L’autonomia privata nelle unioni di fatto: orientamenti recenti della giurisprudenza di legittimità

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

Negli ultimi anni si è assistito a una significativa emersione e progressiva formalizzazione degli accordi di natura economico-patrimoniale tra partner di unioni di fatto, segno tangibile della crescente rilevanza attribuita alla contrattualizzazione dei rapporti affettivi non matrimoniali. In tale contesto, la Corte di cassazione ha offerto, con una serie di recenti pronunce, un corpus interpretativo rilevante che definisce con maggior dettaglio l’ambito operativo della volontà negoziale tra conviventi more uxorio.

  1. Validità e interpretazione degli accordi tra conviventi

Con l’ordinanza n. 1324 del 20 gennaio 2025, la Suprema Corte ha affermato la piena validità della scrittura privata sottoscritta da partner conviventi avente ad oggetto tanto la regolamentazione dell’affidamento del figlio minore quanto la definizione delle questioni patrimoniali insorte a seguito della cessazione della convivenza. L’organo nomofilattico ha ribadito l’applicazione del principio codicistico della comune intenzione dei contraenti (art. 1362 c.c.), chiarendo che la ricerca del senso letterale delle parole deve avvenire tenendo conto dell’intero contesto negoziale, in un’ottica sistematica e non atomistica della dichiarazione.

  1. Clausole di ricognizione di debito: onere redazionale e requisiti di validità

Nel prosieguo interpretativo, l’ordinanza n. 1879 del 27 gennaio 2025 ha precisato che, affinché una clausola di ricognizione di debito contenuta in un accordo tra conviventi possa esplicare efficacia obbligatoria, è necessaria una formulazione espressa dell’obbligo restitutorio. Non è sufficiente, pertanto, una semplice dichiarazione di avvenuto trasferimento di denaro: la funzione solutoria o riconoscitiva della scrittura privata deve emergere in modo chiaro ed inequivoco.

  1. Revoca della donazione tra conviventi per ingiuria grave

Con l’ordinanza n. 32682 del 16 dicembre 2024, la Corte ha riconosciuto la possibilità di revoca di una donazione immobiliare effettuata nell’ambito di una relazione di fatto, sulla base dell’ingiuria grave di cui all’art. 801 c.c. La fattispecie esaminata attesta la possibilità di trasporre le cause di revoca previste per i rapporti coniugali anche all’interno di relazioni affettive non istituzionalizzate, ove si registri un vulnus alla dignità del donante tale da integrare un comportamento lesivo dell’onore e della considerazione personale.

  1. Obbligazioni naturali e principio solidaristico post-convivenza

Di particolare rilievo è l’ordinanza n. 28 del 2 gennaio 2025, ove la Cassazione ha valorizzato l’art. 2 Cost. quale fondamento dei doveri morali e sociali intercorrenti tra ex conviventi. Tali obblighi – in assenza di un vincolo matrimoniale – possono comunque trovare riconoscimento giuridico attraverso l’istituto dell’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.), a condizione che le prestazioni siano sorrette da spontaneità, proporzionalità e adeguatezza rispetto al vincolo affettivo e al contesto relazionale pregresso.

  1. Esclusione dell’arricchimento senza causa tra conviventi

Infine, con l’ordinanza n. 11337 del 30 aprile 2025, la Corte ha ulteriormente consolidato il principio per cui i contributi economici versati da un convivente all’altro nel corso della relazione non danno luogo a indebito arricchimento, qualora risultino conformi a ciò che la coscienza sociale reputa doveroso in un rapporto affettivo consolidato. Solo ove si riscontri una sproporzione manifesta e ingiustificata delle prestazioni si potrà profilare una pretesa restitutoria fondata sull’art. 2041 c.c.

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Le pronunce analizzate attestano un’evoluzione coerente con il principio personalista e solidaristico dell’ordinamento costituzionale, riconoscendo dignità e tutela giuridica alle unioni di fatto anche in assenza di formalizzazione matrimoniale. L’autonomia privata trova così nuovi spazi di espressione nel diritto delle relazioni familiari, pur entro i confini di correttezza, buona fede e responsabilità affettiva. Resta però centrale, per la validità ed efficacia di tali accordi, l’accuratezza redazionale e la chiarezza delle previsioni contrattuali.

