerta e gli obblighi di segnalazione interna. Il principio di tempestività dell’intervento dei controllori trova qui una declinazione normativa, coerente con la funzione preventiva che la giurisprudenza riconosce al collegio sindacale. In tale contesto, l’individuazione e la gestione dei “segnali di allarme” non costituiscono soltanto un onere etico-professionale, ma un presidio giuridico volto a prevenire la degenerazione della crisi in responsabilità penale.

L’elaborazione della Corte di Cassazione consolida un orientamento che responsabilizza l’organo di controllo nella salvaguardia della legalità economica dell’impresa. L’omissione di vigilanza non è più letta come semplice mancanza di diligenza, ma come potenziale concorso nell’illecito, qualora la mancata reazione a indici oggettivi di anomalia risulti causalmente collegata alla condotta distrattiva degli amministratori. Ne deriva un modello di responsabilità penale fondato sull’effettività del controllo e sull’esigibilità dell’azione preventiva, in cui la funzione sindacale si configura quale strumento di garanzia per la collettività dei creditori e per l’ordinato funzionamento del mercato.

20 ottobre 2025

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Il principio di inversione dell’onere della prova nell’accertamento analitico-induttivo: profili sistematici e implicazioni per la tutela del contribuente

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La recente ordinanza n. 27118 del 9 ottobre 2025 della Corte di cassazione rappresenta un momento di chiarificazione significativa nel sistema dell’accertamento tributario, consolidando un orientamento volto a rafforzare la posizione dell’Amministrazione finanziaria nei casi di inattendibilità della contabilità aziendale. Il provvedimento riafferma la legittimità del ricorso al metodo analitico-induttivo, previsto dagli artt. 39 del D.P.R. n. 600 del 1973 e 54 del D.P.R. n. 633 del 1972, consentendo all’Agenzia delle entrate di integrare o ricostruire i redditi dichiarati anche mediante presunzioni semplici, purché dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 del codice civile. Tale pronuncia incide profondamente sul rapporto probatorio tra fisco e contribuente, delineando un’inversione dell’onere della prova che si colloca al crocevia tra esigenze di efficienza fiscale e garanzie di difesa.

Sotto il profilo sistematico, l’accertamento analitico-induttivo si configura come strumento intermedio tra la verifica analitica e quella induttiva pura: esso presuppone l’esistenza di scritture formalmente regolari ma sostanzialmente inattendibili, tali da consentire all’Amministrazione di superare il dato contabile sulla base di elementi indiziari. La Corte, richiamando precedenti consolidati, ribadisce che la falsità o incompletezza delle scritture contabili autorizza l’Ufficio a ricorrere a presunzioni anche isolate, purché idonee a fondare un giudizio di verosimiglianza circa l’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati. Una volta accertata l’inattendibilità delle scritture, l’onere della prova si trasferisce sul contribuente, il quale è tenuto a dimostrare la correttezza della propria contabilità e la non sussistenza dei maggiori redditi presunti. Tale principio, pur coerente con la logica dell’efficienza impositiva, comporta una rilevante deroga al paradigma ordinario dell’art. 2697 c.c., secondo cui è chi afferma un diritto a doverne provare i presupposti.

La vicenda oggetto dell’ordinanza prende le mosse da un accertamento concernente l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, emesse da società prive di struttura e operatività — le cosiddette cartiere — che avevano generato costi fittizi e occultato redditi reali. L’Amministrazione, constatata la falsità delle scritture, ha ricostruito il volume dei ricavi sulla base di presunzioni relative al margine illecito stimato. La Corte, nel cassare la decisione della giurisdizione tributaria regionale, ha rilevato l’errore dei giudici di merito nel non considerare la pluralità di elementi indiziari offerti dall’Ufficio, valorizzando il principio secondo cui anche una sola presunzione, se grave e precisa, può fondare l’accertamento. Il giudice tributario, pertanto, è tenuto a valutare la coerenza complessiva del quadro probatorio, non potendo escludere la validità della ricostruzione fiscale per il solo difetto di riscontri diretti.

