Autore: Francesco Cervellino

L’impignorabilità degli assegni familiari tra tutela assistenziale e limiti alla confisca penale: note a Cass. pen., sez. II, n. 33552/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La recente sentenza della Corte di cassazione penale, sezione seconda, n. 33552 del 10 ottobre 2025, offre un’importante occasione di riflessione sui confini applicativi dell’impignorabilità delle somme aventi natura assistenziale e sul loro rapporto con le misure di ablazione penale, in particolare il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente. Il caso sottoposto all’attenzione della Corte trae origine dal sequestro di un conto corrente intestato a un’indagata per reati di truffa e corruzione, sul quale affluivano esclusivamente somme erogate dall’Istituto nazionale di previdenza sociale a titolo di assegno unico e universale per i figli a carico. Il tribunale del riesame aveva ritenuto legittima la misura cautelare, richiamando l’orientamento secondo cui le somme depositate su un conto corrente perderebbero la loro originaria destinazione assistenziale, divenendo risorse patrimoniali liberamente aggredibili.

La Suprema Corte ha invece accolto il ricorso, ribaltando l’impostazione del giudice territoriale e riaffermando il principio di assoluta impignorabilità dei crediti destinati al soddisfacimento di esigenze vitali o assistenziali, anche nell’ambito delle misure penali di carattere patrimoniale. Tale approdo si fonda su una lettura sistematica dell’articolo 22 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1955, n. 797, che esclude la sequestrabilità e pignorabilità degli assegni familiari, e dell’articolo 545 del Codice di procedura civile, il quale prevede un regime di protezione assoluta per i crediti diretti a garantire bisogni essenziali della persona.

Il passaggio di maggiore rilievo della pronuncia riguarda il riconoscimento dell’applicabilità di tali limiti anche alle misure di confisca e di sequestro finalizzate all’ablazione per equivalente. In tale prospettiva, la Corte valorizza l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 26252/2022 (Cinaglia), secondo cui l’impignorabilità dei crediti da lavoro o di natura previdenziale deve ritenersi estensibile alla confisca per equivalente, trattandosi di valori che, pur assumendo forma monetaria, conservano una funzione assistenziale o retributiva insuscettibile di compressione. La successiva sentenza delle Sezioni Unite n. 13783/2024 (Massini) ha poi chiarito che la fungibilità del denaro non determina di per sé la confusione delle somme nel patrimonio dell’autore del reato, né altera la natura giuridica della misura ablatoria, che resta per equivalente anche quando colpisca somme corrispondenti a emolumenti periodici.

La Corte di cassazione, nel caso in esame, ha dunque ribadito che l’impignorabilità si estende ai crediti assistenziali in quanto tali, purché sia possibile individuare con certezza la causale dei versamenti e dimostrare che le somme sottoposte a vincolo derivino esclusivamente da titoli tutelati. L’onere probatorio grava sull’interessato, il quale deve fornire idonea documentazione – come gli estratti conto – atta a dimostrare la natura e la provenienza dei fondi. Nel caso concreto, la ricorrente aveva prodotto tali elementi, evidenziando che gli accrediti corrispondevano unicamente alle mensilità dell’assegno unico familiare, senza commistione con altri redditi.

Sotto il profilo sistematico, la decisione rappresenta un consolidamento della linea interpretativa che mira a bilanciare l’esigenza repressiva con la tutela della dignità personale e familiare dell’indagato. Il riconoscimento dell’impignorabilità assoluta per le somme di natura assistenziale conferma che la funzione di sostegno ai bisogni primari non può essere sacrificata neppure di fronte alla pretesa punitiva dello Stato. Tale impostazione appare coerente con i principi costituzionali di solidarietà sociale e di tutela della persona, nonché con la ratio delle norme che, nel processo civile, proteggono i crediti destinati al sostentamento minimo del debitore e del suo nucleo familiare.

La sentenza contribuisce inoltre a superare l’orientamento minoritario che, in passato, aveva ritenuto aggredibili le somme assistenziali una volta confluite nel patrimonio mobiliare del beneficiario. La Corte sottolinea che la mera circostanza del deposito in conto corrente non determina la perdita della natura assistenziale del credito, ove si dimostri l’assenza di commistione con altre risorse. In altri termini, il denaro, pur fungibile, conserva la propria destinazione se identificabile nella sua provenienza e funzione.

