Autore: Francesco Cervellino

Responsabilità gestoria e imputazione causale nella crisi d’impresa: profili sostanziali e processuali nella giurisprudenza di merito

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

L’ordinanza del Tribunale di Milano, Sezione feriale, del 21 agosto 2025, offre un contributo rilevante alla sistematizzazione dei presupposti giuridici dell’azione risarcitoria esperibile dai creditori sociali nei confronti degli amministratori di società a responsabilità limitata (S.r.l.), ai sensi dell’articolo 2476, comma 6, del codice civile. Il provvedimento, intervenendo sulla revoca di un sequestro conservativo precedentemente concesso, pone l’accento sull’esigenza di una rigorosa verifica del nesso eziologico tra condotta gestoria e pregiudizio patrimoniale, sancendo in via giurisprudenziale la centralità dell’onere probatorio quale presidio dell’effettività della responsabilità.

È principio ormai consolidato che l’amministratore di S.r.l., pur non rispondendo personalmente dei debiti sociali in ragione dell’autonomia patrimoniale perfetta dell’ente, possa essere chiamato a rispondere ex delicto o ex contractu qualora la sua condotta, connotata da violazione degli obblighi di legge o statutari, abbia prodotto un danno diretto alla società ovvero ai creditori sociali. In tale contesto, l’articolo 2476, comma 6, c.c. configura un’azione speciale di natura aquiliana, fondata su un titolo di responsabilità extracontrattuale, a tutela dei creditori danneggiati da atti gestori in violazione del generale dovere di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale.

L’ordinanza in commento si segnala per la chiarezza con cui ribadisce che la crisi d’impresa, pur potendo costituire l’esito di una gestione negligente o colpevole, non è di per sé idonea a fondare la responsabilità degli amministratori, ove non sia dimostrata la riconducibilità eziologica della stessa a condotte qualificabili come mala gestio. La decisione milanese si pone in perfetta continuità con l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’azione dei creditori non può fondarsi su presunzioni semplici, bensì necessita dell’allegazione e della prova di fatti concreti, atti gestori specifici e dannosi, secondo un impianto probatorio articolato e coerente (Cass., 24 febbraio 2014, n. 4377).

Nella fattispecie, il giudice di merito ha chiarito che l’inattività degli amministratori, consistita nella mancata costituzione in giudizio o nell’omesso pagamento di alcuni debiti, non può essere ritenuta ex se sufficiente a integrare gli estremi della responsabilità risarcitoria, qualora si collochi in una fase già caratterizzata da dissesto economico e non risulti connotata da condotte antidoverose tipiche. Analogamente, la mera insufficienza patrimoniale, se non sorretta da un impianto contabile documentato e correlato a condotte gestorie specifiche, non legittima l’adozione di misure cautelari conservative. Ne discende l’inidoneità del fumus boni iuris a sostenere la misura interdittiva, che pertanto è stata revocata in sede di riesame.

La decisione recepisce altresì un orientamento consolidato in dottrina e giurisprudenza circa l’inesistenza di una responsabilità oggettiva dell’amministratore, anche qualora investito di una carica formale o di fatto. Secondo Cass., 3 febbraio 2017, n. 2954, la responsabilità non può essere desunta automaticamente dalla posizione apicale, ma deve fondarsi su un accertamento specifico del ruolo attivo nella gestione e della violazione di obblighi di diligenza, prudenza e correttezza. Questo principio è stato ribadito da Cass., 12 gennaio 2021, n. 296, e ulteriormente sviluppato nella pronuncia 1° settembre 2023, n. 25631, che ha statuito che, una volta allegata la violazione, incombe sull’amministratore l’onere di dimostrare la conformità della condotta ai criteri di diligentia quam in suis.

