Autore: Francesco Cervellino

Comportamenti extralavorativi e licenziamento disciplinare: la ridefinizione giurisprudenziale del nesso fiduciario alla luce dell’ordinanza n. 22593/2025 della Cassazione

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’ordinanza n. 22593 del 2025 della Corte di Cassazione costituisce un’importante occasione per riflettere sul perimetro applicativo del licenziamento disciplinare nel caso di condotte poste in essere dal lavoratore al di fuori dell’orario di lavoro ma all’interno di spazi aziendali e in danno di un collega, sollevando interrogativi complessi sul rapporto tra doveri extralavorativi, vincolo fiduciario e sanzionabilità espulsiva.

La fattispecie sottoposta al vaglio della Corte di legittimità prende origine da un episodio avvenuto in un parcheggio aziendale, dove un dipendente, giunto a bordo di un’autovettura condotta da terzi, ha posto in essere un duplice atto di aggressività simbolica e materiale nei confronti di un collega, prima sputando sulla sua autovettura e poi danneggiandone lo specchietto laterale sinistro, che ha successivamente asportato. Tali condotte, sebbene anteriori all’inizio dell’orario di servizio, sono state ritenute dal datore di lavoro gravi al punto da giustificare l’irrogazione del licenziamento per giusta causa.

Il giudice di prime cure ha tuttavia ritenuto sproporzionata la sanzione espulsiva, qualificando la condotta come riconducibile alla clausola generale di cui all’articolo 53, lettera h, del Contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) per l’industria gomma-plastica, disposizione che contempla sanzioni conservative (multa o sospensione) per comportamenti che, pur lesivi della disciplina o della morale aziendale, non risultino tali da giustificare la rottura irreversibile del vincolo fiduciario. Al contrario, la Corte d’appello ha valorizzato la carica offensiva e anti-relazionale della condotta, inquadrandola tra le gravi infrazioni alla disciplina di cui all’articolo 54, comma 1, del medesimo CCNL, e ritenendola idonea a minare in via definitiva l’affidamento datoriale.

La Suprema Corte ha cassato la sentenza d’appello, censurandone l’iter motivazionale sotto più profili. In primo luogo, ha riaffermato la necessità di distinguere le sanzioni conservative da quelle espulsive non già in base a un’astratta valutazione della gravità della condotta, bensì alla luce della connessione funzionale della stessa con l’esecuzione del rapporto di lavoro, elemento ritenuto indefettibile per l’applicabilità dell’articolo 54. In secondo luogo, ha richiamato l’esigenza di un’interpretazione sistematica e coerente delle clausole generali contenute nei codici disciplinari collettivi, sottolineando che la disposizione di cui all’articolo 53 è idonea a ricomprendere anche comportamenti attivi, e che l’assenza di una diretta incidenza sull’espletamento della prestazione lavorativa esclude la possibilità di qualificare la condotta come giusta causa di recesso.

Tale approccio interpretativo, pur fondandosi su una rigorosa lettura formale del dato normativo, solleva rilevanti problematiche di ordine sistemico. Invero, appare riduttivo limitare l’operatività del vincolo fiduciario al solo perimetro spazio-temporale della prestazione lavorativa, trascurando il fatto che la relazione di lavoro è, per sua natura, intrinsecamente fondata su un’aspettativa di affidabilità e correttezza comportamentale che trascende i confini dell’orario di servizio. In tale ottica, atti di manifesta aggressività o ostilità, compiuti all’interno di spazi aziendali e in danno di colleghi, possono e devono essere valutati alla stregua di violazioni dei doveri comportamentali fondamentali, ancorché non riconducibili direttamente all’attività lavorativa in senso stretto.

Appare dunque opportuno ricondurre l’analisi della sanzionabilità disciplinare entro la più ampia cornice dei doveri ex articolo 2104 del Codice civile, che impone al prestatore d’opera subordinato l’adempimento diligente e leale delle proprie obbligazioni, nonché del dovere di fedeltà sancito dall’articolo 2105, che implica, tra l’altro, l’astensione da comportamenti potenzialmente lesivi dell’integrità organizzativa e relazionale dell’impresa. La condotta in esame, sebbene estranea al momento esecutivo della prestazione, ha indubbiamente inciso negativamente sulla coesione del gruppo di lavoro e sulla qualità delle relazioni interne, fattori rilevanti ai fini della tenuta del contesto produttivo.