Sotto il profilo operativo, la pronuncia impone ai giudici del riesame e agli organi inquirenti un’attenzione rafforzata nella verifica della provenienza delle somme oggetto di sequestro, al fine di evitare compressioni indebite di diritti fondamentali. La distinzione tra somme assistenziali e risorse patrimoniali ordinarie assume rilievo decisivo nella fase cautelare, ove l’equilibrio tra tutela del credito pubblico e salvaguardia dei bisogni essenziali dell’individuo deve orientarsi in senso garantista.

In prospettiva, la sentenza n. 33552/2025 si colloca nel solco di una tendenza evolutiva del diritto penale patrimoniale verso una maggiore attenzione alla natura e alla funzione del bene oggetto di ablazione, non più valutato in termini puramente quantitativi ma secondo la sua incidenza sulla sfera esistenziale del destinatario. La nozione di impignorabilità, originariamente confinata all’esecuzione civile, si proietta così in ambito penale, assumendo un valore sistemico di tutela della persona contro l’eccesso repressivo. Tale evoluzione, coerente con la progressiva personalizzazione delle misure di confisca, segna un passo significativo nella definizione di un diritto penale dell’economia rispettoso della funzione sociale dei beni e delle garanzie costituzionali che ne presidiano la fruizione.

14 ottobre 2025

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Il valore probatorio delle dichiarazioni della persona offesa nei reati di maltrattamenti in famiglia: la svolta della Cassazione nella sentenza n. 32937/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione VI penale, n. 32937 del 7 ottobre 2025, si colloca all’interno di un consolidato orientamento giurisprudenziale che riconosce piena dignità probatoria alle dichiarazioni della persona offesa nei delitti contro l’incolumità individuale, e in particolare nel reato di cui all’art. 572 cod. pen. La pronuncia riveste rilievo sotto un duplice profilo: da un lato, per la conferma della sufficienza delle dichiarazioni della vittima, laddove dotate di coerenza logico-narrativa e supportate da riscontri esterni; dall’altro, per la valorizzazione della testimonianza resa da professionisti della salute mentale quale elemento oggettivante del vissuto soggettivo della vittima di violenza psicologica.

Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte concerneva una fattispecie di maltrattamenti in ambito familiare e lesioni personali aggravate, in cui l’imputato, secondo quanto accertato nei due gradi di merito, aveva instaurato un regime relazionale connotato da dominio, controllo e sistematiche prevaricazioni nei confronti della compagna convivente. La condotta, sviluppatasi nel corso di un protratto arco temporale, si era espressa prevalentemente mediante modalità psicologiche di soggiogamento, piuttosto che attraverso atti di violenza fisica, i quali risultavano invece sporadici e minoritari.

La difesa deduceva, tra gli altri motivi di ricorso, il vizio di motivazione con riferimento all’attendibilità della persona offesa, richiamando lo stato depressivo da cui quest’ultima era affetta, nonché l’assenza di adeguata valutazione critica delle testimonianze di terzi che avrebbero potuto escludere l’effettiva ricorrenza dei maltrattamenti. La Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha ritenuto che il giudizio di attendibilità espresso dalla Corte d’appello fosse sorretto da motivazione piena, non manifestamente illogica, e conforme all’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenza Bell’Arte, n. 41461/2012), secondo cui le dichiarazioni della persona offesa possono costituire unico fondamento per l’affermazione di responsabilità penale, purché sottoposte a vaglio di credibilità soggettiva e attendibilità oggettiva, condotto con maggiore rigore rispetto a quello ordinariamente riservato ai testimoni.