5 maggio 2025

Licenziamento privo di motivazione: la Cassazione riafferma la reintegrazione attenuata

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

Con la recente sentenza n. 9544/2025, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema della tutela applicabile nei casi di licenziamento intimato senza indicazione contestuale dei motivi, consolidando un orientamento giurisprudenziale sempre più improntato alla valorizzazione delle garanzie sostanziali a favore del lavoratore.

Il caso concreto e il quadro normativo di riferimento

Il giudizio trae origine dal licenziamento di un lavoratore assunto anteriormente al 7 marzo 2015 – dunque soggetto alla disciplina dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, come riformato dalla legge Fornero – il quale veniva estromesso dal rapporto senza ricevere alcuna motivazione contestuale al provvedimento espulsivo.

La Corte d’Appello di Firenze, in sede di reclamo, aveva qualificato il recesso come affetto da inefficacia ai sensi del comma 6 dell’art. 18, riconoscendo pertanto una mera tutela indennitaria. Tale qualificazione si fondava sulle argomentazioni difensive successivamente addotte dal datore di lavoro, non contestate dal dipendente, che lasciavano intendere un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, seppur formalmente privo di esplicitazione iniziale.

La decisione della Cassazione: violazione sostanziale, non solo formale

La Suprema Corte ha radicalmente sconfessato l’impostazione del giudice di merito, affermando che l’assenza di motivazione contestuale integra un vizio sostanziale e non meramente formale. Tale mancanza, infatti, impedisce non solo la comprensione del fatto su cui si fonda il licenziamento, ma ostacola anche l’effettiva possibilità per il lavoratore di esercitare il diritto di difesa in modo tempestivo e consapevole, in violazione dell’art. 2, comma 2, della legge n. 604/1966.

Ne consegue che, in simili casi, non può trovare applicazione la tutela risarcitoria limitata prevista dal comma 6 dell’art. 18, bensì quella reintegratoria attenuata di cui al comma 4, riservata alle ipotesi di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del recesso.

Il principio di ragionevolezza costituzionale come criterio ermeneutico

Il Collegio, rafforzando la propria argomentazione, richiama espressamente i principi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 59/2021, 125/2022 e 128/2024, valorizzando un’interpretazione sistematica e coerente con l’art. 3 della Costituzione.

Secondo tale impostazione, sarebbe infatti irragionevole riconoscere una tutela reintegratoria nei casi in cui il fatto addotto risulti insussistente solo in giudizio, ma negarla nelle ipotesi – ben più gravi – in cui nessun fatto sia stato inizialmente allegato per giustificare il licenziamento. Si rischierebbe altrimenti di penalizzare proprio i casi connotati da maggiore arbitrarietà datoriale.

Un ulteriore passo verso la marginalizzazione della tutela indennitaria

La pronuncia si inserisce in un trend giurisprudenziale volto a limitare sempre più l’ambito applicativo della tutela meramente risarcitoria, soprattutto quando essa venga invocata per coprire condotte datoriali gravi, come l’omessa comunicazione dei motivi del licenziamento.

Tale approccio, oltre a restituire coerenza interna al sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, rafforza il ruolo della motivazione quale presidio di legalità e correttezza formale e sostanziale nei rapporti di lavoro.

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La sentenza n. 9544/2025 della Cassazione rappresenta un significativo chiarimento in materia di licenziamenti privi di motivazione, sancendo in modo netto l’inapplicabilità della tutela indennitaria nei casi di totale assenza di giustificazione scritta. La reintegrazione – seppur attenuata – torna così ad assumere centralità quale rimedio ordinamentale in presenza di violazioni gravi, coerentemente con l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale.

30 aprile 2025

Il patto di non concorrenza a tempo determinato e il corrispettivo in costanza di rapporto: una rilettura dei requisiti di validità alla luce delle ordinanze nn. 9256 e 9258 del 2025.