Elemento centrale dell’impianto argomentativo del provvedimento è il richiamo al principio della business judgment rule, inteso quale limite funzionale al sindacato giudiziale sulle scelte imprenditoriali. Tale principio, mutuato dall’esperienza nordamericana e ormai stabilmente accolto nella giurisprudenza civile italiana, tutela la discrezionalità gestoria da interventi ex post non giustificati da violazioni manifeste delle regole di condotta. In base a questo criterio, il giudice può sindacare le scelte dell’amministratore solo laddove risultino manifestamente imprudenti, arbitrarie, irrazionali o poste in essere in violazione degli obblighi di lealtà e diligenza previsti dagli articoli 2392 e 2476 c.c.

Sul piano sistematico, l’ordinanza in commento riafferma l’importanza del corretto bilanciamento tra libertà di impresa e protezione dei terzi, ribadendo che la responsabilità gestoria non può tradursi in un’ipoteca permanente sul patrimonio dell’amministratore, ma deve essere limitata ai casi in cui sia riscontrabile una condotta concretamente antigiuridica, produttiva di danno e causalmente riconducibile all’agente. Ne consegue la necessità, per i creditori, di articolare un impianto probatorio che documenti puntualmente il credito certo, l’insufficienza patrimoniale, l’inadempimento degli obblighi conservativi e il nesso di causalità tra condotta e danno.

In ultima analisi, la pronuncia del Tribunale di Milano si inserisce tra quelle decisioni che, nel delimitare le condizioni dell’azione risarcitoria, contribuiscono a rafforzare la certezza del diritto, prevenendo derive punitive e assicurando al contempo la tutela dell’affidamento legittimo dei creditori sociali. In tale ottica, l’amministratore non è chiamato a rispondere in re ipsa del dissesto, ma solo laddove risulti comprovato che la crisi d’impresa costituisca effetto immediato e diretto di una gestione antidoverosa e causalmente efficiente.

26 agosto 2025

La prova del lavoro subordinato in ambito familiare: presunzioni, onerosità e funzione accertativa della giurisprudenza nella dialettica tra autonomia privata e tutela previdenziale

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino e Avv. Francesca Coppola

L’ordinanza n. 23919 del 2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, offre un’importante occasione per riflettere sul perimetro probatorio e sulle condizioni di opponibilità dei rapporti di lavoro instaurati tra familiari, in un quadro ordinamentale nel quale si intersecano esigenze di tutela previdenziale, limiti dell’autonomia contrattuale e presidi antifraudolenti. Il provvedimento conferma un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il vincolo familiare – in quanto elemento idoneo a generare presunzioni di gratuità – impone alla parte privata un onere probatorio rafforzato, ancor più stringente in assenza di convivenza.

La vicenda in esame riguarda la contestazione, da parte dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), di un rapporto di lavoro agricolo subordinato intercorso tra padre e figlio, formalmente riconosciuto in via amministrativa e successivamente disconosciuto a seguito di verifiche ispettive. L’amministrazione, agendo in autotutela, ha revocato il provvedimento di accoglimento dell’iscrizione del lavoratore negli elenchi anagrafici agricoli, ritenendo priva di elementi oggettivi la dedotta sussistenza della subordinazione.

Nel ricorso avverso l’atto di annullamento, il datore di lavoro aveva invocato la non convivenza tra le parti quale elemento idoneo a fondare, se non una presunzione legale, quanto meno un’indicazione sintomatica della natura onerosa del rapporto. La Corte ha tuttavia confermato l’orientamento secondo cui l’assenza del vincolo di convivenza non comporta l’inversione dell’onere probatorio, né è sufficiente a dimostrare la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato. In particolare, si esclude che l’elemento della non convivenza possa generare una presunzione iuris tantum di onerosità speculare a quella di gratuità attivata in caso di coabitazione, ponendosi tale interpretazione in contrasto con il principio di tipicità delle presunzioni e con il dovere di rigorosa prova degli elementi qualificanti il rapporto di lavoro.