Di particolare rilievo risulta la considerazione del contributo reso dalla psicologa presso cui la vittima aveva intrapreso un percorso terapeutico. Tale testimonianza è stata ritenuta decisiva, in quanto corroborava le dichiarazioni della donna attraverso un’analisi professionale dell’ambiente oppressivo in cui la stessa era costretta a vivere, aggravato dalla necessità di ricorrere di nascosto all’aiuto specialistico a causa del controllo esercitato dall’imputato sui suoi orari e spostamenti. La deposizione ha delineato un quadro coerente di prevaricazione sistematica, suffragato altresì da una relazione psicosociale redatta congiuntamente da un’assistente sociale e da un’altra professionista, che evidenziava il vissuto di “schiacciamento” espresso dalla donna e i tratti di marcata prepotenza dell’uomo, connotati da un’impostazione relazionale maschilista.

Completavano il compendio probatorio le dichiarazioni di soggetti terzi – tra cui familiari e testimoni oculari – che confermavano la ricorrenza di episodi di violenza verbale, nonché referti sanitari idonei a documentare le conseguenze fisiche di almeno uno degli episodi. La Cassazione ha ritenuto che l’intreccio probatorio formatosi nei giudizi di merito consentisse di escludere qualsiasi vizio logico nella valutazione della responsabilità, respingendo altresì le doglianze relative all’asserita discontinuità delle condotte contestate. In particolare, è stata riaffermata la natura abituale del reato di maltrattamenti, il quale può essere integrato da comportamenti psicologicamente lesivi anche in assenza di contiguità cronologica, purché sintomatici di un atteggiamento sistematico di dominio e di soggezione.

Sotto il profilo soggettivo, la Corte ha precisato che il dolo del reato in esame si configura come generico, essendo sufficiente la volontà cosciente di porre in essere una condizione abituale di sopraffazione emotiva. Pertanto, anche in assenza di finalità specifiche o motivazioni ulteriori, la reiterazione di condotte lesive della dignità e dell’autonomia della vittima è idonea ad integrare l’elemento psicologico richiesto dalla norma incriminatrice.

La pronuncia in esame assume valenza paradigmatica per la capacità di enucleare i criteri interpretativi utili alla ricostruzione del reato di maltrattamenti psicologici, fenomeno spesso sommerso e difficile da documentare con strumenti tradizionali. La valorizzazione della testimonianza specialistica – purché connotata da rigore metodologico e coerenza narrativa – quale mezzo di riscontro delle dichiarazioni della persona offesa, apre nuove prospettive nella tutela effettiva delle vittime di violenza intrafamiliare. In tal senso, il pronunciamento si inserisce nel solco di un’evoluzione giurisprudenziale che riconosce dignità e valore processuale anche ai danni invisibili, ribadendo il principio per cui la giustizia penale è chiamata a farsi carico dell’interezza del vissuto lesivo, non solo delle sue manifestazioni esteriori.

14 ottobre 2025

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La sanatoria della nullità della notificazione mediante impugnazione dell’atto: natura, limiti e implicazioni sistematiche nel diritto tributario

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

Nel sistema del processo tributario, la validità della notificazione degli atti rappresenta il fondamento dell’effettività della tutela giurisdizionale, in quanto solo la conoscenza legale dell’atto consente al contribuente di esercitare pienamente il diritto di difesa. Il tema della sanatoria della nullità della notificazione assume dunque rilievo centrale, specialmente allorquando si controverta in ordine alla possibilità di ritenere sanato il vizio mediante la proposizione del ricorso da parte del contribuente. La recente ordinanza n. 11474/2025 della Corte di Cassazione offre uno spunto ermeneutico utile per ricostruire, con rigore sistematico, le condizioni di operatività dell’art. 156, terzo comma, del codice di procedura civile (c.p.c.) nell’ambito della notifica degli atti impositivi.

La disposizione in parola statuisce che “la nullità non può mai essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato”, configurandosi quale clausola generale a presidio del principio del raggiungimento dello scopo. Tale criterio teleologico, accolto in via generale dalla giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass., S.U., 5 ottobre 2004, n. 19854), ha trovato applicazione anche in ambito tributario, ove si ammette che la tempestiva impugnazione dell’atto, da parte del destinatario, valga quale indice della sua effettiva conoscenza, e pertanto determini la sanatoria della nullità della notifica.