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

1. Premessa

Le ordinanze nn. 9256 e 9258 del 2025, rese dalla Corte di cassazione, offrono un importante contributo ermeneutico in materia di patto di non concorrenza, con particolare riferimento alla legittimità del pagamento del corrispettivo in costanza di rapporto e alla distinzione concettuale tra i vizi di nullità derivanti dalla indeterminatezza ovvero dall’incongruità del corrispettivo pattuito. Le pronunce, muovendo da una fattispecie concreta nella quale la clausola era contestata per il collegamento del compenso alla durata effettiva del rapporto, riaffermano principi consolidati, valorizzando nel contempo un’interpretazione sistematica che conferisce rilievo all’autonomia negoziale e alla specificità funzionale dell’istituto.

2. La natura autonoma del patto di non concorrenza

La Corte ribadisce che il patto di non concorrenza – pur inserito nel contesto di un rapporto di lavoro subordinato – costituisce un atto negoziale autonomo, la cui validità deve essere scrutinata alla luce di criteri propri, distinti da quelli relativi alla disciplina generale del contratto di lavoro. In particolare, il corrispettivo pattuito in favore del lavoratore non può essere confuso con la retribuzione, configurandosi come obbligazione sinallagmatica destinata a compensare la limitazione della libertà professionale ex articolo 2125 c.c.

3. Requisiti di determinatezza e congruità: l’autonomia dei vizi

Le ordinanze in esame chiariscono la distinzione concettuale tra nullità per indeterminatezza e nullità per incongruità del corrispettivo. La prima attiene all’elemento strutturale dell’obbligazione, richiedendo che il quantum sia determinato o almeno determinabile ex articolo 1346 c.c.; la seconda, invece, impone una valutazione funzionale circa l’effettiva idoneità del compenso a ristorare il sacrificio richiesto al lavoratore.

Tale distinzione non è meramente teorica: essa si traduce nella necessità di condurre due verifiche autonome e puntuali, evitando di desumere la nullità sulla base di presunzioni generalizzate o valutazioni postume degli effetti concretamente verificatisi.

4. La congruità del corrispettivo: valutazione ex ante

Un passaggio di particolare rilievo delle ordinanze – segnatamente dell’ordinanza n. 9256 – consiste nell’affermazione del principio secondo cui la congruità del corrispettivo deve essere valutata ex ante, alla luce del tenore letterale delle clausole e degli obblighi reciproci al momento della sottoscrizione del patto, indipendentemente da ciò che possa in concreto accadere nel prosieguo del rapporto.

Tale approccio si pone in coerenza con l’autonomia funzionale dell’obbligazione pecuniaria derivante dal patto, che può legittimamente persistere anche successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro, o essere adempiuta in costanza di esso, a condizione che la pattuizione soddisfi i requisiti di determinatezza e proporzionalità.

5. Durata del patto e predeterminabilità del compenso

Le ordinanze pongono in evidenza come l’efficacia a tempo determinato del patto rappresenti elemento idoneo a garantire la predeterminazione del corrispettivo. In tal senso, la pattuizione triennale oggetto di giudizio ha consentito di individuare ex ante l’ammontare complessivo dovuto, rendendo il compenso determinabile secondo criteri oggettivi.

Diversamente, ove manchi un termine finale di efficacia del patto, soprattutto in caso di pagamento in corso di rapporto, potrebbe sorgere una problematica di indeterminatezza strutturale del compenso, in quanto risulterebbe obiettivamente complesso calibrare in anticipo l’equilibrio sinallagmatico della clausola.

6. Nullità della clausola e indivisibilità della pattuizione

Un ulteriore profilo di interesse riguarda l’inammissibilità della conservazione parziale del patto in presenza di nullità. La Corte esclude, infatti, che si possa isolare e salvare una parte della clausola, trattandosi di un negozio unitario la cui nullità – se rilevata per uno dei due profili sopra richiamati – investe l’intero accordo.

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Le decisioni della Suprema Corte consolidano e al tempo stesso affinano l’impianto interpretativo in materia di patto di non concorrenza, ribadendo l’esigenza di una verifica rigorosa e articolata, sia in ordine alla struttura che alla funzione della clausola. Viene altresì rafforzato il principio secondo cui il compenso deve risultare non solo certo (o certo determinabile), ma anche proporzionato alla compressione della libertà professionale, valorizzando così il bilanciamento tra libertà negoziale e tutela dei diritti fondamentali del lavoratore.

22 aprile 2025