Sotto altro profilo, la pronuncia in commento evidenzia ancora una volta le criticità insite nell’utilizzo delle clausole generali all’interno dei codici disciplinari, la cui elasticità semantica si traduce spesso in margini di incertezza applicativa tali da compromettere il principio di certezza del diritto e di prevedibilità degli effetti disciplinari. La conseguenza pratica è un aumento del contenzioso e una pericolosa frammentazione interpretativa, che finisce per ostacolare la costruzione di un diritto del lavoro coerente e prevedibile.

In questo quadro, si impone un ripensamento complessivo della disciplina del licenziamento disciplinare, che potrebbe avvalersi di un intervento normativo volto a tipizzare le condotte espulsive, delineare con maggiore precisione il concetto di giusta causa e valorizzare il criterio della lesione del vincolo fiduciario in un’ottica funzionale e non meramente formale. Solo un tale riassetto normativo potrà restituire certezza e razionalità a un settore del diritto del lavoro profondamente segnato da incertezze esegetiche e da soluzioni giurisprudenziali non sempre uniformi.

26 agosto 2025

Responsabilità gestoria e imputazione causale nella crisi d’impresa: profili sostanziali e processuali nella giurisprudenza di merito

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’ordinanza del Tribunale di Milano, Sezione feriale, del 21 agosto 2025, offre un contributo rilevante alla sistematizzazione dei presupposti giuridici dell’azione risarcitoria esperibile dai creditori sociali nei confronti degli amministratori di società a responsabilità limitata (S.r.l.), ai sensi dell’articolo 2476, comma 6, del codice civile. Il provvedimento, intervenendo sulla revoca di un sequestro conservativo precedentemente concesso, pone l’accento sull’esigenza di una rigorosa verifica del nesso eziologico tra condotta gestoria e pregiudizio patrimoniale, sancendo in via giurisprudenziale la centralità dell’onere probatorio quale presidio dell’effettività della responsabilità.

È principio ormai consolidato che l’amministratore di S.r.l., pur non rispondendo personalmente dei debiti sociali in ragione dell’autonomia patrimoniale perfetta dell’ente, possa essere chiamato a rispondere ex delicto o ex contractu qualora la sua condotta, connotata da violazione degli obblighi di legge o statutari, abbia prodotto un danno diretto alla società ovvero ai creditori sociali. In tale contesto, l’articolo 2476, comma 6, c.c. configura un’azione speciale di natura aquiliana, fondata su un titolo di responsabilità extracontrattuale, a tutela dei creditori danneggiati da atti gestori in violazione del generale dovere di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale.

L’ordinanza in commento si segnala per la chiarezza con cui ribadisce che la crisi d’impresa, pur potendo costituire l’esito di una gestione negligente o colpevole, non è di per sé idonea a fondare la responsabilità degli amministratori, ove non sia dimostrata la riconducibilità eziologica della stessa a condotte qualificabili come mala gestio. La decisione milanese si pone in perfetta continuità con l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’azione dei creditori non può fondarsi su presunzioni semplici, bensì necessita dell’allegazione e della prova di fatti concreti, atti gestori specifici e dannosi, secondo un impianto probatorio articolato e coerente (Cass., 24 febbraio 2014, n. 4377).

Nella fattispecie, il giudice di merito ha chiarito che l’inattività degli amministratori, consistita nella mancata costituzione in giudizio o nell’omesso pagamento di alcuni debiti, non può essere ritenuta ex se sufficiente a integrare gli estremi della responsabilità risarcitoria, qualora si collochi in una fase già caratterizzata da dissesto economico e non risulti connotata da condotte antidoverose tipiche. Analogamente, la mera insufficienza patrimoniale, se non sorretta da un impianto contabile documentato e correlato a condotte gestorie specifiche, non legittima l’adozione di misure cautelari conservative. Ne discende l’inidoneità del fumus boni iuris a sostenere la misura interdittiva, che pertanto è stata revocata in sede di riesame.