Tuttavia, l’ordinanza n. 11474/2025 chiarisce come tale effetto sanante non sia invocabile in ogni ipotesi. In particolare, si osserva che la proposizione del ricorso vale a sanare la nullità della notifica solo qualora il vizio investa l’atto effettivamente impugnato. Quando, invece, il contribuente censura un atto successivo (quale, ad esempio, una cartella di pagamento) deducendo esclusivamente la mancata notifica dell’atto presupposto (come l’avviso di accertamento), la sanatoria non può operare. La nullità dell’atto presupposto, se non autonomamente impugnata, permane e si riverbera sull’atto conseguenziale, compromettendone la validità in via derivata.

Si tratta, a ben vedere, di una applicazione coerente del principio di sequenza procedimentale, che nel diritto tributario assicura la legittimità dell’azione accertativa dell’Amministrazione. La notifica di ciascun atto costituisce, infatti, presupposto indefettibile per la validità di quello successivo. Ne discende che l’omissione o la nullità della notificazione dell’atto prodromico comporta la nullità dell’atto consequenziale, non sanabile per effetto dell’impugnazione di quest’ultimo, a meno che l’atto anteriore non venga anch’esso impugnato autonomamente o cumulativamente.

In questa direzione si pone anche la giurisprudenza più recente (Cass. 5 ottobre 2018, n. 24433; Cass. S.U. 4 marzo 2008, n. 5791), la quale ha costantemente ribadito che l’omessa notificazione dell’atto presupposto non costituisce mera irregolarità, bensì vizio procedimentale sostanziale, in grado di invalidare l’intera pretesa tributaria.

Di riflesso, la dottrina ha evidenziato che l’istituto della sanatoria è strumentale alla salvaguardia del processo, ma non può essere impiegato in funzione surrogatoria della regolarità procedimentale, la quale, nel settore tributario, assume valore sostanziale oltre che formale. Da qui discende una lettura restrittiva dell’art. 156, terzo comma, c.p.c., che impone di circoscrivere l’effetto sanante alla sola ipotesi in cui l’atto impugnato sia viziato nella notificazione, ma nondimeno conosciuto nei termini utili dal contribuente.

Ulteriori problematiche si registrano con riferimento all’impugnazione dell’estratto di ruolo, nei casi in cui si venga a conoscenza della pretesa solo in occasione di un atto successivo (quale il preavviso di fermo). In tali ipotesi, la recente normativa (D.Lgs. 110/2024) ha inteso delimitare le condizioni di ammissibilità del ricorso, ammettendo l’impugnazione solo al ricorrere di tassative ipotesi, tra cui l’assenza di notifica dell’atto presupposto. Anche qui, l’esigenza di una notificazione regolare, non supplibile dalla mera conoscenza di fatto, si conferma centrale nell’economia del sistema.

Di particolare rilievo, sotto il profilo sistematico, è la distinzione che la Corte ha inteso riaffermare tra nullità sanabile e nullità insanabile. La prima si ha quando l’atto viziato raggiunge comunque il destinatario in modo tale da consentirgli una difesa consapevole e tempestiva. La seconda ricorre, invece, allorquando l’omissione colpisca l’atto fondante della pretesa e non vi sia stata impugnazione diretta: in questo caso il vizio permane e travolge l’intera sequenza.

Si comprende, dunque, come l’effetto sanante del ricorso debba essere valutato ex ante, in relazione alla struttura del procedimento notificatorio e alla posizione processuale del contribuente. La mera conoscenza dell’atto, ove priva di fondamento documentale (quale, ad esempio, la raccomandata informativa prevista dall’art. 60 DPR 600/1973), non è sufficiente a integrare il requisito del raggiungimento dello scopo.

La sanatoria della nullità della notifica ex art. 156 c.p.c., pur costituendo presidio di economia processuale e di efficienza del sistema, incontra un limite strutturale nel rispetto della legalità procedimentale tributaria. La corretta notificazione dell’atto presupposto, in quanto condizione di validità della sequenza impositiva, non può essere surrogata dalla mera proposizione del ricorso contro l’atto successivo. L’ordinanza n. 11474/2025 si pone, in tal senso, quale riaffermazione della centralità del diritto di difesa e della funzione garantista della notificazione, intesa non come mera formalità, ma come condizione di esistenza dell’atto impositivo stesso.

13 ottobre 2025

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