Dal punto di vista dogmatico, la decisione rilegge la funzione delle presunzioni nel processo tributario come strumento di razionalizzazione probatoria. Esse non si limitano a integrare lacune documentali, ma costituiscono un mezzo autonomo di accertamento, dotato di una propria forza dimostrativa, che legittima la ricostruzione del reddito imponibile anche in assenza di prove dirette. La praesumptio hominis, nella sua declinazione fiscale, assume così valore di strumento di contrasto all’opacità contabile, specie nei casi di frodi strutturate o di contabilità meramente apparente. Tuttavia, la pronuncia evidenzia anche il rischio sistemico derivante da un’applicazione estensiva del principio: la possibilità che imprese prive di dolo, ma affette da irregolarità formali, subiscano accertamenti gravosi difficilmente confutabili, con effetti potenzialmente lesivi del diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione.

In chiave interpretativa, la Corte delinea una linea di confine sottile ma decisiva: l’inversione dell’onere della prova non scaturisce automaticamente da ogni irregolarità, bensì dalla dimostrata inattendibilità complessiva della contabilità, intesa come mancanza di coerenza sostanziale tra i dati contabili e la realtà economica sottostante. Solo in presenza di tale disallineamento sostanziale l’Amministrazione può legittimamente fondare l’accertamento su presunzioni semplici e gravare il contribuente dell’onere di confutarle. La giurisprudenza di legittimità, dunque, sembra muoversi verso una concezione “funzionale” della prova tributaria, che privilegia l’effettività dei dati economici rispetto alla mera regolarità formale delle scritture.

In prospettiva sistematica, l’ordinanza n. 27118/2025 si inserisce nel più ampio processo di rafforzamento dei poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria, in linea con le politiche europee di contrasto all’evasione e all’elusione fiscale. Essa invita gli operatori economici a una maggiore trasparenza contabile e a un presidio più rigoroso dei processi documentali, poiché ogni anomalia può divenire il presupposto di una ricostruzione presuntiva difficilmente ribaltabile. Al contempo, il provvedimento sollecita una riflessione sul bilanciamento tra esigenze di gettito e garanzie del contribuente, richiamando la necessità di un controllo giurisdizionale effettivo sulla ragionevolezza e proporzionalità delle presunzioni utilizzate.

La decisione della Suprema Corte consolida il principio per cui, in presenza di contabilità inattendibile, l’Agenzia delle entrate può procedere a un accertamento basato su presunzioni semplici, spostando sul contribuente l’onere di dimostrare la correttezza dei propri dati fiscali. Tale impostazione, pur rispondendo a un’esigenza di tutela dell’interesse erariale, impone un rinnovato equilibrio tra potere accertativo e diritti di difesa, affinché l’efficacia degli strumenti di contrasto all’evasione non si traduca in un indebito sacrificio delle garanzie processuali e sostanziali del contribuente. In definitiva, l’ordinanza n. 27118/2025 si configura come un tassello fondamentale nella costruzione di un diritto tributario probatorio sempre più fondato sul principio di ragionevolezza presuntiva, ma anche come monito a preservare, in ogni caso, la centralità del giusto processo tributario.

17 ottobre 2025

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La configurabilità dell’esercizio abusivo della professione tra apparenza qualificata e libertà delle attività non regolamentate

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’evoluzione giurisprudenziale in materia di esercizio abusivo della professione offre una prospettiva di rilievo nella definizione dei limiti di liceità delle prestazioni tecnico-professionali rese da soggetti non iscritti ad albi o ordini. La sentenza della Corte di cassazione, Sezione quinta penale, n. 1374 del 2025, si inserisce nel solco tracciato dalle Sezioni Unite del 2012, riaffermando con rigore i principi che governano l’individuazione del perimetro applicativo dell’art. 348 del codice penale. Essa assume particolare significato con riferimento alla figura del tributarista, la cui attività, pur riconosciuta dalla legge n. 4 del 2013 come libera professione non ordinistica, rischia di interferire con ambiti riservati alle professioni contabili regolate dal d.lgs. n. 139 del 2005.

Il caso di specie trae origine dalla condotta di un soggetto che, privo di abilitazione e di iscrizione all’albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili, aveva per anni gestito la contabilità, la predisposizione delle dichiarazioni fiscali e gli adempimenti connessi di un’impresa individuale, presentandosi come professionista abilitato e curando persino gli aspetti previdenziali e assicurativi del personale dipendente. La Corte ha confermato la condanna per esercizio abusivo della professione, rilevando che l’attività svolta, per modalità, continuità, onerosità e organizzazione, aveva determinato l’apparenza oggettiva di un’attività professionale riservata agli iscritti all’albo dei commercialisti.