La decisione recepisce altresì un orientamento consolidato in dottrina e giurisprudenza circa l’inesistenza di una responsabilità oggettiva dell’amministratore, anche qualora investito di una carica formale o di fatto. Secondo Cass., 3 febbraio 2017, n. 2954, la responsabilità non può essere desunta automaticamente dalla posizione apicale, ma deve fondarsi su un accertamento specifico del ruolo attivo nella gestione e della violazione di obblighi di diligenza, prudenza e correttezza. Questo principio è stato ribadito da Cass., 12 gennaio 2021, n. 296, e ulteriormente sviluppato nella pronuncia 1° settembre 2023, n. 25631, che ha statuito che, una volta allegata la violazione, incombe sull’amministratore l’onere di dimostrare la conformità della condotta ai criteri di diligentia quam in suis.

Elemento centrale dell’impianto argomentativo del provvedimento è il richiamo al principio della business judgment rule, inteso quale limite funzionale al sindacato giudiziale sulle scelte imprenditoriali. Tale principio, mutuato dall’esperienza nordamericana e ormai stabilmente accolto nella giurisprudenza civile italiana, tutela la discrezionalità gestoria da interventi ex post non giustificati da violazioni manifeste delle regole di condotta. In base a questo criterio, il giudice può sindacare le scelte dell’amministratore solo laddove risultino manifestamente imprudenti, arbitrarie, irrazionali o poste in essere in violazione degli obblighi di lealtà e diligenza previsti dagli articoli 2392 e 2476 c.c.

Sul piano sistematico, l’ordinanza in commento riafferma l’importanza del corretto bilanciamento tra libertà di impresa e protezione dei terzi, ribadendo che la responsabilità gestoria non può tradursi in un’ipoteca permanente sul patrimonio dell’amministratore, ma deve essere limitata ai casi in cui sia riscontrabile una condotta concretamente antigiuridica, produttiva di danno e causalmente riconducibile all’agente. Ne consegue la necessità, per i creditori, di articolare un impianto probatorio che documenti puntualmente il credito certo, l’insufficienza patrimoniale, l’inadempimento degli obblighi conservativi e il nesso di causalità tra condotta e danno.

In ultima analisi, la pronuncia del Tribunale di Milano si inserisce tra quelle decisioni che, nel delimitare le condizioni dell’azione risarcitoria, contribuiscono a rafforzare la certezza del diritto, prevenendo derive punitive e assicurando al contempo la tutela dell’affidamento legittimo dei creditori sociali. In tale ottica, l’amministratore non è chiamato a rispondere in re ipsa del dissesto, ma solo laddove risulti comprovato che la crisi d’impresa costituisca effetto immediato e diretto di una gestione antidoverosa e causalmente efficiente.

26 agosto 2025

La prova del lavoro subordinato in ambito familiare: presunzioni, onerosità e funzione accertativa della giurisprudenza nella dialettica tra autonomia privata e tutela previdenziale

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’ordinanza n. 23919 del 2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, offre un’importante occasione per riflettere sul perimetro probatorio e sulle condizioni di opponibilità dei rapporti di lavoro instaurati tra familiari, in un quadro ordinamentale nel quale si intersecano esigenze di tutela previdenziale, limiti dell’autonomia contrattuale e presidi antifraudolenti. Il provvedimento conferma un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il vincolo familiare – in quanto elemento idoneo a generare presunzioni di gratuità – impone alla parte privata un onere probatorio rafforzato, ancor più stringente in assenza di convivenza.

La vicenda in esame riguarda la contestazione, da parte dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), di un rapporto di lavoro agricolo subordinato intercorso tra padre e figlio, formalmente riconosciuto in via amministrativa e successivamente disconosciuto a seguito di verifiche ispettive. L’amministrazione, agendo in autotutela, ha revocato il provvedimento di accoglimento dell’iscrizione del lavoratore negli elenchi anagrafici agricoli, ritenendo priva di elementi oggettivi la dedotta sussistenza della subordinazione.