La decisione si innesta in un solco giurisprudenziale che tende a valorizzare la funzione sostanziale degli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato – quali l’assoggettamento al potere direttivo e disciplinare del datore, la continuatività della prestazione e, soprattutto, l’onerosità – subordinando il riconoscimento della subordinazione alla dimostrazione piena e non meramente documentale della loro esistenza. La produzione di buste paga, cedolini o documenti fiscali assume valore meramente indiziario e non può, da sola, fondare il riconoscimento del rapporto in presenza di un legame familiare idoneo ad attivare una presunzione contraria.

La posizione della Corte si rafforza ulteriormente se considerata alla luce della disciplina dettata dall’articolo 230-bis del codice civile, norma che, nel delineare l’istituto dell’impresa familiare, ammette la possibilità di un apporto lavorativo in ambito familiare non soggetto a disciplina lavoristica ordinaria, bensì riconducibile a un modello di partecipazione cooperativa extra-contrattuale, con diritti patrimoniali proporzionati al contributo prestato ma privi delle caratteristiche del rapporto subordinato. Da ciò consegue che, in assenza di elementi specifici, gravi e concordanti, la prestazione lavorativa resa da un familiare si presume gratuita o comunque inserita in un contesto solidaristico e non negoziale.

Rilevante sotto il profilo procedurale è il chiarimento circa la natura e l’estensione dell’onere probatorio in ambito ispettivo. In linea con quanto statuito dalla giurisprudenza amministrativa in materia di autotutela, la Corte ha ribadito che, in sede di annullamento d’ufficio, l’amministrazione non è tenuta a dimostrare in senso proprio l’insussistenza del rapporto, bensì ad accertare l’inidoneità degli elementi documentali a comprovare i presupposti della prestazione lavorativa subordinata. Tale impostazione valorizza la funzione pubblicistica dell’attività accertativa e preserva l’effettività della tutela previdenziale, evitando che l’amministrazione resti vincolata a provvedimenti adottati in assenza di istruttoria adeguata o sulla base di mere dichiarazioni di parte.

Sotto il profilo sistemico, l’ordinanza in commento conferma che la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato in ambito familiare, pur essendo ammessa in astratto, richiede una rigorosa attività dimostrativa, tanto più stringente quanto più stretta è la relazione affettiva tra le parti. L’interesse pubblico alla corretta applicazione delle norme previdenziali e alla prevenzione di abusi documentali impone un’interpretazione restrittiva della prova della subordinazione, che non può ridursi alla produzione formale di documentazione unilaterale o autoreferenziale.

La pronuncia della Cassazione riafferma una lettura sostanzialistica del rapporto di lavoro subordinato, fondata sulla piena verificabilità degli elementi strutturali e sull’insufficienza di presunzioni inverse alla gratuità. Si conferma, così, un assetto interpretativo orientato alla tutela della coerenza e dell’effettività del sistema previdenziale, nella prospettiva di un equilibrio tra autonomia negoziale e interesse pubblico all’integrità delle posizioni assicurative e contributive.

25 agosto 2025

La responsabilità sanzionatoria nel sistema delle società di capitali: autonomia soggettiva, abuso della personalità giuridica e concorso nella violazione alla luce della sentenza CGT Campania n. 1917/19/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

Il tema della responsabilità per l’irrogazione di sanzioni amministrative tributarie nel contesto delle società di capitali rappresenta una delle questioni più sensibili e complesse dell’ordinamento tributario, ove si intrecciano principi fondamentali del diritto delle società, del diritto amministrativo sanzionatorio e delle garanzie costituzionali del contribuente. La sentenza n. 1917/19/2025 della Corte di giustizia tributaria (CGT) di secondo grado della Campania si pone come significativa riaffermazione del principio di autonomia soggettiva dell’ente societario, chiarendo i confini entro cui può ritenersi giuridicamente fondata una responsabilità personale dell’amministratore in ordine a sanzioni derivanti da violazioni tributarie imputabili alla società.

La vicenda oggetto della pronuncia origina da un accertamento condotto nei confronti di una società a responsabilità limitata, alla quale veniva contestato l’indebito esercizio del diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) sulla base di operazioni soggettivamente inesistenti. L’amministrazione finanziaria, parallelamente alla notifica dell’avviso di accertamento alla società, ha emesso un autonomo atto di irrogazione di sanzioni nei confronti della legale rappresentante, ritenuta personalmente responsabile ai sensi degli articoli 9 e 11 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, in concorso con l’ente.