Il nucleo argomentativo della decisione risiede nell’adesione al principio, già espresso dalle Sezioni Unite nella pronuncia Cani (n. 11545/2012), secondo cui integra il reato di cui all’art. 348 cod. pen. non solo il compimento di atti singolarmente riservati a una professione, ma anche lo svolgimento sistematico di attività che, pur non esclusive, risultino univocamente riconducibili alla competenza specifica di essa, qualora la condotta, per continuità e organizzazione, generi nei terzi l’affidamento nella qualità professionale del soggetto agente. Si supera così l’approccio formalistico che limitava la rilevanza penale ai soli atti tipicamente riservati, abbracciando una concezione funzionale dell’offesa: è la lesione dell’interesse pubblico alla corretta regolamentazione delle attività professionali e alla tutela dell’affidamento dell’utenza che fonda l’antigiuridicità della condotta.

La Corte ha altresì escluso la tesi difensiva che invocava la libertà delle professioni non regolamentate di cui alla legge n. 4/2013. Tale disciplina, volta a garantire la trasparenza e la qualificazione dei soggetti operanti in settori privi di ordine, non legittima l’ingerenza in ambiti normativamente riservati. Laddove la prestazione travalichi l’assistenza meramente amministrativa o contabile e si estenda ad attività che, per contenuto tecnico e rilevanza giuridica, richiedono l’iscrizione ad un albo, la libertà professionale trova un limite insuperabile nella riserva di competenza. Ne deriva che l’esercizio di fatto di funzioni tipiche del commercialista – quali la tenuta dei libri contabili, la redazione delle dichiarazioni tributarie e la consulenza in materia di rapporti di lavoro – senza abilitazione integra la fattispecie incriminatrice, a prescindere dall’assenza di un danno patrimoniale o di un vantaggio economico specifico.

Un ulteriore profilo di interesse della decisione riguarda il rapporto tra l’esercizio abusivo e il delitto di truffa. La difesa aveva sostenuto che la falsa qualità professionale avrebbe rappresentato un mero mezzo fraudolento, assorbito dalla fattispecie di truffa. La Corte ha invece escluso l’assorbimento, valorizzando la diversità dei beni giuridici tutelati: la truffa protegge il patrimonio, mentre l’art. 348 cod. pen. tutela l’ordine pubblico professionale e la fiducia collettiva nell’esercizio qualificato delle attività regolamentate. I due reati possono pertanto concorrere, poiché l’artificio di presentarsi come professionista abilitato non esaurisce l’offesa, ma la duplica, ledendo l’interesse pubblico oltre che quello patrimoniale della vittima.

Sotto il profilo sistematico, la sentenza ribadisce il ruolo dell’elemento dell’“apparenza qualificata” quale discrimine tra attività libera e professione abusiva. La sussistenza del reato richiede che la condotta si svolga in modo tale da indurre terzi a ritenere il soggetto dotato del titolo abilitante, anche in assenza di un esplicito riferimento alla qualità. È, dunque, il contesto complessivo – continuità, organizzazione, compenso e pubblica spendita della qualifica – a fondare la tipicità penale, ponendo un argine alla proliferazione di figure para-professionali che, in assenza di un controllo deontologico o tecnico, possono generare confusione e pregiudizio per l’affidamento sociale.

La pronuncia in esame si pone così come un punto di equilibrio tra la libertà d’iniziativa economica e la tutela della funzione pubblica delle professioni ordinistiche. Essa riafferma che la demarcazione tra attività consentite e riservate non può essere affidata alla mera autodefinizione dell’operatore, ma deve ancorarsi a parametri oggettivi di contenuto, organizzazione e rappresentazione esterna dell’attività. La linea interpretativa che ne deriva tende a garantire la certezza del diritto e la protezione dell’utenza, riaffermando l’importanza dell’abilitazione come presidio di competenza, responsabilità e correttezza professionale.

La decisione contribuisce a delineare un perimetro più chiaro dell’art. 348 cod. pen. nell’era delle professioni ibride e digitali, in cui il confine tra consulenza libera e attività riservata si fa sempre più labile. L’attenzione della giurisprudenza verso l’apparenza sociale dell’attività e la tutela dell’interesse collettivo alla professionalità qualificata conferma la funzione sistemica della norma penale: non strumento di difesa corporativa, ma garanzia dell’affidabilità del mercato dei servizi professionali e della correttezza dei rapporti economici fondati su competenze certificate.

16 ottobre 2025

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