Nel ricorso avverso l’atto di annullamento, il datore di lavoro aveva invocato la non convivenza tra le parti quale elemento idoneo a fondare, se non una presunzione legale, quanto meno un’indicazione sintomatica della natura onerosa del rapporto. La Corte ha tuttavia confermato l’orientamento secondo cui l’assenza del vincolo di convivenza non comporta l’inversione dell’onere probatorio, né è sufficiente a dimostrare la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato. In particolare, si esclude che l’elemento della non convivenza possa generare una presunzione iuris tantum di onerosità speculare a quella di gratuità attivata in caso di coabitazione, ponendosi tale interpretazione in contrasto con il principio di tipicità delle presunzioni e con il dovere di rigorosa prova degli elementi qualificanti il rapporto di lavoro.

La decisione si innesta in un solco giurisprudenziale che tende a valorizzare la funzione sostanziale degli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato – quali l’assoggettamento al potere direttivo e disciplinare del datore, la continuatività della prestazione e, soprattutto, l’onerosità – subordinando il riconoscimento della subordinazione alla dimostrazione piena e non meramente documentale della loro esistenza. La produzione di buste paga, cedolini o documenti fiscali assume valore meramente indiziario e non può, da sola, fondare il riconoscimento del rapporto in presenza di un legame familiare idoneo ad attivare una presunzione contraria.

La posizione della Corte si rafforza ulteriormente se considerata alla luce della disciplina dettata dall’articolo 230-bis del codice civile, norma che, nel delineare l’istituto dell’impresa familiare, ammette la possibilità di un apporto lavorativo in ambito familiare non soggetto a disciplina lavoristica ordinaria, bensì riconducibile a un modello di partecipazione cooperativa extra-contrattuale, con diritti patrimoniali proporzionati al contributo prestato ma privi delle caratteristiche del rapporto subordinato. Da ciò consegue che, in assenza di elementi specifici, gravi e concordanti, la prestazione lavorativa resa da un familiare si presume gratuita o comunque inserita in un contesto solidaristico e non negoziale.

Rilevante sotto il profilo procedurale è il chiarimento circa la natura e l’estensione dell’onere probatorio in ambito ispettivo. In linea con quanto statuito dalla giurisprudenza amministrativa in materia di autotutela, la Corte ha ribadito che, in sede di annullamento d’ufficio, l’amministrazione non è tenuta a dimostrare in senso proprio l’insussistenza del rapporto, bensì ad accertare l’inidoneità degli elementi documentali a comprovare i presupposti della prestazione lavorativa subordinata. Tale impostazione valorizza la funzione pubblicistica dell’attività accertativa e preserva l’effettività della tutela previdenziale, evitando che l’amministrazione resti vincolata a provvedimenti adottati in assenza di istruttoria adeguata o sulla base di mere dichiarazioni di parte.

Sotto il profilo sistemico, l’ordinanza in commento conferma che la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato in ambito familiare, pur essendo ammessa in astratto, richiede una rigorosa attività dimostrativa, tanto più stringente quanto più stretta è la relazione affettiva tra le parti. L’interesse pubblico alla corretta applicazione delle norme previdenziali e alla prevenzione di abusi documentali impone un’interpretazione restrittiva della prova della subordinazione, che non può ridursi alla produzione formale di documentazione unilaterale o autoreferenziale.

La pronuncia della Cassazione riafferma una lettura sostanzialistica del rapporto di lavoro subordinato, fondata sulla piena verificabilità degli elementi strutturali e sull’insufficienza di presunzioni inverse alla gratuità. Si conferma, così, un assetto interpretativo orientato alla tutela della coerenza e dell’effettività del sistema previdenziale, nella prospettiva di un equilibrio tra autonomia negoziale e interesse pubblico all’integrità delle posizioni assicurative e contributive.

25 agosto 2025