L’impugnazione proposta ha trovato accoglimento già in primo grado, con la declaratoria di illegittimità dell’atto per carenza assoluta dei presupposti normativi. L’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate è stato rigettato dalla CGT campana, la quale ha ribadito che l’imputazione personale delle sanzioni all’amministratore, in presenza di una società dotata di autonoma personalità giuridica e piena operatività, costituisce un’ipotesi eccezionale e come tale insuscettibile di applicazione presuntiva o analogica.

Il fondamento normativo del principio affermato dalla Corte va rinvenuto nell’articolo 7, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, il quale stabilisce che “le sanzioni amministrative relative al rapporto tributario proprio della società o dell’ente con personalità giuridica non si applicano ai soci, associati, amministratori e componenti degli organi sociali”. Tale previsione assume la natura di norma speciale rispetto alla disciplina generale del concorso di persone nella violazione amministrativa tributaria, dettata dal D.Lgs. n. 472/1997, e in quanto tale deve essere interpretata restrittivamente.

Secondo la giurisprudenza di legittimità – alla quale la pronuncia in commento si conforma – l’unico scenario in cui può derogarsi a tale principio è quello dell’abuso della personalità giuridica, cioè quando la società sia riducibile a mero schermo formale, privo di reale autonomia operativa, utilizzato per fini illeciti o elusivi, tali da giustificare una disapplicazione del principio di separazione soggettiva (cfr. Cass. civ., sez. V, ord. n. 10651/2022; Cass., sent. n. 28332/2018). In tale ipotesi, l’amministratore, anche se di fatto, può essere destinatario dell’irrogazione di sanzioni, ma solo a seguito di un rigoroso accertamento fondato su dati concreti, specifici e dettagliatamente motivati.

Il principio di autonomia soggettiva della persona giuridica – che riflette l’essenza stessa del modello capitalistico a responsabilità limitata – impone che il rapporto tributario e le relative conseguenze sanzionatorie siano circoscritte all’ente, salvo che si accerti, attraverso istruttoria documentata, l’instrumentalità della società rispetto a fini di frode fiscale o l’assoluta inoperatività della stessa.

La sentenza CGT n. 1917/19/2025 assume così rilievo sistematico anche sotto il profilo della tutela del principio di legalità e del principio di personalità della responsabilità, sancito dall’articolo 27 della Costituzione, che si proietta nel diritto tributario attraverso l’esigenza che ogni sanzione trovi fondamento in una precisa e accertata condotta soggettiva colpevole. In assenza di un comportamento attivo, doloso o gravemente colposo, l’amministratore non può essere destinatario di un’obbligazione pecuniaria derivante da illecito tributario dell’ente.

Appare altresì rilevante il profilo motivazionale: la Corte ha censurato l’atto impugnato anche per l’assenza di una motivazione congrua e individualizzata in ordine al presunto ruolo attivo dell’amministratrice nella realizzazione della violazione, ribadendo che la motivazione dell’atto impositivo non può limitarsi alla mera indicazione della carica rivestita, ma deve articolarsi su elementi fattuali concreti, coerenti e documentabili.

La pronuncia in esame conferma la tendenza a rafforzare le garanzie soggettive in ambito tributario, riconoscendo la centralità del principio della separatezza patrimoniale e della personalità giuridica quale limite all’irrogazione di sanzioni personali, salvo che non emerga in modo documentato una situazione di abuso della forma giuridica. Si tratta di un orientamento che, se coerentemente recepito anche in sede amministrativa, potrebbe contribuire a ridurre l’eccessiva esposizione dei rappresentanti legali a responsabilità ex lege, restituendo equilibrio tra le esigenze di tutela dell’interesse fiscale e i diritti fondamentali dei soggetti coinvolti nell’attività societaria.

25 agosto 2025